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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte III», sayfa 6

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I MOTI TOSCANI DEL 1847 E 1848

LORO CAUSE ED EFFETTI
CONFERENZA
DI
NICCOLÒ NOBILI

L'autore di questa conferenza non potè rivederne le stampe, perchè la morte lo incolse prima che il suo scritto vedesse la luce.

Del Senatore Niccolò Nobili, molti ricorderanno, oltre alle benemerenze civili e patriottiche, la gentilezza dell'animo e l'amore agli studi: di che la Società nostra ebbe più d'una prova, mentr'egli fu Presidente della Deputazione Provinciale, che concesse liberale ospitalità alle Letture nella Sala di Luca Giordano.

Correva l'autunno del 1845 quando in tutti i ritrovi delle città di Toscana e specie di Firenze, che ospitava gran numero di emigrati pontifici, l'argomento delle discussioni cadeva generalmente sopra le esorbitanti condanne pronunziate da una Commissione straordinaria in Ravenna. A quei parlari più liberi seguì tutto ad un tratto un dir sottovoce, con frasi tronche e interrotte, come se per l'aria ci fosse qualche cosa di misterioso e di grosso. Si parlava di armi giunte in Livorno, portate nascostamente a traverso la Toscana e introdotte nella Romagna papale. Si diceva che accordi fossero intervenuti tra le città delle Legazioni e delle Marche, che la fiera di Sinigaglia ne avea offerto il mezzo; che si voleva far pro del malumore suscitato dalle condanne ravennati e che tutto era fissato per una contemporanea rivolta. Ora se ne dava il giorno come sicuro, ora si diceva che nulla stava più bene, perchè da Rimini era venuto un contrordine e che, di ciò offesa, una parte dei cospiratori era rientrata in Toscana.

Mentre queste notizie, con le solite frangie, con le solite assicurazioni sopra l'autenticità delle fonti, correvano di bocca in bocca, si sa che la sommossa è scoppiata in Rimini; che un tal Renzi, con pochi de' suoi, s'è impadronito della caserma, ha arrestato i pochi ufficiali colti qua e là alla sprovvista ed ha proclamato il governo provvisorio sotto la sua presidenza.

Due giorni dopo, la sommossa era svanita. Le Marche, le Legazioni eran rimaste tranquille: il Renzi e una trentina de' suoi rifugiati in Toscana, avean consegnate le armi, colla promessa che tutti sarebbero imbarcati a Livorno e avviati verso la Francia.

Comunque abortito quel movimento, non il primo nè il solo, preconizzava un'agitazione popolare. L'atmosfera politica era grave di nubi, più o meno cariche di elettricità in ogni parte d'Italia, e neanche in Toscana il cielo potea dirsi tranquillo e sereno, benchè il clima, generalmente temperato e mite, non facesse temere lo scroscio di meteore devastatrici. E per metter subito da parte le forme rettoriche, mi spiego sul significato di questo mite clima toscano, delineando in breve il carattere del popolo, la condizione in cui questo si trovava al cominciare dei moti politici del 1846 e come vi fosse arrivato.

Fermatevi per un momento con me dinanzi ad una di quelle tante urne cinerarie etrusche, di cui è ricco il nostro Museo. Guardate quella figura d'uomo, distesa come sopra un lungo guanciale, col torso a metà sollevato perchè l'avambraccio fa sostegno e puntello alla testa: quella figura ha gli occhi aperti e fissi, non volti nè alla terra nè al cielo: è quello un atteggiamento mistico non di molle riposo; è figura di uomo che pensa e par che vi dica: son pronto a levarmi su non appena sia d'uopo. Or bene: molti secoli son decorsi, molte generazioni son passate, ma quella figura può rappresentare ancora il tipo della gente toscana. Questo popolo ha mente acuta e sottile, facile a discernere il lato pratico delle cose; mite d'animo, alla violenza riottoso, disposto a soffrire finchè sia possibile, ma pronto a levarsi su se tutto si dolga. E per questa sua tendenza a pensare piuttosto che a fare, si spiega come il popolo toscano, non dimentico mai di quella libertà di cui furono moderatori l'Alighieri, il Machiavelli, il Giannotti, e difensori il Capponi, il Ferrucci, il Buonarroti, siasi appagato del presente con le memorie del passato, abbia sopportato il giogo mediceo, soddisfatto dall'essersi saputo reggere anche da sè medesimo e di non aver accettato il duca Alessandro come padrone, ma come capo della repubblica; si spiega come andasse lieto che il Rinuccini pel trattato di Utrecht avesse dichiarato, a nome di Cosimo III che il Granduca non può disporre dello Stato, ma che spetta alla repubblica il deliberare; che Don Neri Corsini avesse ripetuto in nome del medesimo principe, al congresso di Cambray, che il Granduca non poteva permettere che si facesse offesa alla città di Firenze e al suo dominio, e infine che lo stesso Giovan Gastone avesse trovata lena abbastanza per protestare contro il trattato di Vienna del 1731, perchè ledeva i diritti dei popoli toscani e distruggeva la libertà di Firenze.

