Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte III», sayfa 3
E Pio IX, di cui non abbiamo quasi più parlato?.. Egli ha rinnegata la patria e chiamati gli stranieri; il Vescovo d'Imola, l'ospite caro di Giuseppe e Antonietta Pasolini a Montericco, il Pio IX dell'amnistia e del Benedite, gran Dio, l'Italia sono scomparsi. In loro vece è il tristo ceffo brigantesco del cardinale Antonelli. Meglio, non parlarne più!!
I MOTI DI NAPOLI DEL 1848
CONFERENZA
DI
FRANCESCO S. NITTI
Ebbene – poichè l'accoglienza vostra è sì cordiale – permettete che vi dica che io non avrei dovuto parlare del '48 a Napoli. Non posso, non si può forse parlarne con severità; non vi è nemmeno la possibilità di una ricostruzione completa dei fatti. Troppe lacune, troppi errori: sopra tutto le passioni sono ancor vive e gli odii persistono ancora. I miei parenti furono tutti tra i perseguitati, anzi fra i tormentati dalla reazione borbonica. È difficile essere sereno; sopra tutto quando gli archivi conservano, ancora inesplorati, i soli elementi che possano gittare un poco di luce su tante cose che noi non sappiamo.
La difficoltà appare maggiore quando si pensi che sono ancora viventi non pochi di quelli che nel '48 a Napoli ebbero un'azione diretta. Essi sono forse i peggiori giudici: ma sono anche i più incontentabili. Chi ha operato non può essere un giudice; ma non può nemmeno esser contento di chiunque giudichi senza aver operato.
Le lotte tra i greci e i persiani, le aspirazioni di Filippo il Macedone si prestano alle considerazioni più varie; ma considerarle in un modo o in un altro non indignerà alcuno. Non si parla invece impunemente di quelle cose in cui i nostri padri, a ragione o a torto credettero, e per cui lottarono e soffrirono.
La storia dei fatti di Napoli dal 27 gennaio al 15 maggio non è che la storia di pochi mesi; pure, a chi vi guardi dentro, apparisce la spiegazione di non poche delle difficoltà presenti. Molte cose sono scomparse; permangono tuttavia alcune tristi eredità. E il desiderio di pronte mutazioni, e l'insofferenza di disciplina, e il credere che si possa in pochi chiedere e ottenere trasformazioni, sono mali derivati a noi dalle rivoluzioni liberali tra il '20 e il '60.
La rivoluzione del '48 non ebbe a Napoli nulla di grandioso: non fu molto diversa in altre parti d'Italia, ma la fine tragica diede altrove carattere di grandezza.
La costituzione del 1820, data a Napoli da un re fiacco e di malafede, dipese da un moto incomposto. La costituzione del '48 fu concessa per equivoco, fu soppressa di fatto dallo squilibrio di due paure: la paura che il re avea dei liberali e la paura che i liberali aveano del re.
Durante la dinastia borbonica la sola rivoluzione di Napoli che lasciò tracce durevoli e in cui vi fu il martirio dei migliori e dei più degni, fu quella del 1799: essa fu la condanna della monarchia borbonica; la vera, la terribile accusa che pesò sempre su Ferdinando IV e sui suoi successori.
Il 1820 avea lasciato due dolorose eredità, due idee non ancora scomparse del tutto.
La prima idea, comune alla monarchia e alle classi medie, che il regime politico potesse e dovesse esser mutato non per modificazioni progressive, ma quasi di assalto. Due sottotenenti e un prete aveano infatti nel 1820, per opera e con l'aiuto di una setta, determinato, sia pure fuggevolmente, un mutamento di regime.
Dal 1820 al 1848 appare dovunque l'idea che si deva operare di sorpresa, che pochi uomini di buona volontà bastino a tutto. La massa era indifferente: che importa? Le classi medie non aveano nessuna preparazione: ma era necessario che l'avessero?
