Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III», sayfa 6
IL RISVEGLIO DEGLI STUDI
DELL'ANTICHITÀ CLASSICA
CONFERENZA
DI
GIROLAMO VITELLI
Signore e Signori,
Non è mio costume eludere con sottili accorgimenti le difficoltà di quel che imprendo a fare, ovvero liberarmi con disinvoltura dalle responsabilità che mi toccano; e se veramente fossi responsabile della conferenza, che vi toccherà udire, saprei anche addossarmi la responsabilità che me ne verrebbe, e chiedere umilmente perdono di avervi ingannato con un titolo pomposo e di disilludervi ora con un discorso, a dir poco, troppo modesto; ma la mia generosità non arriva a tanto da rispondere di colpe così gravi, quando non sono colpe mie. Sarò generoso soltanto in questo, che non vi mostrerò a dito il colpevole, quantunque io lo veda sorridere maliziosamente fra i miei gentili ascoltatori.
Lo conferenze a cui avete assistito finora, e quelle che ascolterete in questa sala in quest'anno, tutte più meno si sono contenute e si conterranno nel limite cronologico del periodo eroico del nostro risorgimento nazionale, suppergiù dal 1848 al 1860. Ora, che cosa dovrei io dirvi del risveglio degli studi classici in così ristretto periodo di tempo, quando ai nostri migliori ben altre cure incombevano che non fossero quelle di interpretare Cicerone od Omero? Dovrei forse ricordarvi e spiegarvi quanta ragione avessero i nostri giovani di lasciare in seconda e terza linea gli studi che immediatamente non avrebbero per nulla giovato alla indipendenza, alla libertà, all'unità della patria nostra? Dovrei dirvi, in somma, che risveglio di studi classici non vi fu allora, nè vi poteva essere, nè vi doveva essere; o forse dovrei mettermi alla faticosa ricerca di quei quattro o cinque solitari illustri che, pure accompagnando col pensiero e coi voti l'èra nuova, ingannavano le ansie delle aspettazioni, investigando alla «fioca lucerna» d'una modesta stanza di lavoro le costituzioni, la lingua, la civiltà dei nostri padri antichi? Altri da codesto vivo contrasto di operosità politica e di studi tranquilli saprebbe trarre eloquentemente partito, lo riuscirei soltanto a dimostrarvi quello che già sapete, che una rondine non fa primavera, che un illustre epigrafista, un valoroso interprete di Tucidide, un geniale investigatore di memorie antiche può lasciare orme indelebili del suo ingegno e della sua dottrina nella storia della scienza, ma non per questo la nazione a cui egli appartiene e il popolo in cui egli vive possono e debbono esser considerati come coefficenti e fattori di progresso scientifico. Voi non ignorate qual tesoro di dottrina e di genialità filologica possedesse il poeta dell'Ultimo canto di Saffo e della Ginestra; sapete anche però che non soltanto nel «natìo borgo selvaggio,» ma neppur nei grandi centri di cultura italiana quell'ingegno e quel sapere trovarono eco. Fu miracolo che alcuni dei nostri migliori, e sia gloria a Pietro Giordani, se ne accorgessero; e vi fu bisogno che dotti stranieri rivelassero all'Italia Leopardi filologo. Sempre nella prima metà di questo secolo che muore, e che alcuni a dispetto di ogni aritmetica hanno già seppellito, un miracolo di dottrina epigrafica e storica, Bartolommeo Borghesi, era noto ai suoi concittadini come colui che religiosamente ascoltava la messa tutte le feste comandate; ma essi non sapevano che il suo libro di devozione erano gli Annali di Tacito! Conoscemmo il Borghesi in tutta la sua grandezza, quando Teodoro Mommsen lo proclamò suo maestro, e Napoleone III ne ordinò a spese della Francia la ripubblicazione delle opere preziose.
Ma io corro pericolo che alcuno di Voi mi creda calunniatore del mio paese. Tante e tante volte da persone, o per merito proprio o per dignità raggiunta autorevoli, Voi sentiste dire invece che negli ultimi quarant'anni di vita italiana, era venuta ad affievolirsi miseramente quella scienza e cultura classica che era stata vanto dei padri e degli avi nostri. Non io vorrò ridurre tutte queste affermazioni a vane querimonie di venerandi vegliardi, cui l'età rende inesorabili laudatores del passato. Vi dirò, invece, che c'è qualche cosa di vero in questo lamento, in questo confronto non vantaggioso per l'età nostra, in questo biasimo severo contro la superficialità moderna; ma perchè si possa riconoscere nei giusti limiti questa parte di vero e convincersi nonostante che, se di risveglio di studî classici dovremo parlare, ci converrà appunto cercarne le tracce in questi ultimi decennii, è indispensabile premettere alcune considerazioni generiche un tantino noiose, che ci rendano possibile distinguere tendenze e fatti che generalmente si sogliono confondere.
