Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 10
A fare eseguire gli ordinamenti, si istituì il Gonfaloniere di giustizia, con 1000 popolani armati al suo comando. Quando succedeva un malefizio, si suonava la campana a martello e l'Esecutore andava con buona mano di gente armata a casa del colpevole e la faceva abbattere fino alle fondamenta. Queste ed altre feroci disposizioni, ora aggravate, ora mitigate secondo i tempi, si leggono nel testo degli ordinamenti di giustizia, che furono la legge di più lunga durata che avesse la Repubblica fiorentina, giacchè erano in parte sempre in vigore quando fu spenta.
Che pace e che tranquillo vivere potessero portare alle città questi ordinamenti che pur si dicevano fatti a quel fine, è facile immaginare. I grandi male potevano tollerare quella oppressione ed empirono la città di tumulti; nei quali soffiavano i popolani grassi, come li chiamavano, cioè quelli che nella mercatura avevano fatto ricchezze e che avevan seguito nel popolo. Già trapelavano le ambizioni di questa classe di cittadini, che invidiava il nome e la grandigia delle famiglie dei magnati, e ad esse si accostava quando poteva farlo senza pericolo. Ma se si veniva alle mani, allora erano col popolo per dividere con lui i frutti della vittoria. Così in uno dei tanti tumulti di questi tempi, avendo il popolo assalito le case asserragliate dei Frescobaldi nei Fondacci di S. Spirito, nè potendosi dagli assalitori venire a capo di espugnarle, i Capponi che avevano le case accosto, ruppero il muro comune, e lasciarono che il popolo, passando per quella rottura, prendesse i Frescobaldi alle spalle e li cacciasse. L'uomo di maggior conto che tenesse il campo in quelle opposizioni armate dell'aristocrazia magnatizia, fu senza fallo Corso Donati, guelfo, di poca ricchezza, ma capo d'una consorteria numerosa potente. Natura fiera e superba, egli presenta il tipo di quei nobili violenti, avvezzi a farsi ragione colle armi, che non sapevano rassegnarsi ad esser comandati da gente minuta in farsetto. Di lui dice lo Stefani, “che aveva gran seguito e grande grandigia, e che, per gli ordinamenti di giustizia, non poteva esser grande quanto gli pareva di meritare„.
Ucciso nel 1308 Corso Donati, non per questo cessarono le offese e le vendette. I popolani, armati degli ordinamenti di giustizia, adoperarono quest'arma senza misericordia. Poco sangue si sparse, ma un gran numero di famiglie andarono in rovina, consumate dalle condanne o pene pecuniarie esorbitanti. Gli ordinamenti, come abbiam visto, avevano per fine di escludere i grandi dagli uffici del Comune, di disfare le consorterie dando divieti ai consorti e facendoli solidali nelle pene; e di difendere i popolani dai soprusi dei grandi. Questi fini furono raggiunti, ma, coll'escludere un'intera classe di cittadini dal governo, e metterla fuori dal diritto comune nelle pene, si perpetuarono le discordie e gli scandali. Eppure, quando quelle leggi furono proposte, da alcuni buoni mercatanti ed artefici desiderosi di vivere in pace, dei quali fu caporale Giano della Bella, come dice il Buoninsegni, se ne sperava una gran bene. Coppo Stefani peraltro meglio avveduto dice che ogni male di Firenze è proceduto dal volere gli uffici, e poi avuti, ciascuno a volerle per sè tutti e cacciarne il compagno… Sotto colore di Guelfi si sono ammoniti uomini detti Ghibellini, non per altro fine che per avere per sè gli uffici; e si è trovato l'ammonire e il confinare, e il porre a sedere, e il divieto degli uffici.