I travisamenti della leggenda napoleonica faceano credere che un uomo solo potesse bastare a ogni cosa. Un patriota calabrese, che nei fasti del '48 ebbe gran parte, vedendo passare dei reggimenti della guardia reale, diceva al Settembrini che si sarebbe sentito con centomila baionette di fare più che Napoleone.
Fra il 1830 e il 1848 questo stato di animo determinò dovunque piccoli tentativi di rivolta. Ve ne furono in Sicilia, in Abruzzo, perfino alle porte di Napoli, nei Principati. Due o tre famiglie perseguitate o insofferenti, o che aveano antichi rancori, bastavano qualche volta a determinare rivolte locali.
In alcuni paesi si giunse a proclamare il regime costituzionale, a cantare il Te Deum in Chiesa; qualche volta si dichiarò perfino decaduto il Re.
Data la mancanza delle strade e l'insufficienza dei funzionari nelle province (accorrevano il più che si potesse nella capitale, che era la sola grande città del Regno nel continente), la monarchia borbonica avea in ogni paese una o più famiglie ricche o potenti, cui concedeva la sua protezione: in un piccolo centro rurale il potere era bilanciato tra il parroco e la famiglia più ricca. Era dunque esercitato assai spesso molto male e con la tracotante e volgare arroganza così comune alle famiglie ricche nei piccoli centri. La causa dei movimenti carbonari o settari spesso va cercata meno nell'odio per la monarchia che negli odii locali, nella prepotenza di qualche famiglia ricca (ricco volea dir spesso solo meno povero degli altri) che senza la nobiltà e la grandezza avea i pregiudizi e le idee di dominio dei vecchi feudatari.
La seconda idea, non meno dannosa della prima e che non è ancora scomparsa nè a Napoli nè nel resto della penisola, è che si possa ottener tutto dallo Stato in tempi di rivolgimenti. La burocrazia già numerosissima, assorbiva in ogni rivolgimento un certo numero di elementi nuovi. Quando prevalevano i liberali, come quando prevaleva l'assolutismo, vi era sempre lo stesso numero di persone in cerca d'impieghi. Anzi il Re dava per grazia e poteva quindi negare; ma i liberali che avean bisogno di suffragio e di aiuto, parea che non potessero e che non dovessero.
Ferdinando II, fra il '30 e il '48, cioè per diciotto anni, avea dato prova di molta mitezza e di molto accorgimento. Succedendo a un padre inetto e dopo periodi tristissimi per la vita della monarchia e del paese, avea trovato molto da fare, soprattutto moltissimo da disfare. E all'opera benefica di restaurazione si era accinto con ardore.
Pochi principi italiani fecero fra il '30 e il '48 il bene che egli fece. Mandò via dalla Corte una turba infinita di parassiti e d'intriganti; richiamò i generali migliori, anche di parte liberale, e licenziò gl'inetti; ordinò le leve militari; fece costruire, primo in Italia, una strada ferrata; istituì il telegrafo: fece sorgere molte industrie, sopra tutto quelle di rifornimento dell'esercito, che era numerosissimo; ridusse notevolmente la lista civile; mitigò le imposte più gravi. Giovane, forte, scaltro, volea fare da sè, ed era di un'attività maravigliosa. Educato da preti e cattolicissimo egli stesso, osò con grande ammirazione degli intelletti più liberi resistere alle pretese del papato e abolire antichi usi, umilianti per la monarchia napoletana.
Non coraggioso e non nato alle armi, avea compreso che il Regno di Napoli avrebbe avuta una grande importanza nella penisola se avesse avuto un solido potente esercito; e le truppe che avea trovato corrotte e demoralizzate avea cercato di risollevare e avea portato con grandi sacrifizi l'esercito stanziale a una cifra proporzionalmente molto superiore all'esercito attuale del Regno d'Italia.
Avea molti pregiudizi del tempo suo e del suo ambiente; era sopra tutto troppo napoletano; ma avea anche molto desiderio di fare.