La storia dell'antichità romana è storia della patria nostra, storia dei nostri diretti progenitori; e poichè questi nostri antenati, orgogliosi e fieri conquistatori e reggitori del mondo, non disdegnarono assimilarsi la cultura, la scienza, la poesia del popolo ellenico, creatore di quella civiltà che sarà poi detta europea, anche la storia dell'antichità greca vi si connette indissolubilmente. Non è meraviglia perciò che, diradate appena le tenebre più o meno dense della barbarie medioevale, appunto in Italia cominciasse e splendidamente cominciasse l'ammirazione per la forma e la sostanza della civiltà antica, il desiderio ardente che in quelle forme brillasse anche una volta il genio della nostra razza. Firenze fu il cuore d'Italia in tutto quello splendido periodo di operosa ammirazione ed imitazione dell'antichità. Ai poeti, agli artisti, agli uomini di Stato, agli eruditi, ai banchieri, ai mercanti fiorentini, mette capo in massima parte quel complesso mirabile di fatti, di aspirazioni, di vita nuova, che sogliamo chiamare «rinascimento».
Può darsi, è certo anzi, che un così grandioso movimento fosse utopista nelle sue ultime tendenze finali; altrettanto certo è che in quella eccitazione di spiriti, come indubbiamente ebbe a soffrire la compagine morale del nostro carattere, così si ritemprò mirabilmente il nostro carattere artistico, e fummo per secoli i primi artisti del mondo. Ma io non ho nè volontà nè scienza per trattare, e tanto meno per risolvere problemi storici di tal natura. Ho voluto semplicemente indicare quanto natural cosa fosse che in Italia gli studi della antichità classica avessero in origine scopi e tendenze di ritorno anacronistico alla civiltà, alla lingua, alla letteratura, alla vita dei Greci e dei Romani.
Basterà, del resto, dare uno sguardo, sia pure fugace, a quello che in fatto di lingua e di letteratura avviene in Grecia sotto i nostri occhi. I discendenti di Temistocle e di Aristide, ridonati dopo lunga servitù a libera vita, vogliono attestare colla lingua e colle lettere la loro discendenza; e noi assistiamo attoniti ad un tentativo, che non possiamo dir sano, di sopprimere una lingua viva e vivace, che ha la sua ragione di essere nella storia dieci volte secolare del popolo che la parla, per sostituirvi artificialmente la lingua di Demostene e di Senofonte, parole, forme e costrutti morti e seppelliti da migliaia di anni. Ebbene, in altri tempi noi abbiamo accarezzata una utopia analoga, in forma, se si vuole, senza confronto più grandiosa, più artistica, più bella; ma per diversità che ci fossero nel resto, il motivo psicologico non differiva gran fatto. Oggi questa tendenza anacronistica della riproduzione artificiale della vita antica è, altrettanto naturalmente, scomparsa quasi del tutto. Innocui esempi, e solo nel campo delle lettere, rimangono le epigrafi latine, i versi greci e latini; questi noi ammiriamo soltanto come attestazione di versatilità d'ingegno, di amoroso studio dei capolavori classici, di squisitezza di gusto, ma nè autori ne ammiratoli pensano o sognano che si arricchisca così il tesoro della nostra lingua, della letteratura nostra.
Ora, si pensi quello che si voglia del valore oggettivo della evoluzione umanistica dal trecento al cinquecento, rimarrà in ogni modo gloria imperitura dell'Italia l'aver conservato, trasmesso, arricchito, raccomandato ai posteri il patrimonio intellettuale ed artistico dell'antichità classica, patrimonio che è diventato il fondamento più saldo, direi quasi la chiave di vôlta del grandioso edifizio a cui diamo il nome di civiltà moderna.