In uno Stato libero e indipendente, il popolo, comunque non libero, sente quasi di riflesso dallo Stato il sentimento dell'indipendenza e della libertà; e perciò, ancorchè il trattato del 1731 violasse davvero le ragioni del popolo, pure dichiarando la Toscana Stato sovrano, la riconosceva libera e indipendente, e il popolo se ne appagava tanto più facilmente, dacchè i Lorenesi mostravano della Sovranità saper far uso larghissimo.

Leopoldo I, infatti, aveva convertito in legge i concetti dei più eminenti pensatori di quel secolo, proclamata la libertà del commercio, gettato nella legislazione il seme di quelle franchigie, che doveva poi germogliare e portare i suoi frutti. Mutarono i tempi, e forse neanche quel Granduca, che si disse filosofo, potè dal limitato principio misurare l'ampiezza, cui l'avrebbe sospinto la forza irresistibile del progresso. Ma intanto il sentimento dell'indipendenza e della libertà si era affermato nell'animo delle popolazioni toscane. Con la libertà di commercio la Toscana era entrata nel gran movimento europeo; con la libertà di commercio aveva ricevuta la solenne sanzione della libertà del lavoro, che è ricognizione di proprietà e garanzia di uguaglianza, e si trovava così preparata ad accogliere senza urti, senza terrori, senza spargimento di sangue, la fiumana di quei grandi principii che, superando con l'89 i contini di Francia, avrebbero dilagata l'Europa.

L'impero napoleonico non dette alla Toscana la libertà, ma ne spezzò i ristretti confini chiamando a Parigi in Senato il principe Tommaso Corsini, il Fossombroni, il Venturi, il Giera; nel Consiglio di Stato Don Neri Corsini, il Giunti, il Serristori, il Capei, e al Corpo Legislativo i rappresentanti dei tre Dipartimenti dell'Arno, dell'Ombrone e del Mediterraneo. E comunque la Toscana non facesse parte di quelle regioni, con le quali costituiva il Regno d'Italia, pure l'idea che dall'Alighieri in poi aveva agitata la mente dei nostri pensatori, era divenuta realtà: in quel nome di Regno d'Italia era racchiusa una grande promessa, il germe dell'unità nazionale era gettato nella mente e nel cuore del popolo.

Napoleone aveva offeso, e non impunemente, il principio di nazionalità, che alla lor volta invocavano le potenze alleate per dare alle loro armi quella forza che fino allora non avevano avuta; nè temevano esse di acuirlo col concetto dell'unità, tanto avevano in animo, a tempo e luogo, di soffocarlo. Era infatti il principio dell'unità nazionale che il Nugent invocava nel proclama di Ravenna, quando sotto l'intestatura: Regno d'Italia indipendente, scriveva: «Italiani, non state più in forse; siate italiani, e le nostre forze congiunte faran sì che l'Italia divenga ciò che ella fu già nei tempi migliori.»

Era il principio dell'unità nazionale, che più tardi tornava a invocare l'arciduca Giovanni quando diceva agli italiani: «Non d'altro per voi v'è bisogno che di volere: sarete novellamente italiani, e l'Italia tornando a nuova vita, tornerà ad avere il suo grado tra le nazioni.»