È passato alla storia come Re Bomba e non si ricordano di lui che il tradimento della costituzione, le persecuzioni dei liberali, le repressioni di Sicilia e le terribili lettere di Gladstone.
Abbiamo troppo presto dimenticato che, durante quasi due terzi del suo regno, i liberali stessi lo chiamarono Tito e lo lodarono e lo esaltarono per le sue virtù e per il desiderio suo di riforme. Abbiamo troppo presto dimenticato il sollievo che le sue riforme finanziarie produssero nel popolo, e l'ardimento che egli dimostrò nel sopprimere i vecchi abusi.
Io sarei molto imbarazzato se dovessi paragonarlo a qualcuno. Questo re, morto non ancora cinquantenne, ha riempito di sè l'Europa: era un misto strano di avvedutezza e di paura. Avea tutta la volgarità e le finezze del popolo minuto: avea tutte le debolezze della grande maggioranza dei suoi sudditi, cui anzi soverchiava nel desiderio di riforme reali in favore del popolo. Misto di superstizione, di scaltrezza e di intelligenza; bonario, desideroso di assicurare al popolo una vita migliore. Era così poco nato per esser crudele, che quando dovè esserlo fu assai male: e le sue crudeltà furono esagerate e occuparono la stampa europea.
Quando vi furono rivolte contro la monarchia e perfino cospirazioni di soldati per ucciderlo, Ferdinando non usò alcuna ferocia: nessuno fino al 1848 fu condannato a morte per aver messo in pericolo il Re e la monarchia. Anche i poeti non cesarei esaltavano chi il gaudio del perdonar provò.
Da Carlo V in poi, se si faccia eccezione del regno di Carlo III, è impossibile trovare nella storia napoletana un periodo di più utili riforme, di maggior quiete e di maggior libertà di quello tra il 1830 e il 1848. In tutta l'opera di Ferdinando si nota un avviamento progressivo verso un regime più largo. Non era la costituzione liberale che egli sognava: ma un regime autoritario temperato da una serie di riforme. Non avea vedute larghe; ma nemmeno era cieco di mente, sì come han detto i suoi denigratori.
Ma le condizioni del regno delle Due Sicilie e il lievito che la rivoluzione del '20 avea lasciato e le difficoltà nuove che sorgevano per la influenza dei vari partiti e dei vari interessi rendevano non facile la funzione di governo, soprattutto non facile l'opera di riforme progressive voluta dal Re.
Prima di tutto fra le varie classi sociali – tranne forse nel popolo, devoto alla monarchia per antica tradizione monarchica e sopra tutto per avversione da prima ai baroni e poi alle classi medie e ricche – era uno scontento grande; un lievito che facea temere fermentazioni.
L'aristocrazia, diminuita costantemente da sessant'anni per opera dei re, guardava sospettosa. Il re Ferdinando con assai larghezza d'intenti avea chiamato alle cariche più importanti individui che non vantavano grandi casati, anzi nati umilmente. Era stato uno scandalo, n'era offesa soprattutto l'aristocrazia siciliana, così tracotante, così superba, così piena della sua grandezza e del suo passato.
Le classi medie, incitate dagli esempi di Francia, aspiravano a conquiste maggiori. La borghesia, come ho detto altre volte, non sorgeva nel Mezzogiorno dal traffico e dalla industria: ma dal commercio del denaro, dall'intermediarismo agrario e dalle professioni liberali e principalmente dall'avvocatura temuta e potente. Vi era numerosa turba d'impiegati; e sopra tutto di persone in cerca d'impieghi. Nel 1820 e nel 1848 i maggiori errori furon dovuti al grandissimo numero di aspiranti a impieghi, che si unì prima a coloro che volevano mutamenti politici e imposero la costituzione; e poi, non potendo esser contentati se non in poca parte, furono, con i loro eccessi, la causa maggiore della reazione assolutista diventata più che necessaria, inevitabile.
Non erano i partiti che mancavano nel regno.
Alla vigilia del 1848 fra le classi medie del reame vi erano anzi partiti politici numerosi, e numerose erano anche le gradazioni di ciascun partito.