Ma sarebbe anche falso affermare che l'umanesimo italiano non si liberasse e non sapesse liberarsi dal concetto in apparenza grandioso, e in realtà meschinamente unilaterale, della riproduzione artificiale; poichè dall'Italia stessa partì anche il doppio e fecondo concetto dell'antichità classica come vivificatrice delle nostre lettere, della nostra arte, del nostro vivere civile, e dell'antichità classica come argomento di studio indipendente da ogni determinata tendenza pratica, di studio a sè e per sè, di studio seriamente e scientificamente oggettivo. Dato e non concesso che altri possa non rilevare queste benemerenze dell'Italia nostra, non posso nè debbo non rilevarle io: io ospite grato, e speriamo anche non sgradito, di questa Firenze dove fino dal XVI secolo si ebbe fiorentissima una scuola di filologia classica, maestro sommo e venerato Pier Vettori.
Per venticinque anni dalla cattedra, nelle conversazioni, nei privati colloqui ho esortato, sarei per dire con fervore apostolico, i giovani fiorentini a scrivere, dopo pazienti ricerche, un libro geniale che riportasse dinanzi al nostro pensiero viva l'immagine di quell'uomo, di quella scuola, di quei giovani ammiratori non meno della vita integerrima del maestro, che della scienza di lui; un libro geniale che dimostrasse, anche a quelli di noi che non vogliono intenderlo, come in tanto rinnovamento di scienza e di metodi la filologia del nostro tempo è pur sempre quella del celebrato fiorentino; un libro geniale, insomma, che sfatasse una buona volta la vieta leggenda, per cui continuatori dell'opera dei nostri grandi eruditi pretesero, e forse pretendono ancora, chiamarsi i rètori inverniciati di frasi greche e latine, gli arcadi della filologia che fecero sparire il nome italiano dal libro d'oro della scienza dell'antichità classica. Mi duole confessarlo, ma il mio fervido apostolato non ha avuto efficacia se non sulla tranquilla fantasia di un giovane tedesco di Francoforte, che, se non altro, ha raccolto e pubblicato utili materiali di studio sul nostro grande filologo. Non dirò già che ai giovani fiorentini non garbasse scrivere un libro geniale; dirò piuttosto che hanno sdegnato le lunghe, difficili e pazienti ricerche, senza le quali i libri geniali non si scrivono.
In Italia, dunque, si ebbe abbastanza presto l'intuizione sicura dell'importanza grandissima degli studî classici, sia come sano e nutritivo elemento dello spirito moderno nella letteratura e nell'arte, nella politica e nella scienza, sia come oggettiva e serena investigazione storica. Porterei vasi a Samo e nottole ad Atene, se credessi necessario dichiarare con esempi la mia affermazione rispetto all'indirizzo che dirò imitativo del classicismo italiano, sebbene la parola imitazione non risponda adeguatamente al concetto. Tutta la nostra letteratura, per non dire altro, ebbe vital nutrimento dell'antichità classica; e se i meno dotati d'ingegno riuscirono spesso gretti imitatori, il genio dei nostri grandi seppe anche derivare dalle fonti classiche, forme d'arte meravigliosamente originali nella grandiosità della composizione, nella plasticità delle immagini, nel colorito smagliante della elocuzione e dello stile. A porre in luce meridiana questo benefico influsso del genio antico sulla poesia e sulla letteratura nostra, molto prima che cominciasse l'affannosa e febbrile investigazione delle memorie classiche, provvide il poeta fiorentino che è gloria del mondo, il poeta di cui aumenta la gloria quanto maggiore è la cura con cui si rintracciano le fonti classiche, non del «bello stile» soltanto «che gli ha fatto onore», ma di ogni sua più mirabile concezione poetica.
E se a qualche cosa, Signore e Signori, la storia vale, essa dovrà valere indubbiamente a farvi diffidare di una certa moderna dialettica che si affatica a dimostrare spezzato ogni legame tra lo spirito dei tempi nuovi e la vita antica. Manca a me ingegno e dottrina per sottoporre a serio esame questi aforismi modernissimi nel campo della scienza, della morale, della religione. Ma quale è, di grazia, quale è la forma moderna d'arte che non abbia radice, e radice tuttora vegeta, nella fantasia divina dei Greci? Quale è, di grazia, il gran concetto giuridico moderno che non sia vivace rampollo dell'albero maestoso del giure romano? A qual mai progresso intellettuale o morale la sete del sapere degli Elleni e il senno pratico dei romani furono di ostacolo? Non attribuiamo, per carità, gli errori, la gretteria, la pedanteria di alcuni ammiratori dell'antichità agli spiriti magni della antichità stessa, anzi al genio riformatore di quei due popoli privilegiati. Io auguro, dunque, al mio paese, che ancora per lunga serie di secoli i suoi poeti e i suoi dotti giureconsulti, gli scenziati e gli artisti nel più lato senso della parola, ricorrano incessantemente a ritemprarsi lena e vena nella scienza e nell'arte antica, nella rigogliosa umanità antica; e sappiano farlo non meno bene di quanti da barbari in grazia di essa divennero civili, e la energia nativa correggendo su quei sacri modelli, divennero essi stessi modello di operosità feconda a noi, che beatamente ci adagiammo nella persuasione che i nostri avi avessero già fatto abbastanza per sè e per noi!