Dopo breve volger di tempo, le Potenze alleate, manipolando i trattati del 15, cadevano, per la ebrezza della vittoria, nel medesimo errore del loro grande avversario, sconfessando quel principio che poco prima aveano invocato. Divisa in brani l'Italia, anche la Toscana fu dichiarata proprietà di Ferdinando d'Austria.

La natura ha leggi somiglianti nel campo fisico e nel campo morale; e come il sonno dà nuova vigoria alle forze esaurite degli animali, lo stato di quiete e di raccoglimento dà alle idee, affinchè si facciano strada nella coscienza dei popoli, quella potenzialità che non hanno quando dapprima si palesano alla mente del pensatore, o si lasciano intuire dalla ispirata fantasia del poeta. E il sentimento, in cui si rispecchiavano le idee dell'indipendenza, della libertà, dell'unità nazionale, restò apparentemente sopito, e non diè per lungo tempo altro sintomo di vita che quello di qualche raro movimento politico.

Il sentimento dell'unità nazionale restava peraltro sempre vivo nella coscienza del popolo toscano, e, come costantemente accade, si rivelava nella ispirazione dei suoi poeti. Il Giusti, il poeta popolare, faceva dire allo Stivale:

 
Fatemi con prudenza e con amore
Tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.
 

E poco innanzi Giovanni Battista Niccolini, il poeta civile, aveva fatto dire al suo Procida:

 
Fui di Manfredi amico, e grande ed una
Far la sua patria ei volle;
 

come più tardi, quando nella Cappella del Pretorio fu scoperto il ritratto di Dante, lo stesso Niccolini con felice ispirazione cantava:

 
Voi che la tenebrosa
Coltre del tempo, che all'Italia aggrava
La sua fronte immortal, levare osate,
Or colla mano ardita
Le molteplici bende lacerate
Onde gelida a lei corre la vita,
Perchè di tanti non sia più mancipio
Ritorni alla beltà del suo principio;
Generoso disegno
Da sì lungo servaggio alzarla a regno!
 

Era questo popolo toscano che sentiva nel suo idioma ardere il fuoco sacro dell'unità nazionale!

In quel periodo non breve dal 1815 al 1845, in Toscana e specie in Firenze si viveva come in una famiglia. Dell'aristocrazia feudale, spossata già dalla repubblica democratica e dalla mollezza medicea, morta e seppellita con le riforme leopoldine, non si aveva neppur l'idea. Le famiglie più illustri eran venute su dal commercio, e salite a potenza per dovizie e per fama, perchè taluno dei suoi, in casa o fuori, aveva fatto fortuna nelle arti della seta, o della lana, o del cambio, e perchè non era mancato mai chi o col consiglio, o con la dottrina, o con l'opera, ne tenesse il nome alto e venerato. E il popolo, che sapeva esser quelle famiglie uscite dal proprio seno, le amava e le rispettava, quasi ne traesse ammaestramento che il lavoro le aveva nobilitate, e che il lavoro apriva a tutti la via onde conseguire dovizie ed onori.

Il Governo lorenese, benchè assoluto, era stato quasi sempre paterno, nè quando avesse voluto infierire, avrebbe trovato in Toscana un Riccini o un Del Carretto. I Ministri del Granduca, mancati alla vita il Fossombroni e Don Neri Corsini, non avevano una gran levatura di mente, e, se ligii per paura all'Austria, eran di buona pasta e d'animo mite. L'epigramma era l'arma del popolo se offeso dalla prepotenza di qualche Commissario di polizia. Le sètte in Toscana non attecchivano, se si eccettua, per le sue condizioni speciali, Livorno; i Gesuiti cacciati da Leopoldo I, non eran più riusciti a mettervi piede, e fu per il popolo toscano un vero olocausto alla libertà e all'unità conquistata, quando il nuovo regno schiuse loro i vietati confini dell'ex Granducato. Le scuole eran poche, ma buone ed intese a istruire e a educare: la gioventù era generalmente ammaestrata nelle Scuole Pie, e bisogna pur dire che quei Padri, con l'insegnamento classico in specie, si studiavano di formare il carattere dei loro alunni; e instillando ad essi nel cuore l'amor della patria, li educavano ad essere e a sentirsi italiani.