Il partito di governo, il partito che raccoglieva le maggiori forze, era quello che volea la monarchia assoluta pura: el rey neto, come dicono gli spagnuoli. I fatti del '20 avean lasciato nei più ricchi e nei più desiderosi di pace un triste ricordo. Meno per convinzione politica, che per ignoranza della vita pubblica e per tradizione, i benestanti più ricchi vi aderivano: e vi aderivano anche coloro che per la loro situazione avean più facili e più sicure le carriere. Questo partito, così detto austro-spagnuolo o assolutista, perchè i suoi istinti e le sue tendenze lo spingevano appunto verso l'Austria e verso la Spagna, aveva avuto per leader il principe di Canosa da prima, il marchese Del Carretto da poi. Si componeva nella maggior parte di nobili, dell'elemento militarista e del clero ricco. Non solo odiava ogni riforma, ma trovava troppo liberale la politica del Re, e volea dighe maggiori a tutte le aspirazioni unitarie e liberali. Per sua natura stessa devoto alla monarchia, non osava discuterne gli atti: ma aspirava a esercitare un'azione più larga. Aderiva a questo partito e n'era l'anima la così detta camarilla, un partito formatosi tra i bassi fondi di Corte e inviso anche alla parte più moderata per il suo spirito d'intrigo. Non tutti però coloro che del partito austro-spagnuolo facean parte erano assolutisti. Alcuni solo per odio al murattismo e a ogni intervento straniero, preferivano una monarchia assoluta e napoletana.
I murattisti costituivano a lor volta un partito numeroso. Gioacchino Murat, francese, era stato re di Napoli quasi per un decennio; e benchè l'Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie, pubblicato per cura della Corte di Napoli non lo mettesse più tardi nemmeno nella serie cronologica dei Re di Napoli e Sicilia, considerandolo come un usurpatore, avea lasciato ricordo di sè. Era stato troppo poco per determinare odii profondi: ma avea pubblicato molte leggi buone e cattive, e avea combattuto bene a capo di schiere napoletane. Era bello, forte, arditissimo; forse un po' ciarlatanesco. Ma ciò non gli noceva in alcun modo. La leggenda di Napoleone, rimasta vivissima nel Regno, ripetuta, ingrandita, dava prestigio alla tradizione murattiana. In Francia con Napoleone III la fortuna di casa Bonaparte risaliva; parea naturale che anche a Napoli dovesse risalire. In alcuni la fede nella italianità era scarsa, anzi mancava addirittura il sentimento; altri credeva che fosse più facile per le riforme legare la politica di Napoli a quella di Francia. Fra i murattisti vi erano due fra le personalità più spiccate del reame: il generale Filangieri, che rappresentava tendenze militari, favorevoli a un assolutismo temperato e l'avvocato Bozzelli ch'era fra i desiderosi di costituzione liberale e che fu parte grandissima nei fatti del 1848.
Ma questa soggezione allo straniero, anche negli ordinamenti liberali, questo invocare principe straniero e leggi straniere anche per causa di libertà, offendeva molti. Il senso d'italianità si era venuto formando: anzi si può dire che i moti del 1848 ebbero in generale più tendenza unitaria che liberale, a differenza di quelli del '20, che furono esclusivamente costituzionali. Gli scritti di Gioberti, di Balbo, di D'Azeglio, soprattutto l'opera di Mazzini, infiammavano le menti. Si ebbero monarchici, federalisti, repubblicani: ma il nome d'Italia era ripetuto da tutti.
E vi erano ancora altri partiti e gradazioni infinite dei partiti maggiori.
Era però male grandissimo che il movimento costituzionale e riformista fosse composto di elementi che speravan solo da passioni e da interventi esterni; e che la monarchia o il partito austro-spagnuolo, rimanessero soli a difendere, insieme con la indipendenza del reame, anche la tradizione napoletana. Due fatti derivarono da ciò: da una parte l'avversione della monarchia napoletana a ogni riforma, e dall'altra, quando la unità fu realizzata, una debole partecipazione dei napoletani nei benefizi del nuovo ordine di cose e di tutta la funzione di governo.