Col nobile intento di richiamare gli italiani alla cultura classica, ha da pochi anni vita in Firenze una Società che tutte le persone colte dovrebbero desiderare prospera, efficace, nè dovrebbe il desiderio rimanere soltanto platonico. Solo per opera di una grande società siffatta si potrà sottrarre l'indirizzo della educazione e della cultura italiana all'aura mutevole e capricciosa delle assemblee politiche e dei gabinetti dei ministri. E non soggiungo altro, poichè non può essere oggi mio intendimento consumare il tempo, di cui per cortesia vostra dispongo, in argomenti abbastanza estranei a quello che debbo trattare: giacchè io credo di dovervi parlare soprattutto della scienza dell'antichità classica come disciplina a sè, abbia o non abbia stretta attinenza colla cultura generale italiana. Ma, sarebbe vano negarlo, anche questa scienza in tanto può fiorire in qualsivoglia nazione del mondo, in quanto tra quella nazione è larga ed estesa la cultura generale donde la scienza muove. Anche qui la storia viene in nostro aiuto a farci toccare con mano che ogni grande e vero progresso della scienza dell'antichità classica si è verificato appunto dove e quando la cultura generale classica fu più estesa e più intensa; e viceversa dovunque il classicismo non fu largamente in onore come strumento di educazione, colà fu anche meno abbondante e salutifero il frutto della scienza. Nè questo soltanto c'insegna la storia. Essa c'insegna inoltre che tale e tanta è la connessione fra la civiltà, la cultura, la lingua, la scienza greca e romana, che opera vana tenterebbero quelle nazioni o quegl'individui i quali, dimentichi di questa connessione intima, credessero di portare un contributo largo ed importante alla investigazione scientifica o storica di una parte sola dell'antichità classica. Io non conosco nessun grande latinista, italiano o straniero, dell'età nostra o delle precedenti, che non sia o non fosse in grado di trattare filologicamente i monumenti, gli scrittori, le fonti elleniche; e non so neppure di alcun grande ellenista digiuno di erudizione e di scienza latina. So, è vero, di un valentuomo (non italiano!) del nostro tempo, il quale, essendo egli profondo latinista, non dubitò di affermare che latinisti a preferenza erano stati i corifei della nostra scienza. Ma l'affermazione è certamente falsa, perchè io in coscienza non saprei dirvi davvero se, per esempio, Pier Vettori e Riccardo Bentley fossero più latinisti o grecisti, e perchè potrei addurre una bella schiera di grandi grecisti che non dimostrarono egualmente al pubblico la loro scienza di cose latine. Ma non mette conto di perdere del tempo a dimostrar vana un'affermazione che evidentemente ha origine dalla vanità del latinista che la emise, e che era egli stesso, del resto, un grecista valente. Pur troppo, come vedete, neppur la filologia classica è preservativo efficace contro la vanità. In confidenza, vi dirò persino che i filologi classici sono spesso anche più intollerabilmente vani degli altri.
Sarebbe, pertanto, oltremodo facile dimostrare, anche teoricamente, quanto impossibil cosa sia tener distinto il lavoro scientifico nell'un campo, greco o romano, dal lavoro scientifico nell'altro. Scienza ed arte romana sono riflessi e svolgimenti di arte e scienza greca: pretendere di capir quella senza capir questa varrebbe presso a poco quanto illudersi d'intendere l'umanesimo del rinascimento senza conoscere quell'antichità che l'umanesimo consapevole o inconsapevole cercava di riprodurre. Si potrebbe forse comprendere adeguatamente la produzione intellettuale dei Greci, in quanto essa è in massima parte indipendente da influssi forestieri, e ad ogni modo procede per vie affatto sue anche quando dal di fuori trae l'origine; si potrebbe forse comprenderla adeguatamente, se completa e in tutte le sue manifestazioni essa ci fosse giunta. Invece c'è giunta in frammenti, grandiosi frammenti se volete, ma frammenti, spesso da rintracciare in fonti romane. Sopprimete tutto quello che dei Greci sappiamo e possiamo investigare a traverso i riflessi, le imitazioni e le ricerche romane, e vi accorgerete subito che quella meravigliosa statua mutila, simbolo dell'antichità ellenica, voi avrete più barbaramente mutilata.
