Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 25
Gli artefici bizantini, che ripararono in Italia, specie dopo la persecuzione degli iconoclasti, lasciarono monumenti insigni a Venezia, Ravenna, Parenzo, Grado, Milano e Roma. Fantastica arte, nella quale lo splendore non è scompagnato dalla grazia! Guardatela solo negli ornati. Una vivida fantasia lega e attorciglia, come in una creazione di sogno, fusarole, groppi, rosoni, caulicoli rampanti, croci, pesci, colombi, pavoni.
Quest'arte, trapiantata in Italia e assimilata dal genio nostrale, diede origine a quello stile, denominato appunto italo-bizantino, il primo frutto dell'arte dei magistri comacini.
L'arte bizantina splendette meglio che altrove a Venezia, nel maggior tempio della Repubblica.
Dopo le crociate, l'architettura s'adorna di nuovi incanti e di una graziosa diversità di forme. Venezia accoglie in sè le tradizioni dell'Oriente a quelle dell'Occidente; l'arte archiacuta, in leggiadra maniera, s'unisce allo stile orientale, e sull'arco bizantino della basilica marciana s'imposta l'arco a sesto acuto, colla sua ricca decorazione di sculture e di cesellature.
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Ma non ancora comparisce la personalità dell'artefice.
L'arte è di solito l'espressione di una potenza individuale, ma a Venezia, in questi tempi civilmente, commercialmente e militarmente gloriosi, e nei quali l'individuo sparisce di fronte alla società, l'arte è collettiva. Non un nome, un solo nome d'artista insigne ci arresta.
Chi fu l'autore di San Marco? Chi del Palazzo Ducale?
Il popolo, non il cittadino – l'associazione, non l'individuo.
Il pensiero individuale spariva, imperavano la fede e la patria, due concetti, che tutti gli altri assorbivano.
Così il Palazzo Ducale sorge a significare il concetto del governo, non l'idea di un artefice. L'edifizio sul quale, in pagine di marmo, è scritta la storia repubblicana, esprime l'aperta baldanza di quei guerrieri mercanti. La feudalità sospettosa, il comune ringhioso non lasciano la loro impronta sulla veneta architettura, la quale non inspira nulla di fiero e di severo. Il palazzo della Signoria di Firenze esprime un unico concetto, energico, determinato: si comprende che il disegno meravigliosamente severo scaturì dal cervello di Arnolfo, tutto di un pezzo, senza indecisioni, senza dubbi, senza incertezze. Quei merli doveano servire di schermo e di offesa; quella porta poderosa dovea serrarsi in faccia agli invasori della patria.
La residenza dei dogi si compone invece, contro tutte le regole statiche e architettoniche, di una ampia muraglia, che gravita su leggerissime logge a fori quadrilobati. Vi sorridono le stupende e diverse bizzarrie di molti architetti: l'eleganza maschia e fiera dell'arte del trecento e le meraviglie gentili del quattrocento: capitelli ingegnosamente svariati, modanature eleganti, cornici frastagliate, colonne attorcigliate, volute e viticci, fogliami e festoni, mostri e chimere, tutta una ricchezza di vegetazione marmorea, una decorazione stranamente fantastica.
Così, sul tempio di San Marco ogni generazione depone il suo strato: le arti bizantina, araba, gotica, romana, si fondono in una sublime armonia, come i palpiti dei cuori veneziani si univano nel puro, alto, sublime sentimento della patria. È un'opera sociale, non individuale, e l'architetto è il popolo, il quale ha nella basilica il suo libro e il suo poema. Gli artefici scendeano innominati nella gran calma del sepolcro e si succedevano lasciando le seste e lo scarpello, santa eredità, ad altri artefici, non curando se il loro nome andasse perduto nella gran luce collettiva, emanante dal tempio, ma fieri nel gaudio supremo di aver cooperato all'incremento dell'arca sacra della fede e della patria. Allora l'edifizio appariva come un'opera semplice e maestosa, da cui ogni seduzione artistica era bandita. Ma giunge il giorno, in cui l'arte sorride al primo incolorarsi delle tavole dipinte. E allora, sotto le vaste cupole, nella penombra dorata, fra simboli, animali fantastici, creazioni di sogno, fiammeggiamenti d'apoteosi, a canto ai santi e ai patriarchi lividi e stecchiti dei mosaici bizantini, alle vergini cadaveriche, appaiono dolci profili femminili, qualche bel San Giorgio, Apollo del Cristianesimo, recanti là entro, in quell'aura misteriosa, in quella pace solenne, come un soffio di gaia vita esteriore.