I nobili, stanchi di questa oppressione, e delle leggi iniquie fatte a lor danno, e la parte popolare desiderosa di crescere favore a sè stessa togliendolo agli avversari, condussero alcune famiglie potenti a farsi popolari, e furono come tali ricevute dal Comune, a patto che rinunziassero alle loro consorterie, e mutassero il nome e l'arme. Queste condizioni per casate antiche, orgogliose del loro nome, erano umilianti, ma di poco effetto, quando la consorteria continuava a sussistere nelle famiglie che restavano dei grandi. Anche nelle armi e nel nome si fece poca mutazione; come può vedersi da queste famiglie che tolgo da lunghi elenchi. Gli Agli presero il nome di Scalogni, i Tornaquinci quello di Tornabuoni, i Mannelli quello di Pontigiani, perchè avevano le case a Pontevecchio, i Cavalcanti quello di Cavallereschi, i Bostichi quello di Buonantichi. E come per grazia i grandi potevano essere fatti popolani, così per pena questi si facevano dei grandi, per colpirli con le ammonizioni e coi divieti.
Gli ordinamenti di giustizia durarono in pieno vigore fino al Duca di Atene, che non li abrogò ma li applicava a capriccio. Dopo la cacciata di lui, furono ravvivati, e inaspriti sotto il governo dei Ciompi, ultima espressione della democrazia fiorentina. Nel governo degli ottimati, che successe ai Ciompi, furono assai mitigati secondo i tempi, ma nessun governo osò mai di abolirli, perchè il popolo non lo avrebbe consentito, considerandoli come la carta delle sue libertà. Quando a Roma Cola di Rienzo voleva restaurare la repubblica, chiese al Comune di Firenze le leggi con le quali si governava, ed il Comune gli mandò gli ordinamenti, che a nulla valsero per il tribuno; il quale se aveva a Roma la baronia feudale come a Firenze, non aveva il popolo risoluto a conquiderla e a renderla impotente.
Sotto le ferree disposizioni degli ordinamenti, anche le consorterie a poco a poco piegarono, e dopo essere state la forza dei grandi nella lotta coi popolani, rimasero poco più che un legame tradizionale di famiglia, che poi si sciolse col tempo. Ed infatti questo arnese di guerra civile, potente finchè durò la lotta di due principii, non ebbe più valore, quando, annientata la fazione feudale, la contesa si ridusse alla supremazia di famiglie appartenenti a quel popolo grasso che era rimasto incolume sul campo, pronto a dividersi le spoglie dei vinti.
Nè altro senso hanno le discordie che si videro nei tempi susseguenti tra gli Albizzi, gli Strozzi, gli Alberti, i Ricci e i Medici. Era questione di sapere quale di queste famiglie sarebbe stata la famiglia principe che avrebbe dominato sulle altre; il popolo aveva cessato di essere attore, ed era divenuto strumento delle private ambizioni.
Quando si pensa che le agitazioni e i tumulti nei quali stette il Comune di Firenze per quasi tre secoli, furono il periodo storico per lui più glorioso, una grande ammirazione ci prende per la fortezza di quegli uomini, i quali, fra gli orrori della guerra civile, sapevano arricchire coi loro commerci, innalzare monumenti d'arte che le pacifiche età susseguenti non hanno saputo emulare, e attendere alle arti e agli studi preparando il Rinascimento. Non si può fare paragone di quei tempi coi nostri, nè pronunziare giudizi di confronto che sarebbero temerari. Quello che si può dire, senza fallo, è che i caratteri si formavano a quella rude scuola, e che la fortezza dell'animo era sempre maggiore delle sventure. La vita allora tra la guerra, le condanne e gli esigli, sicuramente era dura, ma non trovo che nessuno si uccidesse per uscirne. Il suicidio è quasi ignoto nel medioevo. Grande era in quegli uomini la virtù del sopportare; e se Dante scrisse fra i dolori dell'esiglio il suo divino poema, mille altri minori di lui ed anche di povero ingegno, si aiutarono come poterono ad uscire da quella stretta senza mai disperare di nulla.