Ma poichè nè io nè Voi siamo vandali, possiamo e dobbiamo augurarci che da tale vandalismo l'Italia nostra sia risparmiata; nè è vano l'augurio, perchè in realtà anche gli stolti, dei quali, come dice il poeta, infinita è la schiera, non si farebbero mai tra noi paladini esclusivi di studî greci. Il pericolo è piuttosto nell'altrettanto assurda persuasione della possibilità di un classicismo italiano fecondo e operoso, a base esclusiva di latinità e di romanità. Ho detto persuasione, ma tale io non credo che sia: è piuttosto la solita tendenza a blandire le turbe infinite che vogliono bensì penetrare nell'aristocratica ròcca del classicismo, ma naturalmente vogliono anche che sia più alla portata degli inetti questo titolo di nobiltà. Ebbene, noi non abbiamo bisogno di sperimentare questo classicismo che è stato detto «a scartamento ridotto»; lo abbiamo già sperimentato per secoli. Poco fa io rammentava con entusiastica ammirazione Pier Vettori e la sua scuola, ma è doloroso dovere aggiungere che, estinto quell'uomo e quella scuola, lo studio dell'antichità classica in Italia si aggirò fatalmente in un àmbito sempre più ristretto. Scienza e conoscenza di lingua e di cose greche andò a mano a mano scomparendo; antiquaria romana e retorico umanesimo latino furono sino all'età nostra unico residuo di un movimento scientifico iniziato animosamente, e coronato nel suo inizio da splendido successo. Voi sapete ormai che non voglio nient'affatto parlarvi di persone. Non mi opporrete perciò quella mezza dozzina, e sia pure una dozzina, di valentuomini che dal seicento ad oggi lavorarono felicemente nel campo greco. Non vi abbiate a male se vi dico che li conosco anch'io come li conoscete Voi; ma essi sono quasi addirittura estranei al movimento scientifico del nostro paese, nè fu merito dell'Italia se il resultato delle loro dotte ricerche entrò a far parte del patrimonio della scienza.
L'esperienza dunque noi la abbiamo fatta, e ci rimane il rimorso di averla fatta durare troppo a lungo. Quali resultati se ne siano avuti, lo sappiamo. Neppure nella scienza antica latina, l'Italia, per tre secoli, ha rappresentato quella parte a cui la nativa prontezza di ingegno, la conformità grande di sentimento e di attitudini con la vita civile degli antichi, la tradizione infine e la storia la avrebbero chiamata. Col nome di dottrina classica battezzammo una vuota declamazione retorica, demmo nome di storia a compilazioni di aneddoti, a frasi reboanti demmo nome di eloquenza, alle curiosità demmo il nome di erudizione.
Volle fortuna che il nostro classico suolo rimettesse incessantemente in luce monumenti, opere d'arte antica, che richiamarono alcuni nostri studiosi a un indirizzo positivo di investigazioni e ricerche; e avemmo così epigrafisti e antiquari di molto maggior valore che per le condizioni delle altre discipline filologiche avremmo avuto diritto di aspettarci. Le cose sono mutate in meglio appunto nella seconda metà del nostro secolo, vale a dire dacchè gli studi classici greci sono tornati in onore, dacchè le lingue e le lettere greche non sono più misterioso patrimonio di pochissimi, dacchè ogni persona colta non dirò che legga Sofocle e Omero, ma almeno ha acquistato la convinzione che leggerli e intenderli non è curiosità oziosa di gente oziosa. Non sono per verità tanto ingenuo da attribuire così meravigliosa efficacia alle declinazioni e alle coniugazioni greche che i nostri ragazzi imparano nelle scuole. Ma non si tratta già ora di farvi vedere quanto di più e di meglio sarebbe possibile nelle scuole; si tratta di riconoscere un fatto innegabile. Noi italiani di punto in bianco abbiamo, dopo lungo abbandono, riconosciuto di nuovo il genio classico greco come elemento indispensabile di alta cultura generale, abbiamo modificato le scuole in questo senso, e secondo questo concetto, abbiamo improvvisato dei maestri che questo concetto attuassero, e in poche diecine di anni ci siamo messi anche in grado di lavorare, di contribuire modestamente, e sia pure modestissimamente, alla scienza della antichità classica. Non ignoro quali e quanti siano gli altri coefficienti di questi risultati, la ridestata coscienza nazionale, l'indirizzo serio e positivo degli studî affini, la scomparsa di quel vano orgoglio che ci faceva ignorare e disprezzare dottrine e scienze forestiere; ma questo vuol dire soltanto che per le progredite condizioni intellettuali del paese ci siamo finalmente avvisti che anche la nostra cultura classica era difettosa, e ci siamo studiati di farla completa con l'ellenismo, e l'ellenismo le ha dato quel vigore e consistenza scientifica che aveva per secoli miseramente perduta.