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Venezia non comparisce degnamente nel campo dell'arte, che all'aprirsi del secolo quintodecimo. Finchè Giotto compiva la divina opera del Santuario d'Assisi, Venezia era occupata in traffichi ed armi. Mentre Lorenzo Ghiberti rapiva al Paradiso le porte del vostro bel San Giovanni, e Masaccio scopriva il segreto della bellezza antica, l'arte veneziana bamboleggiava ancora.
Coi Vivarini, coi Bellini, col Carpaccio, con Cima da Conegliano, l'arte si eleva a maggior dignità di forma e di concetto; con essi veramente s'inizia la fulgida pittura veneziana. Ma essi nascono ed operano tutti nel quattrocento, nei tempi giocondi, in cui il fasto cela la decadenza.
Pure c'è ancora nella loro anima come l'eco del vecchio secolo, le amabili peritanze associate agli ardimenti giovanili del trecento. Quella poesia soave, che nasce nel cuore guardando le loro opere, esciva ancora dalla vita e ogni forma pare si espanda ad un sorriso mite, misurato. L'ideale era nelle cose. Nelle tavole di quei pittori c'è come l'ultimo sospiro di un'età moribonda, essi sono dominati da questa poesia, non la dominano come altri pittori veneziani, i quali si limitano a manifestare un sentimento individuale. Sono ingenui e veri, candidi e forti. Alla natura s'accostano come a donna desiderata, ma rispettata, e nelle cose intorno e nelle forme, nei colori, nelle linee, scorgono una significazione alta e nobile, come un'anima, che alla loro anima si accordi, accordo di bellezza, di soavità, di commozione, di meditazione.
Al loro sentimento sembra quasi sieno di impaccio gli artifizi del disegno; al loro ingegno, le lusinghe dell'arte.
Altri artefici manifesteranno tutta la pompa e il vigore della salute, ma nessun capolavoro di un'arte più avanzata e più raffinata lascia nell'anima una impressione più sincera e profonda di queste opere primitive, che hanno tutti i soavi candori dell'infanzia.
Rapido lo svolgersi, il maturare e il decadere dell'arte veneziana. Giovanni Bellini muore nel 1516 – l'ultima opera del Carpaccio è segnata dall'anno 1522 – Tiziano nasce nel 1477 – Paolo Veronese nel 1530. Bene, non sembra che i due primi sieno cresciuti nello stesso paese dei secondi, e nati a così poca distanza di tempo. Basta confrontare nelle tavole degli uni e degli altri il tipo della donna, d'ogni arte il più efficace termine di paragone. In Bellini e in Carpaccio un chiaro volto ovale, la fronte alta, candida, un po' convessa, la bocca piccola e sottili le labbra, il naso diritto e lo sguardo modesto e pensoso – tutta una casta eleganza, irradiata da uno spirito interiore, che molto ricorda il vostro Sandro divino. Le vergini e le sante di Tiziano e di Paolo – maghi del colore, fascinatori della vista – hanno la fronte superbamente levata e coronata da una gran massa di capelli d'oro filato, lo sguardo fiammeggiante d'ardente desio, nuda la giunonia abbondanza del seno, l'epidermide di latte e di rosa, sotto la quale fluisce il sangue ricco di vigoria e di salute – tutto il profumo della bellezza e della seduzione, reso con una meravigliosa abilità di mano, non sempre guidata dal pensiero. Così a poco a poco, svanito il giusto e placido sentimento della vita, le arti imitatrici sono dalla licenza dei tempi fortemente sospinte a una tendenza lasciva. I pittori, nell'acuta ricerca del piacere, si compiacciono delle baccanti ignude, delle Veneri procaci, delle donne bionde, esuberanti di gioventù e d'allegrezza. Quando tutte le poesie dell'animo finiscono nell'unica poesia della voluttà, e l'arte non cerca se non il fasto e manifesta le ardenti sensazioni con tutta la sovrabbondanza di una gioia possente, dite pure, o signori, che anche nella vita, ogni sentimento forte e gentile è perduto.