Nella storia fiorentina l'ammirazione di noi posteri, è tutta per quel popolo pieno d'ingegno e di coraggio che instaura nel Comune la sua libertà e la difende contro tutti. Ma per essere giusti convien dire che anche in quell'aristocrazia feudale era gran forza di resistenza, e nature d'uomini gagliarde e fieri caratteri; e se la parte popolare avesse saputo ammansirli e dar loro un posto nell'assetto del Comune, forse ne avrebbe cavato una milizia formidabile nelle guerre esterne, e la Repubblica non sarebbe caduta in mano dei capitani di ventura che furono la peste d'Italia. Ma i fiorentini mercanti aborrivano dalle armi, e le domestiche credevano pericolose per la libertà, mentre avevano danari per pagare le mercenarie.
Fatta questa riserva, noi dobbiamo essere riconoscenti a questo popolo che al principio del secolo XIII, costituiva il Comune libero, scioglieva i vassalli dal vincolo feudale, emancipava i servi dalla gleba, ed abbatteva l'aristocrazia feudale compiendo quel riconoscimento dei diritti umani, che altrove si fece, ed a qual prezzo! parecchi secoli dopo. La Toscana deve a questa prima infusione di democrazia, quel sentimento di libertà e di eguaglianza civile, che si innestò alle sue tradizioni e che rimase nei suoi costumi, più forte della mutria spagnuola portata dai Medici. Ed anche ai tempi nostri, in mezzo alle utopie dei socialisti che agitano la moltitudine pasciuta di folli speranze, noi possiamo mostrare con orgoglio, come prodotto di quell'epoca memorabile la mezzeria, che ha resistito a tutte le vicende, e che è anch'oggi l'unica soluzione pratica, non imposta da leggi, non escogitata dai filosofi, ma figlia del buon senso dei nostri maggiori, della questione eterna del capitale e del lavoro della terra, che all'Irlanda costa lacrime e sangue.
Con questi precedenti storici, la Toscana si trovò bene apparecchiata alle riforme civili alla metà del secolo XVIII; tantochè quando più tardi la libertà ci fu portata di fuori con apparato di parole magnifiche, i Francesi, che si annunziavano come liberatori, videro con stupore che noi godevamo pacificamente, già da tempo, quelle che essi chiamavano le nuove conquiste del secolo.
E poichè anche la storia ha le sue antitesi, noterò, per conchiudere queste parole già soverchie alla vostra cortese attenzione, che, nel tempo stesso che a Firenze si costituiva il governo popolare, a Venezia il Gradenigo chiudeva il gran Consiglio. Così, accanto ad una repubblica democratica, sorgeva in Italia la più potente oligarchia che sia stata al mondo. Quale dei due Stati meglio provvedesse alle sue sorti future, lo dice la storia. A Firenze la libertà morì oppressa dalle armi straniere, dopo aver combattuto le ultime battaglie col Ferruccio, con Dante da Castiglione, con Stefano Colonna; Venezia si spense per impotenza senile, senza che un braccio si levasse a difenderla e a darle almeno la dignità del morire.
SVEVI E ANGIOINI
DI
ERNESTO MASI
Se, pigliando alla lettera il tema assegnatomi, avessi a narrarvi per filo e per segno i fatti compresi sotto i due nomi di Svevi ed Angioini, dovrei, pur non oltrepassando il secolo XIV, narrarvi per lo meno un dugento quarant'anni di storia. Che se poi, dopo avervi mostrata intiera la parabola storica, ascendente e discendente, della dinastia Sveva, volessi fare altrettanto per l'Angioina, seguendola fino al tempo che, morta la seconda Giovanna, finisce con essa la linea principale della Casa d'Angiò, e nella monarchia dell'Italia meridionale le sottentra con Alfonso il magnanimo la dinastia Aragonese, dovrei, a dir poco, narrarvi più di trecent'anni di storia, e di quale storia! Della più varia, più complicata, più intricata anzi di tutto il nostro Medio Evo; trecento e più anni, nei quali tutte le instituzioni, che compongono la tela del terribile dramma, fanno l'estremo di lor prove, si svolgono, si combattono, vincono, sono vinte, e dopo avere nei loro contrasti perpetui, nelle loro antitesi inconciliabili mandati a male, non dirò i possibili tentativi, ma le meno utopistiche occasioni d'una qualsiasi ricostituzione nazionale, consumano tutta la vita politica italiana, compiono un intiero ciclo di storia e con esso ancora un intiero ciclo di civiltà, che d'italiana si trasforma in mondiale, e dà luogo ad una mutazione così profonda, che, come evoluzione civile, torna bensì col Rinascimento a beneficio di tutti, ma, come vicenda di storia, si chiude nella catastrofe politica dell'Italia medievale, destinata, com'altri disse, a morir sola per la salvezza di tutti.