La protezione che Ferdinando II parea accordasse ne' primi anni del suo regno agli studi coincideva con un risveglio intellettuale molto notevole. Il giornalismo, fra il '30 e il '48, attirò non pochi uomini di valore; era un giornalismo letterario, ma politicamente ebbe per effetto di far nascere il bisogno di cose nuove. Memorabile soprattutto lo studio del marchese Basilio Puoti, da cui uscirono De Sanctis, Settembrini e quanto di meglio ebbe Napoli; il purista grande, che affezionava gli scolari alla purezza dell'idioma italico e rinverdiva i vecchi testi, lavorava senza sapere, forse senza volere, alla grande opera dell'unità.
Vi era dunque nel Regno, alla vigilia del 1848, un movimento delle idee; vi erano partiti immensi e vi era soprattutto quel fermento che precede i periodi di rivoluzioni.
Ma la tradizione infausta della rivoluzione precedente e gli esempi recenti spingevano gli uomini più dissennati o più entusiasti a tentare da soli o in pochi trasformazioni profonde: e facea credere al sovrano che ogni manifestazione fosse effetto di setta o di organizzazioni tenebrose. Da una parte dunque si credeva che pochi uomini soltanto potessero scuotere le masse; non il martirio nobilmente sopportato, non il lavoro lungo e paziente di educazione progressiva, non l'opera assidua di tutti i giorni, ma i colpi di fortuna improvvisi. Pochi decisi a tutto uscivano in campo: i più numerosi seguivano e gridavano. Si voleva trascinare il pubblico. Le voci eran così alte e numerose, lo scoppio così improvviso, che il Re cedeva. A sua volta il Re esagerava la potenza dei liberali: dieci persone unite, che scendevano in piazza a gridare, credeva rappresentassero setta interminabile e tenebrosa. La storia del '20 non è tutta in questi sospetti e in queste debolezze?
Ora, verso la fine del 1847, nel fermento costituzionale che era in tutta Europa e con l'agitazione socialistica già vivace in Francia, nel Regno delle Due Sicilie doveano ripercuotersi necessariamente i fatti di oltre Alpe.
Gli annunzi delle riforme di Toscana e di quelle concesse a Roma da Pio IX produssero agitazioni vivissime tra i liberali di ogni gradazione. La condotta del Re era stata tale in passato, che egli pareva più disposto a concedere che a reprimere.
Durante il novembre e il dicembre 1847 vi erano state agitazioni e dimostrazioni. Nelle piazze, e fino sotto il palazzo reale, si era gridato: Viva il Re! viva la costituzione! Il Re non avea mostrato di gradir molto applausi di questa natura, e la polizia avea disperso i dimostranti e arrestato i più accesi tra essi.
La Sicilia, in cui già l'avversione per i napoletani più che per la monarchia borbonica era grande e in cui la tradizione e lo spirito separatista erano vivissimi, si agitava a sua volta ben più gravemente.
I moti di Sicilia, cominciati il 27 novembre con le dimostrazioni del teatro Carolino, al grido di: «viva Ferdinando II! viva Pio IX!» assunsero presto carattere diverso.
Si cominciò col chiedere alcune riforme amministrative: poi si chiesero modificazioni profonde nell'ordinamento amministrativo. La libertà non era la vera causa: quest'ultima bisognava trovare soltanto nel desiderio di ottenere con minacce di rivolte una completa divisione da Napoli. Infatti il movimento divenne presto separatista, e si volle che non altra unione vi fosse con Napoli che una unione personale: il Re comune e niente altro.