SANTA MARIA DEL FIORE E IL DUOMO DI MILANO
(I GIUDIZII ARTISTICI NEL SECOLO XIV)
DI
CAMILLO BOITO
Io vi prego, signore e signori, di lasciarmi fare il contrario di quanto costumano i lettori o conferenzieri, i quali dal loro tema, per quanto sia grave, colgono solitamente i più gentili fiori, e di quelli fanno un mazzetto da offrire con bel garbo agli ascoltatori benevoli. Io voglio porgervi piuttosto le spine. Eppure il mio campo non sarebbe troppo arido, perchè i giudizii artistici possono allargarsi a tutta l'ampiezza dell'arte, e ricercando in qual modo i dotti, i poeti, i popolani del Trecento giudicavano le opere della pittura, della statuaria e dell'architettura, anche lasciando stare le altre discipline del bello, sarebbe facile cavar dalla storia curiosi esempi, distinguendo quel tanto che si riferiva allo spirito religioso o alla dignità cittadina, da ciò che risguardava la inclinazione estetica, l'amore dello sfarzo, il capriccio della moda.
Il Petrarca, quando si commuove innanzi alle meraviglie di Venezia, quando ammira la cattedrale di Colonia, quando discorre di una tavoletta di Giotto; Dante, quando dipinge o scolpisce figure e storie nel poema; il Boccaccio quando ride di artisti, quando si ferma a descrivere le belle donne innamorate (e il modo d'intendere la natura non è sempre analogo al modo di capire le opere d'arte); i cronisti, quando mostrano gli entusiasmi del popolo per un quadro o per un tempio; esprimono giudizii artistici nè più nè meno. Poi ne' giudizii sono compresi i precetti degli artefici stessi e dei trattatisti, come quel buon Cennino Cennini, il quale negli ultimi anni del Trecento così s'indirizza a chi vuol cominciare lo studio dell'arte: Adunque voi che con animo gentile sete amadori di questa virtù, adornatevi prima di questo vestimento: cioè amore, timore, ubbidienza e perseveranza.
Quante dolcezze, quante grandezze lascio in un canto, signori, per appigliarmi alla parte meno grata, più ristretta e noiosa del mio argomento: i modi di giudicare le opere o per pagarle o per farle eseguire, allorchè si tratti di disegni d'architettura. E dovrò fermarmi a questa del compasso, che si piega meno di ogni altra arte alla varietà delle immagini. Insomma, nelle supreme bellezze del Trecento io mi contento (Dio me lo perdoni) della pedanteria amministrativa, anzi, per dirlo con due parole abbominevoli, della controlleria burocratica.
Fortuna che mi trovo innanzi due monumenti, i quali possono servire da soli a mostrare i più diversi e ingegnosi metodi di giudizio: Santa Maria del Fiore, s'intende, e poi, giacchè io sono quasi Milanese e un Milanese non può non portare sempre nel cuore il suo Duomo, il Duomo di Milano. Quanto differenti l'uno dall'altro! In questo di Firenze la linea serenamente orizzontale predomina con la maestosa ghirlanda, che tutto lo ricinge e lo incorona; in quello di Milano, i pinnacoli aguzzi, le guglie puntute si spingono in cielo, e più di 4000 statue popolano i contrafforti e gli sguanci dei finestroni. Questo è rallegrato di vari colori ne' suoi diversi marmi incastonati a fascie, a fregi, a riquadrature; quello è dal basso all'alto di un solo colore, di un solo marmo. Per questo nessun principe ha sborsato, ne' bei tempi, un quattrino, o ha pronunciato una sentenza artistica; in quello, fin dal principio, innanzi al popolo apparisce spesso il tiranno, che ordina e che paga. E non di meno quante analogie! La vecchia Santa Reparata ricorda la vetusta Santa Maria Maggiore, questa e quella rimaste in piedi mentre s'alzavano i due immensi edifici nuovi; le stesse incertezze, le stesse ansie nella costruzione; gli stessi modi di raccogliere le oblazioni, le elemosine, i legati. E se il Duomo di Milano ebbe in dono le cave della Gandoglia, quello di Firenze ebbe le selve del Casentino; se nel primo lavorarono alquanti artefici toscani, nel secondo operarono alcuni lombardi, fra gli altri un Guglielmo da Campione; se per il primo i Milanesi andarono tante volte a cercare gli architetti fuori d'Italia, per il secondo (lo dice Marchionne di Coppo Stefani all'anno 1360 della Istoria fiorentina) gli cittadini mandarono in molte parti del mondo, acciocchè la loro magnifica opera fosse la più ricca e meglio ordinata che potessi essere. Marchionne disse una corbelleria. Non ci fu, in verità, bisogno di accattare in terre straniere e neanche lontano di Firenze nelle altre provincie italiane nessun artefice; e quel poco di organismo oltramontano, che si nota nel campanile ed in Santa Maria del Fiore, s'infiltrò per via di Arnolfo, di Giotto e degli altri inconsapevolmente, assumendo così nostrani lineamenti, così fiorentina espressione, che più italiana arte è impossibile immaginare.