Non vi spaventate, o signore, di tale orribile ampiezza di disegno. Sarò al possibile misericordioso e con voi e con me. Il Tommasèo consigliava di studiare la storia per circoli concentrici e sempre allargantisi, vale a dire sempre più comprensivi di un maggior numero di particolari. Per questa volta converrà invertire il metodo proposto dal Tommasèo, e dai circoli esteriori e più larghi venir dritto ai più interni e più ristretti, scegliendo, fra tanta congerie di fatti e tanta ressa di personaggi storici di capitale importanza, quelli che sono più spiccatamente caratteristici dei varii periodi che dobbiamo percorrere; quelli che più ci giovino quindi, se non a penetrare, ad intendere alquanto il mistero di quella torbida vita italiana dei secoli XIII e XIV e che più s'attengano come sfondo di quadro storico e come fonte d'inspirazione ai sentimenti, ai pensieri, alle creazioni d'arte del triumvirato toscano, le cui opere immortali fecero di Firenze la vera Roma del Medio Evo e sono quest'anno il principale soggetto di queste conferenze.
Anche per scegliere però c'è di troppo, e a persuadervene vi basti ricordare quanti e quali fatti, fra quelli soltanto di ordine più generale, sono coinvolti nel destino della dinastia Sveva e dell'Angioina: la seconda e terza lotta fra il Papato e l'Impero, le quattro ultime Crociate, la prima e la seconda Lega Lombarda, l'apogèo della teocrazia con Innocenzo III e la sua decadenza con Bonifazio VIII, il tentativo di Federico Barbarossa d'imporre all'Italia la sovranità tedesca e quello di Federico II di far dell'Italia il centro e la sede d'un nuovo Impero, la monarchia dell'Italia meridionale congiunta all'Impero e poi separatane per sempre per la tenace e implacabile politica dei Papi, l'espansione italiana dei tre primi Angioini di Napoli e la decadenza della dinastia iniziata dal Vespro Siciliano, il Comune finalmente, che nell'Italia superiore sostiene contro l'Impero con federazioni transitorie i diritti penosamente conquistati, pur non cessando mai un momento le proprie lotte interiori di Guelfi e di Ghibellini, e coi podestà e coi capi militari inclinando ben presto a signoria, mentre in Firenze invece, nel Comune più tardivo a svolgersi, ma straziato esso pure dalle medesime lotte interiori, la parte popolare sormonta, e, superata la forza dell'Impero, vinte le insidie papali e francesi, esplica tutte le sue potenze fino alle più tiranniche e diviene il tipo del Comune guelfo e democratico, sicchè dir Parte Guelfa e dir Comune di Firenze è tutt'uno.