A diffondere le idee liberali non si trascurava mezzo ne occasione. E per offrire qualche esempio, il marchese Cosimo Ridolfi, anima candida, di grande ingegno e di largo sapere, lasciava il proprio palazzo in Via Maggio e andava ad abitare nella Pia Casa di Lavoro, della quale aveva assunta la direzione, per dare con l'esempio delle sue virtù, con la dolcezza della sua parola il più utile degli ammaestramenti a quei giovani là ricoverati. Il barone Bettino Ricasoli, uomo di elevati sentimenti, di saldi propositi, nei doveri verso la famiglia e verso la patria rigidissimo, si ritirava nel suo Brolio per dare ai suoi numerosi coloni un catechismo di morale insieme colle pratiche dell'agricoltura. L'Accademia dei Georgofili, discutendo delle libertà economiche, teneva vivo il sentimento delle libertà civili e politiche. Il Vieusseux, col suo gabinetto, dove convenivano pensatori, letterati, studiosi da ogni parte d'Italia, e con la sua Antologia, faceva larga propaganda d'idee liberali; e cessata l'Antologia per ordine del Governo, ne tenevano il luogo le edizioni di Felice Le Monnier, alle quali le ostilità e i divieti degli altri governi italiani, davano, mercè la clandestina diffusione, una più potente efficacia.

Da tutto quanto vi ho esposto, facile è il dedurre come nessun popolo in Italia più del toscano, si trovasse all'alba del 1846 temperato agli alti ideali della libertà, dell'unità nazionale, e per essi pronto ad agitarsi, e a combattere!

Quel Renzi, che aveva così infelicemente condotta la sommossa di Rimini, era di nascosto tornato in Firenze, e saputolo monsignor Sacconi, incaricato apostolico, ne aveva chiesta l'estradizione fondandosi sopra un vecchio trattato conchiuso tra il Granduca e il Pontefice. Grandi simpatie si destarono in tutta la Toscana a favore del Renzi, e Vincenzo Salvagnoli dettò una commoventissima supplica, che la stessa moglie del Renzi presentò, piangendo, al Granduca. Tutto fu inutile; nel Ministero toscano non era più chi potesse resistere a Roma: e con grande e generale rammarico, nella notte del 24 gennaio il Renzi, condotto al confine, fu consegnato ai soldati del Papa. Se poi il Renzi non si mostrò degno di tanta simpatia, ciò non tolse che il popolo giudicasse severamente e principe e governo, e che una eletta schiera di giovani, che si disse ispirata dal Montanelli, per combattere in nome della libertà, cominciasse allora e per quel fatto a valersi della stampa clandestina, arma potente ma pericolosa, e che avrebbe poi contribuito a precipitare il movimento a rovina.

Vincenzo Gioberti col suo Primato aveva apertamente posta la questione del risorgimento italiano, e comunque non si prestasse, specie in Toscana, gran fede ad una federazione di Stati sotto la presidenza del Papa, la discussione era sorta, ed era buono che i Gesuiti l'avessero inasprita, spingendo il Gioberti a modificare e temperare coi Prolegomeni il suo primo concetto. Mentre il dibattito si faceva sempre più vivo, e lo stesso guelfismo lo rendeva più acutamente avverso all'Austria, moriva senza rimpianto Gregorio XVI, ed era in breve ara proclamato a suo successore Giovanni Mastai Ferretti vescovo d'Imola, uomo di molto cuore, ma non di gran mente, e che cedendo agli impulsi dell'animo buono, iniziò il suo regno con la solenne amnistia di tutti i condannati politici, dei quali rigurgitavano le galere e le carceri pontificie.

Se il principe di Metternich, profondo conoscitore degli uomini e delle cose, fu costretto a confessare che un papa liberale non se lo era immaginato mai, si capisce come quell'atto magnanimo del nuovo Pontefice rendesse stupefatta l'Italia e l'Europa. Le idee giobertiane non eran più delle vane utopie. Ai liberali italiani l'amnistia, invece che la espressione di un mero sentimento di carità cristiana, apparve come la rivelazione di un gran concetto politico; e il fatto del papa liberale, mentre afforzò il sentimento dell'indipendenza e della libertà, di tanto avvivò il concetto della federazione di quanto fece impallidire e annebbiare quello dell'unità nazionale.