Difficile è fare la cronaca esatta di questa trasformazione, promossa da spiriti illuminati anche prima della metà del secolo, ma sorretta solo più tardi, e non sempre quanto sarebbe stato opportuno, dalla sapienza dei governanti. Anche prima del fatale anno 1848 la Toscana aveva in Pisa una istituzione benefica, i cui benefizi possono oggi dal punto di vista odierno apprezzare poco quegli egregi che, ricchi di entusiasmo e di ingegno, non vi trovarono prima del '59 la larga educazione scientifica di cui erano avidi: e noi, venuti un po' più tardi, ma non troppo più tardi, sappiamo quanta ragione avessero essi di dolersi che il tempo della loro balda gioventù andasse consumato miserevolmente a scuola di inetti o poco meno che inetti: ma è pur vero che da quella scuola, perfino in quegli anni non felici, provennero molti di coloro che senza confronto meglio di tanti altri poterono contribuire utilmente alla trasformazione delle nostre scuole e spianare la via a noi altri allora giovanetti, che, compiuta la unità d'Italia, avemmo in essi i nostri maestri, e non di greco soltanto.
Nè perchè ho ricordato espressamente la Toscana, vogliate supporre che io dimentichi la efficacia della legislazione scolastica piemontese, estesa con savio consiglio a tutta l'Italia: per essa avemmo un ordinamento razionale di studî, imperfetto quanto si vuole, ma di gran lunga più razionale e più largo che non usasse nelle scuole multiformi del resto d'Italia. E poichè della oppressione politica austriaca dicemmo sempre e volentieri tutto quel male che essa meritava, è anche giustizia riconoscere che troppo più difficile sarebbe riuscito alla Italia nuova rinnovare e integrare il classicismo vieto e monco delle nostre scuole, se dalla Lombardia e dal Veneto non ci fosse venuta una schiera di valentuomini, cui la tirannia politica non aveva spento in cuore l'amor di patria e la scienza tedesca dall'Università di Vienna aveva messi in grado di sapere per quali vie e con quali mezzi tornerebbero gl'Italiani alla vita scientifica, anche in quel ramo di cultura che era sembrato per secoli più che altro svago innocente degli spiriti, strumento semplicissimo per darsi aria di letterati finamente colti, infiorando di emistichii oraziani e virgiliani il discorso. Resti ad altri l'ufficio gradito di celebrare, come meritano, gli uomini che più direttamente promossero con l'insegnamento e con l'esempio gli studi italiani di antichità classica. A noi, che in tanta parte della nostra vita pubblica troviamo ragioni di sconforto, di scoramento, di dolore, sia dato compiere l'ufficio ben più gradito, di proclamare cioè che, se in complesso il classicismo italiano è ancora meschinello rispetto alla Europa civile, esso è grande rispetto alla vecchia Italia di cinquant'anni fa; e senza ingratitudine possiamo smentire, per questa parte almeno, l'antico poeta: l'età dei padri nostri portò noi non peggiori, ma migliori di essi – senza ingratitudine, perchè è merito dei padri nostri aver create quelle condizioni di vita civile che resero possibile a noi di metterci sulla via abbandonata da secoli e trionfalmente battuta da quei popoli ai quali noi primi l'avevamo additata. Quale è dunque l'augurio nostro per i nostri figli? Che essi continuino a smentire la sentenza pronunciata dal poeta romano, emendino i nostri vizii, colmino le enormi lacune del nostro sapere, siano liberi dai pregiudizi che arrestarono noi a mezza via, facciano dimenticare i nostri timidi tentativi, siano emuli degni degli spiriti nobilissimi cui noi potemmo tener dietro appena faticosamente e «longo intervallo;» sia lecito ad essi non essere equanimi verso di noi, sieno ingrati, ma sieno migliori di noi. All'esperienza nostra, però, vogliano pure ricorrere per amoroso consiglio. Sapremo dir loro quello che non abbiamo saputo far noi; sapremo soprattutto dimostrare i nostri difetti, sapremo porli in grado di non sciupare l'ingegno per vie tortuose o senza uscita, sapremo raccontare con la esperienza, con la vivacità, e, spero, anche con la veridicità del testimone oculare la storia dei nostri studî in questi quarant'anni di vita italiana.