Questi i fatti, ripeto, di ordine più generale, e non son tutti. Dei personaggi non parlo. Sono tutti gli attori della Divina Commedia, che, sparsi e variamente atteggiati, incontrate qua e là nelle bolgie d'inferno, sul monte del Purgatorio, nei nove cieli tolemaici del Paradiso, perchè la Divina Commedia è principalmente lo specchio della vita politica dell'Italia nel tempo di cui ci occupiamo; la Divina Commedia si profonda anzi talmente nel più fitto baratro delle lotte contemporanee e soprattutto fiorentine, che quanto è ad esse estraneo quasi non vi trova luogo, e di certi fatti, che pur sono grandissimi, di certi personaggi, che pur sono famosi, di certe città, illustri nella storia, Dante non parla o vi accenna appena. Non saprei spiegarmi in altro modo certi silenzi d'un poema storico per eccellenza, qual è quello di Dante. Di Venezia, ad esempio, che, come sapete, rimane fuori dalla lotta delle fazioni italiane, nulla dice. Federico Barbarossa è nominato appena con una parola incerta fra la stima e l'ironia. Di Enrico VI nulla. Di Federico II in persona il nome soltanto fra gli eresiarchi ed altri, poi parla di lui per ricordo. E tutti e tre questi Svevi chiama i tre venti, i tre uragani, come pare che debba intendersi, i quali hanno sconvolto il mondo, e non più. E tant'altri potrei accennare di questi silenzi e di queste reticenze dantesche. Ma se poco dice dei primi Svevi, non è così degli ultimi, non è così degli Angioini, più strettamente collegati alle fortune del Comune di Firenze; sicchè, scegliendo solo fra i personaggi della storia quelli che entrano nel poema dantesco, potremmo conoscerli, se non tutti, quelli, almeno, che importa più di conoscere. E le figure che vi atterriscono nella Divina Commedia, quelle pure che son nominate ad ogni momento e quasi con riverente terrore nel Novellino, vecchia raccolta d'indole ben più umile e popolare, vi fanno ridere nel Decamerone e nelle novelle di Franco Sacchetti, e tuttavia sono press'a poco le stesse; ma sotto la celia comica del Boccaccio e del Sacchetti si vede già che la solennità tragica delle grandi lotte italiane sta per dissolversi, si vede già che nel periodo di storia, il quale comprende gli Svevi e gli Angioini, si viene compiendo la trasformazione della società medievale in moderna, tant'è che la modernità già si mostra coi rosei bagliori dell'alba nel Petrarca, il quale libera dai veli e dalle oscurità del Medio Evo la scienza, la donna, l'amore; sebbene poi, allorchè vagheggia, come uomo politico, un rimedio all'anarchia italiana, esso pure non sappia trovarlo che nel passato, nel concetto cioè universale di Roma e d'Impero, ed il suo pensiero si riscontri anzi quasi identico a quello che cent'anni prima ferveva nella mente di Federico II. Quanto v'ha di nuovo e di profetico nell'opera sua forse sfugge al Petrarca, perchè i contemporanei ignorano il senso storico dei propri atti. Nella letteratura stessa, quando è più prossima l'evoluzione del Rinascimento, Franco Sacchetti, morto il Petrarca nel 1374, morto il Boccaccio un anno dopo, crede tutto finito e sclama disperato:
Or è mancata ogni poesia,
La stagione è rivolta,
Se tornerà, non so, ma credo tardi;
e ciò quasi al momento stesso che fra la morte di Roberto d'Angiò e quella delle sue due figliuole, Giovanna I di Napoli e Maria di Durazzo, tra il 1343 e il 1382, la fortuna degli Angioini s'avvia alla sua estrema ruina.
Quantunque precedente in ordine di tempo ai due secoli, che più specialmente ci sono assegnati, mi sarebbe impossibile parlarvi degli Svevi e non prender le mosse almeno da Federico Barbarossa. Quando nel 1154, eletto già da due anni Imperatore, egli discese per la prima volta in Italia, da diciassette anni niun esercito tedesco avea più varcate le Alpi. Come trovava Federico l'Italia, e che cosa voleva esso in Italia? Quel che voleva è presto detto: ricostituire i diritti del regno tedesco sull'Italia come al tempo d'Ottone I. Quel che trovava è un po' più lungo a dire, ma mostra appunto la difficoltà dell'impresa, a cui s'accingeva, perocchè i Comuni dell'antico regno longobardo hanno ormai abbattute le instituzioni del tempo degli Imperatori Sassoni, si sono ormai messi al posto dei feudatari e riconoscono bensì l'autorità imperiale, ma ne contrastano l'esercizio ogni volta che lo giudicano contrario alle loro buone consuetudini, che nel linguaggio del tempo valgono come diritti.