Ho detto Arnolfo e Giotto. So bene che hanno voluto in questi ultimi tempi levare ogni merito ad Arnolfo per la chiesa e a Giotto per la torre, come ogni gloria o quasi a Filippo di ser Brunellesco per la cupola. So bene che Filippo non ha ideato il tamburo, che sta sotto la cupola enorme; ma la cupola l'ha proprio voltata lui. So bene che dopo i figliuoli di Cambio e di Bondone altri insigni artefici ampliarono, modificarono, mutarono anche in buona parte i principiati edifici, dando ad essi una novella grandezza di misura e d'arte; ma senza Arnolfo la chiesa non apparirebbe quel che è, perchè il primo concetto non venne abbandonato mai, e senza Giotto la torre sarebbe tutt'altra cosa.
Sentite il vero in terzine da Antonio Pucci, quasi contemporaneo di Giotto, banditore del Comune, autore del Centiloquio:
Nell'anno (il 1334) a' dì diciennove di luglio
Della chiesa maggiore il campanile
Fondato fu, rompendo ogni cespuglio,
Per mastro Giotto, dipintor sottile,
Il qual condusse tanto il lavorìo
Ch'e primi intagli fe' con bello stile.
Nel trentasei, sì come piacque a Dio,
Giotto morì d'età di settant'anni,
E 'n quella chiesa poi sì seppellio.
Poi lavorò, è vero, Andrea Pisano, che il Pucci chiama solenne maestro, poi Francesco Talenti; ma se è vero il proverbio: chi ben principia è alla metà dell'opra, a Giotto si deve lasciare almeno la metà dell'onore. Ed il caro amico mio Cesare Guasti, il quale fu il più sincero amatore della verità, si sdegnava quando l'orgoglio delle scoperte critiche recava ingiuste offese alla fama degli uomini grandi. Povero Guasti! Mi rammento quasi trent'anni fa quante sere si passarono insieme d'inverno, scaldandosi al veggio, e rischiarati pallidamente da una lucernina. Leggevamo le vecchie carte dell'opera di Santa Maria del Fiore, i membranacei, i bastardelli, i quaderni. Ci si fermava volentieri alle ricordanze del provveditore Filippo Marsili, le quali principiano con l'aprile del 1354 e terminano col marzo del 1357. Era un buon uomo, senza dubbio, ma ostinatello l'antico provveditore. Registrava per memoria gli argomenti da trattare e, a riscontro, le deliberazioni degli operai; nè doveva riescire un comodo ufficio il suo, tanto a cagione della delicata responsabilità, quanto per causa della varietà degli incarichi. Gli operai, che mutavano di tratto in tratto, tiravano a fare a scarica barile, rispondendo spesso: Fanne come ti pare, oppure: Vorrassi procacciare, oppure: A' nuovi, a' nuovi, che voleva dire di rimandar la faccenda agli operai del prossimo mese. Ma il Marsili teneva duro. Sembrava che gli premesse, per esempio, una certa cappella di Dolfo di Bugliaffa. Ne parla nel febbraio, e gli operai rispondono: Lascia stare. Nel marzo ripicchia, e gli operai: Non ci pare che si faccia per niuno modo, e non ciene ragionare più. Nel giugno da capo, e gli operai, asciutti: No. Passano due anni, e il provveditore ancora: La cappella di Dolfo; ma gli altri: Mena per lunga, che noi non vogliamo, e già son fiacchi e piegano, perchè chi la dura la vince. Pure il Marsili si stancò e rinunciò ad essere provveditore, pregando, come egli scrive, caramente gli operai, che se di lui trovassero cosa meno che buona, non gliela perdonassero.
Seguono per un anno i ricordi d'un altro provveditore, Cambino Signorini, contro il quale la gente mormorava, tanto che egli medesimo invoca dagli operai che ritrovino la verità e puliscano chi à la colpa. La buona sorte vuole che le ricordanze dei due provveditori abbraccino il periodo più importante della ripresa dei lavori e porgano, intorno al nostro poco ameno argomento, molte singolari notizie.