Intanto, aspettando che i nostri figli e nipoti vengano a chiederci questi consigli e ad ascoltare questo atto di contrizione nostra e questa storia, io mi confesserò sinceramente con voi – siamo nella settimana di Penitenza: – e poichè mi è dato evitare una incomoda confessione speciale dei peccati miei, esclusivamente miei, e posso presentarvi la confessione generica degli Italiani del mio tempo, molto a buon mercato, come vedete, mi pongo in regola col santo precetto, tanto più che, dopo tutto, la penitenza toccherà non a me, ma a Voi. Se nella età che precedè immediatamente il nostro risorgimento nazionale, l'Italia fosse rimasta miseramente indietro soltanto in fatto di studî classici, e nel resto avesse conservato importanza notevole rispetto alle principali nazioni civili, anche la scienza dell'antichità classica avrebbe rapidamente ripreso sviluppo e vigore, e rapidamente sarebbe passata dallo stadio recettivo allo stadio produttivo; ma a noi mancavano quasi totalmente i mezzi per iniziare un lavoro scientifico, mancava la conoscenza più elementare della letteratura dell'argomento: letteratura enorme, frutto di trecento anni di studi assidui, di ostinate ricerche di Francesi, Inglesi, Olandesi e Tedeschi, soprattutto di Tedeschi, che, ultimi in ordine di tempo, avevano ereditato e da un secolo tenevano lo scettro della scienza della antichità classica, l'avevano meravigliosamente promossa in ogni disciplina, ne avevano disposte le parti, le avevano dato forma e carattere di vera e propria scienza. Che in tali condizioni un italiano di alto ingegno anche senza educazione e senza preparazione metodica potesse prendere parte attiva e contribuire efficacemente alle investigazioni scientifiche, non lo escluderò io, che so come e quante volte la ipotesi sia stata realtà. L'alto ingegno sa prescindere da condizioni anche indispensabili; ma, come ho già detto, non sono singoli e isolati uomini d'ingegno quelli che determinano il movimento scientifico del loro paese. Ai più parve, e non poteva non parere, che dovessimo anzitutto addestrarci a maneggiare gli strumenti del mestiere; e gran parte della attività nostra fu rivolta a impratichirci di lingue straniere, del tedesco principalmente, e a renderci familiari i manuali, le monografie straniere, principalmente tedesche, e lo facemmo in molti; e la generazione mia ebbe meno difficoltà a farlo che non ne avesse la generazione precedente. Gli uni e gli altri ci ridemmo della nomèa di tedescanti, della quale i vecchi, meritamente e immeritamente autorevoli, ci gratificarono. Opera egregia e proficua fece allora chiunque contribuì, sia pure in proporzioni microscopiche, alla diffusione in Italia di libri stranieri, chiunque fece conoscere studi e metodi a cui l'Italia non era più avvezza, e che sarebbe stata cosa ridicola ripristinare in quella forma in cui l'Italia li aveva lasciati tre secoli innanzi. Onore e riconoscenza si deve a tutti quei valentuomini che, traducendo, compilando, compendiando riuscirono a poco a poco a mettere in contatto diretto la gioventù italiana con la filologia tedesca: e credo che per parecchie altre scienze si debba e si possa dire lo stesso. Giovani benemeriti del loro paese furono quelli che secondarono con ardore questo impulso, e ben presto avemmo una schiera di non indotte persone, capaci di fare altrettanto, e lo fecero, magari con più ardore, e continuarono ancora quando forse sarebbe stato possibile e desiderabile qualche altra forma di operosità letteraria.