Nel resto d'Italia (e poichè a parlar di Firenze è ancor presto) Federico trovava la monarchia meridionale, che alle pretensioni dell'Impero, se ne ha, oppone l'alta sovranità del Papa; trovava il Papa, che alla sua volta vanta sull'Italia e sul mondo un diritto superiore a quello dell'Imperatore. Tuttociò indica che un gran mutamento è avvenuto nei Comuni, nell'Impero, nel Papato stesso, il qual è ben lontano ancora dall'avere raggiunto tutta la sua grandezza; ma esso pure, nel momento che Federico scende per la prima volta in Italia, è travagliato interiormente da avverse tendenze, da tendenze filosofiche trascendenti a razionaliste, da tendenze mistiche, che vogliono rivocarlo alla povertà dell'Evangelo, alla separazione dei due poteri, e queste, uscite dalle scuole francesi d'Abelardo, vengono ad assalirlo con Arnaldo da Brescia nella stessa sua Roma. Non per questo il Papa è disposto a transigere coll'Imperatore e occorrendo si associerà ad ogni suo avversario. Che cosa farà Federico? Sotto la guida di lui, scrive Giacomo Bryce nel suo bel libro sul Sacro Impero Romano, il potere transalpino compì il massimo de' suoi sforzi per soggiogare i due antagonisti, che allora lo minacciavano ed erano all'ultimo destinati a distruggerlo: il Papato e quella che, con espressione poco esatta, lo stesso Bryce chiama la nazionalità italiana. A tal fine, approfittando delle feroci discordie comunali, Federico cercherà di opporre i Comuni minori ai maggiori, il contado alle città prepotenti, ma in questo non riescirà che a mezzo, perchè pochi Comuni si uniranno a lui insieme coi feudatari (i discendenti degli antichi invasori barbari) e gli altri Comuni si stringeranno insieme contro di lui, salvo a straziarsi di nuovo in appresso gli uni cogli altri. Peggio è che i propositi dell'Imperatore non si limitano a sottomettere i Comuni. Vuol sottomesso anche il Papa; vuol tornare anche più addietro del concordato di Worms del 1122; non pace, ma tregua, che fu, colla quale però si chiuse la prima lotta fra l'Impero e il Papato. Ora è fatale che questa lotta si riaccenda e spinga il Papato ad associarsi ai Comuni. Non divamperà subito. L'Imperatore vuol essere coronato a Roma e il prezzo di tale concessione è la vita d'Arnaldo. Di fatto Arnaldo può ben essere per noi un eroe, un precursore, un profeta, ma che cos'era e poteva essere per Federico? Meno di nulla, e fu immolato. E che cos'era per Federico quella Repubblica, allora proclamata in Roma, quella Repubblica colle sue strambe pretensioni classiche di concedere per gran grazia all'Imperatore i diritti del popolo romano; di ospite, come dicevano, farlo cittadino, di straniero, farlo principe? – “Ma che linguaggio è codesto? (è naturale che Federico rispondesse). Sono ombre di morti che parlano o sono pazzi?„ – E la coronazione finì in una strage.