Come il movimento si allargava non solo si vollero le riforme, ma si vollero a scadenza fissa, quasi con un ultimatum: il Re doveva darle entro il 12 gennaio. Il Comitato di Palermo mandò emissari dovunque: si parlava d'indipendenza, più che di libertà. Il Re, per prudenza o per timore, mentre si decise a reprimere l'insurrezione, il 16 gennaio concesse in gran parte ciò che la Sicilia chiedeva: si disse che era troppo tardi, e l'insurrezione divampò.
Truppe furono spedite da Napoli per domare la rivolta di Sicilia: si batterono pigramente, furono battute e si ritirarono.
Trasformatosi il movimento da trasformista in rivoluzionario per colpa della Sicilia, le dimostrazioni di Napoli assunsero un carattere più minaccioso.
Il Re avrebbe potuto opporsi al movimento, mettersi a capo dell'esercito e resistere alle sedizioni e alle rivolte. Ma gli mancava l'audacia, e soprattutto credeva che i liberali, secondati dall'Inghilterra, avessero molto più forze che non avevano in realtà.
Il 26 gennaio, quasi per dar ragione ai dimostranti, licenziò il ministro Del Carretto, capo del partito assolutista, e lo fece imbarcare il giorno stesso per Marsiglia: i liberali che erano in carcere furono liberati e con essi Carlo Poerio.
Il 27 vi fu una grande dimostrazione.
Le concessioni, fatte sotto l'impressione dei movimenti di piazza, non doveano arrestarsi.
Il 28 il Re formò Ministero liberale: all'alba del 29 un Atto sovrano annunziò la costituzione liberale e i capisaldi di essa.
Dal 29 gennaio al 15 maggio, quando la costituzione fu uccisa dalle violenze della piazza, se pure nella forma fu ancora per qualche tempo mantenuta dal Re, non trascorsero che poco più di cento giorni. Ma la storia di quei cento giorni è così piena d'insegnamenti, più che di avvenimenti, che spiega non poca parte dei fatti posteriori.
In quei 100 giorni vi furono tre ministeri, presieduti i primi due dal marchese di Serracapriola, il terzo dall'insigne storico Carlo Trova.
Ferdinando non fece le cose a metà.
A capo della politica fu messo da prima il Tofano e poi Carlo Poerio, cioè l'anima dei comitati d'azione: Ministro dell'Interno fu chiamato Francesco Paolo Bozzelli, fino alla vigilia perseguitato e ritenuto da tutti il capo dei liberali napoletani; nelle province furono mandati a governare i liberali più noti: Imbriani, D'Ayala, de Tommasis, ecc.
Bisognava redigere lo Statuto: a chi darne incarico? Un uomo pareva più di tutti adatto. Era avvocato ed era autore di opere filosofiche e politiche; avea sofferto dura prigionia per ragioni di Stato; avea nei lunghi viaggi studiato, o si diceva che avesse, gli ordinamenti liberali in Francia, in Svizzera, in Belgio, in Inghilterra. Era o pareva un riformatore audacissimo e l'averlo il Re messo a capo del Ministero dell'Interno, indicava appunto il nuovo indirizzo. Il Bozzelli fu dunque incaricato di scrivere la costituzione.
Chi era quest'uomo che è stato grandissima parte degli avvenimenti del '48, che autore della costituzione e chiamato egli stesso a dare garanzia ai liberali, fu poi ministro di reazione e raccolse le ire de' suoi antichi seguaci? In tre mesi egli passò dalla più grande popolarità alla più estrema impopolarità. Era un avvocato e quindi facile al cavillo, amante della parola, desideroso di trionfi oratorii. Giuseppe Massari, che fu suo amico e suo compagno e poi gli divenne fiero nemico, quasi per insultarlo lo chiama sensista e materialista, quasi che l'essere materialista significhi non aver coscienza.
Certo era di una vanità senza limiti. E quando, per cedere alle pressioni dei liberali, Ferdinando gli affidò l'incarico della costituzione, credette di dover essere messo a pari dei grandi legislatori dell'antichità.