Che se al Congresso degli scienziati italiani apertosi in Genova nel novembre, al quale per concessione del Papa intervennero anche i romani, si parlò di scienza, ma non meno di politica, e di confederazione tra i principi con a capo o Carlo Alberto o Pio IX; se a dire del. Lambruschini quel Congresso per altezza e saviezza di sentimenti superò tutti gli altri; se nel 5 e nel 6 di dicembre si festeggiò, pure in Genova, il centenario del Balilla, e per suggerimento del Mamiani, a mostrare la conformità degli intenti, in quelle due sere si accesero grandi fuochi su tutte, fino sulle più lontane vette dell'Appennino, era sempre il principio dell'indipendenza e della libertà non dell'unità che informava e i parlari degli scienziati e le dimostrazioni del popolo.

Ma intanto lo spirito reazionario aveva levata la testa; chiamava Pio IX un intruso, un vecchio massone, un incredulo: negli Stati pontifici erano a fronte gregoriani e piani, in Toscana retrogradi e riformisti, e la scissura, entrata fra i liberali, li aveva divisi in moderati e in esaltati. Alle lettere politiche, con le quali il Balbo accusava le società segrete, rispondeva irosamente il Montanelli con un opuscolo firmato Un Romagnolo. E mentre le forze dei liberali si sciupavano così nell'attrito delle accuse, delle querimonie, delle violente difese, i partiti estremi toglievano occasione dalle sofferenze delle classi povere per la carezza dei cereali prodotta dalle scarse raccolte, onde soffiare nel fuoco e far scoppiare disordini in Modigliana, in Pistoia, in Monsummano, e più gravi ancora in Livorno. Il 1847 cominciava sotto cattivi auspicii, e dava a credere che sarebbe stato torbido e burrascoso.

La restituzione del Renzi e il sospetto che la Toscana dovesse servire ai raggiri dell'Austria aveva scemato l'affetto per il Principe, e reso impopolare il Governo. Si sapeva che il Neuman, ministro austriaco presso il Granduca, gli aveva offerto il concorso delle truppe imperiali per sedare i tumulti che avvenivano ora in questa, ora in quella parte della Toscana. Erano per di più arrivati in Firenze Francesco V di Modena, che da poco aveva ereditato dal padre il regno e l'odio dei suoi sudditi, e insieme con lui l'arciduca Ferdinando d'Austria, quello stesso che l'anno innanzi comandava la Gallizia, quando l'Austria, armata la mano dei contadini, aveva coadiuvata la più orribile carneficina di migliaia di polacchi, ed era giunta perfino a impedire le collette per le vedove delle vittime e per gli orfani, dei quali per più che 200, ancora infanti, non si conosceva neppure il nome, perchè i parenti, gli amici, i domestici loro erano stati uccisi in quell'immane eccidio.

Naturalmente i fiorentini guardavano di mal'occhio i due ospiti, e nel modo medesimo, poco dopo, i pisani guardavano l'arciduca Ferdinando, il quale si era recato a Pisa, dove aveva palazzi e terre ereditate dalla madre Beatrice Cibo d'Este, e di là corrispondeva col Duca Carlo Lodovico di Lucca, uomo che in vita sua ne aveva fatte di tutti i colori; libertino, protestante, cattolico, liberale e in quel momento assolutista arrabbiato. E là si trattenne l'Arciduca finchè, annoiati i pisani per la sua presenza, con una pacifica ma espressiva dimostrazione dinanzi al suo palazzo, lo costrinsero a tornarsene in Austria donde era venuto.