Sei volte l'Imperatore scese in Italia. Alla quarta la Lega Lombarda, che giurata già una prima volta a Bergamo, una seconda a Cremona, pigliò nome dal terzo giuramento di Pontida, è già costituita di venticinque città; bel moto, non d'indipendenza nazionale (che a chiamarlo così si commette un anacronismo ridicolo), ma bel moto nazionale ad ogni modo, stupenda riscossa latina, e che non ha riscontri nella nostra storia medievale. Alla quinta discesa Federico è sconfitto nella battaglia di Legnano il 29 maggio 1176. L'indomabile Imperatore piega dinanzi ad avversari degni di lui, un gran Papa, Alessandro III, una lega di città eroiche. Ma non chiediamo nè al Papa di pensare ad altro che al Papato, nè ai Comuni di perseverare nella Lega per costituire l'Italia in una federazione perpetua. Oibò! Ognuno ha combattuto colle idee del suo tempo, non con quelle di sei o sette secoli dopo. Se c'è un solo, che abbia mutato opinione, è il leale Imperatore, il quale s'avvede che dinanzi al Comune, dinanzi a questo feudatario nuovo, che nel suo regno d'Italia ha preso un posto così formidabile, è forza cedere e cede in realtà a Costanza nel 1183, benchè il Papa avesse già trattato per primo e da sè, e benchè la Lega Lombarda si fosse già a quest'ora disciolta. Ad ogni modo, ripeto, la prima Lega Lombarda, Pontida, Legnano sono certamente le più grandiose ed epiche pagine del nostro risorgimento comunale nel Medio Evo. Quali che siano i fini della lotta, v'ha Italiani contro stranieri e la lotta è santa, giusta, gloriosa. Ma v'ha ancora Italiani alleati dell'Imperatore e ciò in forza delle condizioni e delle divisioni storiche d'allora, che non si possono giudicare coi sentimenti dei nostri giorni. Bisogna guardarsi dal recare idee d'altro tempo in questi conflitti, altrimenti si rischia di non capirci più nulla; bisogna guardarsi dal quarantotteggiare (permettetemi la parola) anche nella storia, come quando dir Pio IX e Alessandro III, imperatore d'Austria e Barbarossa, Goito e Legnano pareva che fosse tutt'uno e che non facesse una piega.
Ad un ultimo fatto della storia di Federico Barbarossa mi conviene accennare, ad un ultimo fatto, che ha conseguenze d'estrema importanza. Quella Milano, ch'egli ha combattuto con tanto accanimento, quella Milano, ch'egli ha umiliata, distrutta, rasa al suolo e che nondimeno l'ha vinto, è divenuta ora la prediletta di quel grand'animo di soldato e di cavaliere, e la ricolma de' suoi favori, e vi celebra, per farle onore, le nozze di suo figlio Enrico VI con Costanza, l'erede del trono normanno di Sicilia, le quali nozze danno agli Svevi un diritto di successione alla monarchia meridionale, nei tempo stesso che gli Svevi cercano di rendere ereditaria nella loro casa la corona imperiale. Per tal guisa diventa possibile l'eventuale unione dell'Impero e della monarchia meridionale italiana; per tal guisa alla lotta perpetua di preminenza fra l'Impero e il Papato, s'aggiunge un altro argomento, e più aspro, di nuovi dissidi; per tal guisa il destino di casa Sveva è più che mai stretto, vincolato indissolubilmente all'Italia. Il caso volle che di tuttociò si vedessero ben presto gli effetti, perocchè presa da Saladino Gerusalemme e commosso di tanta perdita tutto il mondo cristiano, il vecchio imperatore Federico, che già da giovinetto avea presa la croce, volle finire da crociato la gloriosa sua vita e la finì non in battaglia, combattendo, ma tragittando un fiumiciattolo, che lo strascinò nella sua corrente e l'affogò. Strano ludibrio di destino, che parve allora all'ingenua fantasia dei contemporanei in tal contrasto, in tale sproporzione, dirò meglio, coll'epica figura di quest'eroe nazionale tedesco, di questo fulmine di guerra, uscito vivo da tante battaglie, di questo Ildebrando imperiale, come il Bryce lo chiama, ultimo forse ad avere schietto e splendente nell'animo il concetto dell'origine divina della sua potestà universale, a considerarsi secondo la conferma, che al suo concetto porsero i grandi giuristi bolognesi, padrone del mondo, fonte della legge, incarnazione del diritto e della giustizia, che alla sua morte non si volle credere, e Barbarossa trapassò nella leggenda e nella poesia come il mito perpetuo e sempre aspettato del Sacro Impero, come il vendicatore millenario, che tornerà nel giorno assegnato dal destino per castigare i nemici dell'Impero e della Germania. L'Imperatore non è morto (canta la vecchia ballata, che potete vedere riprodotta sino ai giorni nostri nei versi del Rückert, dell'Heine, del Geibel), l'Imperatore non è che addormentato coi suoi cavalieri in una caverna inaccessibile dell'Untersberg, aspettando l'ora che i corvi abbiano finito di svolazzare intorno alla cima del monte e il pero nano di fiorire giù nella valle, per ricomparire alla testa de' suoi crociati e riportare alla sempre giovane Germania dalle bionde chiome l'èra della pace, della forza e dell'unità.