Chiesto da Carlo Poerio e da altri delle riforme che avrebbe introdotte nel nuovo Statuto, rispose con enfasi da avvocato: – Se Solone avesse discusso le sue leggi con gli amici, non avrebbe fatto opera immortale. —
In realtà Solone si contentò questa volta di scrivere 89 articoli, copiandoli quasi letteralmente e integralmente dalla costituzione di Francia e in parte da quella del Belgio.
Il 10 gennaio il nuovo Statuto fu pubblicato e il Re gli giurò fedeltà dinanzi ai principi, ai ministri e al corpo diplomatico. Volle che la cerimonia fosse solenne, e dicono che nel giurare era commosso. Era in buona fede? Qualcuno ha mostrato di dubitarne, ma gli stessi storici liberali convengono della sincerità delle sue intenzioni.
Proclamata la costituzione, la Sicilia avrebbe dovuto accettarla. Invece la ribellione continuò dovunque, e le truppe del Re furono discacciate e si ritrassero da tutta l'isola, tranne che dalla cittadella di Messina.
A Napoli l'entusiasmo raggiungeva il delirio.
Le dimostrazioni si succedevano alle dimostrazioni, le grida alle grida. Per settimane intere tutta la città imbandierata, uomini e donne con coccarde, spettacoli, rappresentazioni, perfino carri carnevaleschi con rappresentazioni allegoriche in odio al dispotismo e in onore della libertà.
Napoli si trovò di un tratto a passare da un regime di dispotismo quasi assoluto a un regime di libertà quasi illimitata. Libera la stampa, libere le associazioni, libere le riunioni; mancava l'educazione per godere di tanta libertà.
Un re che avea un esercito di circa 100 mila uomini e una grossa marina e saldi ordinamenti, avea accordata la costituzione non per lotta lunga e tenace, non per resistenza di popolo, ma perchè impaurito da grida e da dimostrazioni. Si credette che con le grida e le dimostrazioni tutto si potesse ottenere, dal momento che si era ottenuto il libero reggimento.
Era Napoli allora città di 400 mila abitanti, con poche industrie manifatturiere. Rappresentava il grosso centro di consumo di un regno di circa 9 milioni di abitanti. Vi era una corte ricca e fastosa, vi erano principi e principesse; vi era un numeroso corpo diplomatico, v'era una numerosa amministrazione e un numero grandissimo di soldati; circa 30 mila nella capitale e ne' dintorni.
Tutta la popolazione cittadina viveva dunque sullo Stato. Vi era un contingente non ricco e non prospero, e quasi tutto addetto a mestieri, in servizio della gente ricca. Grandissimo era il numero dei servitori; il popolo era vera plebe, cioè massa amorfa, capace di subite impulsioni, non cosciente, fantastico, abituato a servitù lunghe e rivolgimenti improvvisi.
La classe media viveva quasi esclusivamente delle professioni liberali e degli impieghi; avvocati e impiegati nel più gran numero.
Gli avvocati, i paglietti, quantunque diminuiti dalla pubblicazione dei codici, erano sempre potentissimi: causa di tutte le agitazioni, irrequieti, sempre disposti a sostenere qualunque governo come qualunque opposizione.
Enorme il numero degli impiegati.
Noi parliamo ora di burocrazia e siamo disposti a credere che si tratti di un male nuovo. Uno studio comparativo, fatto su documenti inconfutabili, prova invece che in molti dei vecchi Stati italiani vi era maggior numero d'impiegati che non vi sia ora in Italia, proporzionalmente, s'intende, al loro territorio e alla loro popolazione.
Nel reame di Napoli soprattutto e, non v'incresca d'udirlo in Toscana, più grande era il numero degli impiegati. La Toscana è addirittura il paese che ha dato, nella formazione delle pensioni italiane, un maggior contributo; avea anch'essa stuolo grandissimo d'impiegati. Ma, nel reame di Napoli, il cui reddito era quasi esclusivamente agricolo e in cui per il grandissimo numero di avvocati difficile ai timidi e agli onesti riesciva l'avvocatura, non vi era per la borghesia media altro scampo che negli impieghi. Parrà quasi incredibile, ma alcune amministrazioni napoletane aveano non solo relativamente, ma anche assolutamente maggior numero d'impiegati che ora non abbia tutto il regno d'Italia. Il figlio dell'impiegato succedeva al padre, il quale a sua volta era succeduto a suo padre.