L'incertezza che dominava nel governo, si manifestava ogni giorno o col lasciare andare, o col prevenire soverchio, ora col subitaneo rifiutare, ora col troppo tardo concedere; e intanto l'agitazione cresceva. I così detti Bollettini della stampa clandestina fioccavano frequenti, ma non più da una sola e medesima fonte. Alla stampa dei giovani liberali, la quale se talvolta aggressiva, era ispirata pur sempre agli alti ideali della patria, si era aggiunta quella dei retrogradi e del partito d'azione; questo che voleva tutto e subito, quelli che cercavano di mandare tutto a rifascio il più presto possibile. La polizia si arrovellava invano per scoprire gli autori della così detta clandestina, e per sbizzarrirsi ficcava in prigione gran numero di operai tipografi, bandiva dalla Toscana il marchese Massimo d'Azeglio, ed esigeva dallo stesso Ministro Cempini che il figlio di lui, Leopoldo, giovane d'alto ingegno, d'animo aperto, di affetti e di entusiasmi facile, liberale fervido, ai compagni agli amici carissimo, dovesse a suo malgrado fare un viaggio in Germania.

Ciò non ostante al Granduca e ai suoi Ministri non mancarono consigli valevoli a cancellare le insorte diffidenze e riportare la calma nelle popolazioni. Il marchese Cosimo Ridolfi, il quale come Aio del Principe ereditario, aveva consuetudine col Palazzo Pitti, non lasciava occasione per parlare al Granduca di ciò che il Paese desiderava, tanto che gli amici gli avevano dato il nome di Predicatore, comunque e' dicesse che predicava al deserto, e paragonasse l'animo del Principe a una lavagna, sulla quale si poteva scrivere ciò che si voleva, ma sulla quale chiunque venisse dopo, cancellava e riscriveva con la medesima facilità. Bellissima nella sostanza e nella forma è la petizione che il barone Ricasoli presentava al Cempini nel 3 marzo, esponendogli quale fosse il vero stato della Toscana, quali le necessità, quali i pericoli, e per quali mezzi fosse possibile scongiurare questi e a quelle provvedere. Saggi consigli, che il Ricasoli aveva maturati col Lambruschini e col Salvagnoli, e che avrebbero infrenato il movimento col farsene il Governo stesso guida e moderatore, e ridestato verso il Sovrano i sopiti affetti del popolo!

Il Cempini lodò la petizione e promise di presentarla al Granduca; ma poi dicendo che si trattava di cose assai gravi e che occorreva tempo a ben ponderarle, pose tutto a dormire: se non che contro quel sonno cospiravano gli eventi. Pio IX in quel mentre emana un editto sulla stampa che tempera quello del 1825, e sorgono immediatamente due giornali, il Contemporaneo a Roma, il Felsineo a Bologna. E il Ricasoli, che nella sua petizione aveva esposta la necessità di render libera ogni onesta manifestazione di pensiero, torna dal Cempini, gli presenta una seconda petizione, dimostra il grave pericolo che la stampa clandestina ecciti ancora le passioni popolari, e l'urgenza che una legge sulla stampa sia emanata dal Principe con tutta l'apparenza della più assoluta spontaneità, e unisce alla petizione anche un disegno di Legge redatto dal Salvagnoli.

Per mala ventura i liberali moderati trovarono in ciò un punto di disaccordo. Tutti deploravano le intemperanze della stampa clandestina; ma, per frenarla, gli uni volevano ottener dal Governo il permesso di istituire un giornale, che sostenendo i principii della libertà commerciale rassicurasse il paese dai timori di perturbazioni popolari e di attacchi alla proprietà, e dasse allo Stato la forza morale occorrente con lo spingere i cittadini a valersi delle neglette istituzioni municipali; gli altri sostenevano che prima di fondare un giornale si doveva ottenere che una legge sulla stampa fissasse nettamente i diritti e i doveri dei cittadini. Antesignano dei primi il Capponi, dei secondi il Ricasoli: la discussione si faceva sul Felsineo di Bologna, scrivendo per questi il Salvagnoli ed il Buschi, per quelli il Digny. Ragione del discutere era il dubbio se la stampa clandestina potesse combattersi, quando il mezzo legale per esprimere liberamente il proprio pensiero non si fosse prima ottenuto. Validi gli argomenti degli uni e degli altri, ma deplorevole che le forze si scindessero quando più occorreva che si spiegassero unite.

Il Governo studia a lungo, e di malavoglia il 5 di maggio emana una legge non peggiore di quella romana, ma ispirata dalla paura, dalla diffidenza, e dalla caparbietà poliziesca. Niuno se ne accontenta, e per quanto si voglia festeggiare la legge sulla stampa libera, la dimostrazione a Firenze riesce meschina, ostile a Siena, tumultuosa a Livorno.