C'è che ire però prima che il misterioso vaticinio si compia. Ma non è lontano il tempo, che un altro successore degno del primo Federico, benchè con tutt'altri pensieri, si mostri sulla scena del mondo. Intanto il figlio di Barbarossa, Enrico VI, doma con selvaggia ferocia il regno tedesco, tutto sconvolto alla morte del padre, poi tenta due volte la conquista della Sicilia, spettantegli per diritto ereditario di sua moglie Costanza, e la seconda volta la prende e la tiene con così spietata crudeltà di governo, che viene in odio a tutti, alla stessa sua moglie, la quale movendo dalla Germania per partecipare ai trionfi del marito avea dato alla luce in Jesi un fanciullo, Federico II, che i contemporanei chiameranno poi stuporem mundi, la meraviglia del mondo. Ma tra la morte d'Enrico VI e l'anarchia, che le succede nel regno tedesco a cagione dell'Impero conteso tra Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick, un altro gran Papa, il maggiore dopo Gregorio VII, è salito sulla cattedra di San Pietro, Innocenzo III, che la dottrina della supremazia papale formulerà con tal audacia teorica, e praticherà con tale ardimento, abilità e scaltrezza di politica, da doverlo considerare come l'ultimo dei grandi Papi del Medio Evo, e quegli che veramente chiude un'epoca della storia del Papato, siccome Federico II ne chiuderà e per sempre un'altra della storia dell'Impero. Dove non ha egli, Innocenzo III, distesa la sua mano?! Durante il suo papato le crociate, questo gran moto dell'Occidente sull'Oriente, questo gran moto inspirato, promosso, capitanato sempre dai Papi (anche quando trovansi fra i crociati i più potenti principi d'Europa), sta per cambiare carattere, perchè l'antico entusiasmo è sbollito, perchè la speculazione commerciale e politica (come chiaramente dimostra la quarta crociata, che piglia Costantinopoli e lascia
Il sepolcro di Cristo in man dei cani),
la speculazione commerciale e politica, dico, vi s'è infiltrata e prevale in sostanza all'inspirazione religiosa; ma Innocenzo III crea un'altra specie di crociata, quella contro gli eretici, gli Albigesi per primi, con che all'astratta supremazia papale surroga una ingerenza strana e nuovissima nel governo d'uno Stato europeo. Quanto alla Sicilia, Innocenzo III ha un concetto assai chiaro, che trasmetterà ai suoi successori: impedire che sia unita all'Impero con un solo sovrano, e vi persiste, nonostante che la vedova di Enrico VI abbia messo sotto la sua tutela l'erede diretto degli Svevi e della corona Normanna; vi persiste sino a che la necessità lo spinge ad opporre Federico II ad Ottone di Brunswick, a cui è riescito d'arraffare l'Impero. Allora credendo in poter suo costringere poi il suo pupillo a rinunciare alla Sicilia, Innocenzo III può dunque morire nella dolce illusione d'aver sottomesso il mondo al Papato. In quella vece il principio imperiale, civile, laico, che dir vogliate, è appunto allora che sta per reagire. È tristo a dirsi, signore mio, ma fra queste azioni e reazioni, fra questi corsi e ricorsi si travaglia continuamente la storia. È egli vero, che al di sotto di essi c'è, come crede il Gervinus, una corrente profonda, che avanza sempre e sempre procede? Speriamolo! Intanto la supremazia papale di Innocenzo III era un sogno, e quella dell'Impero, che un altro grand'uomo, Federico II, ritenta, sarà un sogno ancor essa!
Consideriamo Federico specialmente in relazione all'Italia, perchè al mio tema mi convien cercar limiti da ogni lato.