Vi era una schiera infinita di postulanti, e il Re, per quieto vivere, a molti concedeva. Ora una costituzione era stata ottenuta con le grida; la massa dei disoccupati della classe media volle impieghi colle grida e con pressioni d'ogni specie.
Il primo ministero, in cui oltre il marchese di Serracapriola e l'avvocato Bozzelli, erano il principe di Torella, il principe Dentice e altra gente onesta e desiderosa di far bene, si trovò di fronte a difficoltà impreviste. La costituzione era data, e con essa il regime liberale; si era creduto che la libertà bastasse a tutto; si vide che a sua volta conteneva cause di malcontento.
La Sicilia, inorgoglita dei primi successi, non solo non accettava la liberalissima costituzione, ma si proclamava autonoma, dichiarava decaduto il Re e i suoi discendenti. Il Parlamento siciliano, vista l'impossibilità di una repubblica, decideva offrire e facea più tardi offrire la corona di Sicilia a Ferdinando di Savoia, duca di Genova, figliuolo secondogenito del re Carlo Alberto.
L'onorevole Crispi vi parlerà della rivoluzione di Sicilia, e vi dirà forse molto diversamente che io ora non dica.
Perchè la Sicilia non accettò la costituzione? perchè tentò in ogni guisa di creare ostacoli al Re? Perchè, si risponde, essa non avea fede nei Borboni.
Questa mancanza di fede non è in alcuna guisa dimostrata. Perchè furono appunto i siciliani che nel 1799 ospitarono il Re, e furono essi, che, durante la monarchia francese di Giuseppe e di Giovacchino, gli furono fedeli.
La Sicilia non era gravata d'imposte eccessive. Mentre adesso paga allo Stato per imposte circa 115 milioni all'anno, allora per le spese generali non contribuiva al bilancio dello Stato che tenuamente. Ancora nel 1860 il contributo della Sicilia alle spese generali del Regno non era che di 17 milioni.
Certamente i magistrati e i funzionari che il Governo mandava non erano sempre irreprensibili e molti erano egualmente sensibili al danaro e devoti alle persone potenti.
Ma le popolazioni siciliane, mantenute in uno stato di grande ignoranza, tutte le volte che potevano, mostravano il loro odio ai napoletani. Napoletano voleva quasi dire straniero. In più di un'occasione di impiegati e gendarmi napoletani fu venduta la carne nelle strade, quasi a selvaggia vendetta.
La Sicilia avea tradizioni separatiste fortissime. Per secoli avea avuta una monarchia propria e reggimento autonomo e istituzioni differenti dagli stati della penisola. L'aristocrazia feudale potentissima e più resistente che altrove, odiava la monarchia da cui era stata diminuita. La classe media, desiderosa d'impieghi, vedeva di mal'occhio i napoletani: ogni impiegato napoletano rappresentava un nemico e un concorrente. Il popolo non si era ancora abituato dal 1734, quando per la quarta volta la Sicilia fu unita a Napoli in uno Stato solo, a considerare i napoletani come connazionali; li considerava come stranieri e come dominatori.
Nel 1848 la Sicilia invitò un principe sabaudo, mandò molte bandiere e pochi uomini in Lombardia: ma in fondo fece un movimento separatista e fu la causa prima, come Settembrini e Massari riconoscono, della caduta del movimento liberale in Italia.
Non solo separazione politica da Napoli; ma i suoi rappresentanti, con eccessivo ardore, dichiaravano dal Re di Napoli non voler accettare nemmeno le cose buone.
Ora Ferdinando II avea creduto e gli era stato fatto credere che, all'annunzio della costituzione, la Sicilia si sarebbe calmata. Avveniva invece il contrario.