Si comprese, è vero, che certe restrizioni filate d'ottobre non sarebbero giunte a novembre; ed uno dei primi atti dell'ufizio di revisione in Firenze fu quello di permettere al Salvagnoli la ristampa del suo Discorso sullo stato politico della Toscana, in cui esponeva francamente ciò che principe, governo e privati avrebber dovuto fare per conseguire il bene e preparare il meglio di questo paese. Di giornali, primo sorse l'Alba diretta dal La Farina, scrittori il Vannucci, il Mayer, il Mazzoni, la quale non ostante gli entusiasmi per Pio IX, si chiarì presto avversa al poter temporale. Uscì quindi la Patria, diretta dal Salvagnoli, in cui scrivevano il Lambruschini e il Ricasoli; e questa per il suo stesso programma – alleanza tra libertà e principato – quando, invece di attutirsi, crebbero le diffidenze contro il governo toscano, si orientò verso il Piemonte. In Pisa era sorta l'Italia, la quale, diretta dal Biscardi con la collaborazione del Centofanti, del Giorgini e del Montanelli, s'ispirava al misticismo dell'idee giobertiane. Il Corriere Mercantile in Livorno si era trasformato in giornale politico.

Ma quasi che il movimento non fosse abbastanza rapido, un altro fatto venne ad imprimergli un impulso nuovo. Riccardo Cobden, il propugnatore nel Parlamento inglese delle istituzioni toscane sulla libertà del commercio, era nel maggio giunto in Firenze. La pleiade dei liberali, che aveva come suo centro l'Accademia dei Georgofili, brillava di nuovo splendore. Nelle allocuzioni, nei banchetti, nei parlari amichevoli, al tema delle libertà commerciali si associava quello delle libertà civili e politiche, e il Lambruschini chiudeva i festeggiamenti inneggiando alla libertà universale, che sarebbe stata la santa alleanza dei popoli e la preparatrice dei tempi, ai quali è promesso un sol gregge e un solo pastore.

Il popolo, che dalle parole stesse del Cobden autorevolmente apprendeva come la piccola Toscana fosse stata presa ad esempio di libertà dalla potente Inghilterra, se ne sentiva altero, e la brama delle riforme liberali rinfocolatasi, gli faceva provare più odiose le incertezze e le resistenze governative; ciò che addimostrava così rumorosamente, che alla fin di maggio il Governo si trovò costretto ad annunziare essere stato dal Granduca deciso che fossero rivedute le leggi municipali, compilato il codice civile e quello penale, e a Commissioni speciali, oltre questi studi, fosse affidato anche quello sul modo di ampliare la Consulta estendendone le ingerenze consultive sui pubblici affari. Grave errore il non fare e promettere, più grave ancora il promettere timido e indeterminato!

Mentre il Governo oscillava così tra il fare e il non fare, Pio IX nel luglio concede la guardia civica; di lì a poco le truppe austriache in onta ai trattati occupano la città di Ferrara; e una congiura contro la persona del Pontefice è scoperta, supposta esistere in Roma. Dai quali fatti gli animi dei toscani sono un po' naturalmente, ma più ancora ad arte talmente eccitati, che tumulti e violenze avvengono in Siena, in Arezzo, in Livorno, e sciaguratamente il conflitto avvenuto in Siena tra carabinieri e studenti, finisce colla morte dello studente Petronici, di cui l'accompagnamento funebre se poco ha di pietà, molto ha di solenne e di minacciosa protesta.

Don Neri Corsini, Governatore di Livorno, mosso da un nobile sentimento di dovere verso il paese e verso il Sovrano, prima che quei tristi fatti accadessero si era rivolto al Granduca esponendo la gravità delle cose, deplorando che le promesse del maggio antecedente non fossero in nulla adempite, e proponendo i modi per render la Consulta proficua, e al bisogno dei tempi più consentanea la legge sulla stampa. Nè il clamore dei giornali, nè le dimostrazioni popolari, nè le raccomandazioni di nuovo dirette dal Corsini al Principe e al Ministero valsero a troncare gl'indugi. Anche adempite, le promesse fatte nel maggio più non sarebbero bastate; i fatti di Ferrara e di Roma un'altra istituzione reclamavano. Il popolo voleva le armi e chiedeva la guardia civica.

Era fatale che alcuni dei Ministri per servilità verso l'Austria, altri per cieca debolezza, dovessero accordarsi nel temporeggiare, finchè costretti a fare qualche cosa in fretta e furia, la facessero male. Nel 24 agosto fu emanato il Motuproprio che riformava la vecchia Consulta in modo affatto manchevole, e la componeva quasi interamente di dipendenti dalla Corte e dal Governo. L'istituzione apparve illusoria, si tacque peraltro perchè nella Legge si diceva che la Consulta, per suo primo affare, doveva riferire sulla convenienza di istituire la guardia civica. Ma quando era decorso l'agosto e la Consulta non si adunava ancora, il fermento si spinse a tale, che in Livorno in una radunata di popolo si trattava di andare in massa e armati a Firenze, ingrossando per via, e là chiedere tumultuando la immediata istituzione della guardia cittadina.

Il pericoloso disegno si sarebbe portato ad effetto se la sagacia di Don Neri Corsini non riesciva a fare adottare invece l'invio di una Commissione presieduta dal Gonfaloniere; la quale immediatamente partì, portando al Cempini una lettera del Governatore. La Consulta, convocata per urgenza la mattina di poi, 4 settembre, espresse, ne a quell'ora poteva caderne dubbio, il voto favorevole, e un Motuproprio sovrano dichiarò la guardia civica istituzione dello Stato.

Gli affetti delle moltitudini son facili a fortemente manifestarsi come a passare da estremo a estremo, dalla fede alla disperazione, dall'amore all'odio, dalla pietà all'ira, dal dolore alla gioia; e appena nel pomeriggio del 4 si conobbe il voto della Consulta, la popolazione, che ieri rumoreggiava e fremeva, proruppe in giubilo: un solo e medesimo pensiero cadde come per incanto nella mente di tutti: domani, giorno di festa, dimostrazione al Granduca. L'accordo era prima fatto che proposto; e fu un subito correre di qua e di là, un affaccendarsi per improvvisare pennoni, stendardi, bandiere, avvisare gli amici, raccoglier bande musicali, dare a tutti il convegno intorno al tempio d'Arnolfo. E la mattina della domenica, un ventimila persone erano assiepate sulla Piazza del Duomo, disposte in ordine militare, divise come per compagnie e per plotoni, con un vessillo innanzi a ogni gruppo. Quando la testa di quella colonna fu pronta per muoversi, una brigata di giovani contadini le si fa innanzi e un di loro dice modestamente: «Non abbiamo bandiera, lasciateci unire, slam fratelli anche noi.» Quella parola fu come una corrente elettrica che percorresse tutte le fibre di quella massa di popolo: fu un grido entusiastico di Viva i fratelli, che accolse quei giovani e che si ripetè da tutti, senza che i più ne sapessero la ragione. Traversata la città giunsero i dimostranti tra il suono delle bande e i gridi di Viva Leopoldo, Pio IX, l'Italia, e senza un grido che suonasse per nessuno odio o disprezzo, sulla Piazza dei Pitti, dove l'entusiasmo salì a tale che il vicino abbracciava e baciava il vicino con le lacrime agli occhi, e si separavano senza che l'uno sapesse dell'altro nulla di più che erano italiani ambedue. Una Commissione, di cui erano a capo Ferdinando Bartolommei e Ferdinando Zannetti, due cuori ardenti di libertà, di nobile lignaggio, di pronto ingegno, d'animo generoso, il Bartolommei, pieno di sapere e di modestia, amato dai discepoli e dal popolo il professore Zannetti, salì a ringraziare il Granduca, il quale commosso affermò la sua determinazione di compier l'opera riformatrice. Circondato a quell'ora dall'amore di una intiera popolazione, era il cuore che parlava per lui, nè lo spettro dell'Austria poteva farlo scientemente mentire!

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 eylül 2017
Hacim:
130 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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