Insomma nel 1355 Francesco Talenti (io non dubito, signori, che la storia del vostro Duomo, tanto ammirato da voi tutti i giorni, la sappiate assai bene), Francesco Talenti nel maggio assume l'impegno di fare un disegnamento o modello di legname per le cappelle di dietro: e se il modello piacerà gli si pagheranno 20 fiorini, et quando che non, tutto ciò che costa paghi il detto Francesco de' suoi propri denari. Non passano due mesi e il modello è già pronto; sicchè il 15 del luglio vengono chiamati ad esaminarlo cinque maestri, fra i quali lo scultore lombardo Alberto Arnoldi, e Benci di Cione, che costruì poi la Loggia della Signoria; ed il giorno appresso si chiamano altri quattro maestri, compreso Taddeo Gaddi, pittore; ed il giorno seguente altri cinque. Le tre mute diedero in iscritto il consiglio loro, poi si riunirono insieme; ma il provveditore ha l'ordine di stendere la nota di cento cittadini e religiosi, e chiamarli tutti a giudicare mercoledì mattina per tempo. Giudicarono che il detto disegnamento istà bene et è bene corretto e sanza difetto; perciò il modello si paghi, la quale cosa doveva far piacere al Talenti, che aveva spesso bisogno di chiedere quattrini in prestito, trattenuti poi dall'opera un tanto per settimana.
Nel giugno 1357 si riparla di murare la chiesa, di fare la chiesa tutta di pietre; e il dì 9, presenti i consoli dell'Arte della lana, cui molti anni addietro il Comune aveva dato in guardia l'opera di Santa Reparata, presenti gli operai e più altri cittadini, fu registrata dal notaio l'opinione di sei frati e di sette maestri.
Si trattava delle colonne della chiesa, sulle quali gli operai vollero sentire ancora, insieme con due frati e tre maestri, il parere di Andrea Arcagnolo, l'Orcagna, il sommo architetto del tabernacolo d'Or San Michele; ma il voto doveva ponderarsi bene in quattro giorni di tempo. Un'altra adunanza, famosa nella storia del tempio, delibera il 19 dello stesso giugno intorno al fondamento delle colonne, ai valichi delle navi ed altri lavori: e delibera di concordia. E maestri, frati, cappellani, canonici, insieme con il proposto, cominciano in sul vespro dello stesso dì a cavare il primo fondamento della prima colonna, al nome di Dio e di Santa Reparata, benedetta vergine e martire, con molto trionfo di campane, d'organi e di canti. Ai maestri s'imbandì un desinare; i frati ebbero quattrini; i manovali bevettero un barile di vino, mangiando pane e melarance, malis ranciis. Maestri e frati s'erano riuniti a consiglio 38 volte, riconfortandosi, a spese dell'opera, con frutta e confetti e trebbiano.
Pochi giorni appresso il maestro Benci Cioni tenta di mettere bastoni fra le ruote, censurando il partito preso per le colonne; e non di meno il 5 di luglio, non più il proposto, ma il vescovo benedice e sagra, non solamente in nome di Dio e di Santa Reparata, ma anche in nome di san Zanobi e di tutti i santi e sante della corte celestiale, la prima pietra di marmo della prima colonna verso il campanile; e preti e chierici tenevano in mano torchietti di cera accesi, e al trionfo delle campane, degli organi e dei canti, s'unì il clangore delle trombe.
La prima pietra delle colonne era stata posta con la sua brava data scolpita sopra; ma il disegno di esse non era ideato ancora. Avevano bensì comprato per Francesco Talenti e Andrea Orcagna del gesso, acciocchè facessero ciascuno un asempro, esempio, di colonna con la base ed il capitello, e facinla per modo da poterla poi porre in luogo che ogni uomo la veggia. Il 17 luglio, sempre dell'anno 1357, otto maestri sono invitati a giudicare i due modelli di gesso. Frate Jacopo di San Marco sta per quello dell'Orcagna, benchè gli sembri peccare di soverchi aggetti e di lavori troppo miseri; e quasi tutti s'accostano a lui, sebbene a Francesco del Coro paia che la colonna abbia talune mende e sia da pensarci meglio, ed agli altri invece piaccia così come era, sanza darvi alcuna arrota o correctione, e la giudichino per più bello lavorìo e per più presto e di meno costo e più leggiadro. Solamente Giovanni di Lapo Ghini dichiara senza reticenze che non gli garba nè l'un modello nè l'altro, offerendo di farne uno egli più bello, secondo lui. Viva la schiettezza.
Gli operai ordinarono allora un consiglio di molti cittadini e canonici, ad alcuni dei quali parve che i predetti maestri avessero giudicato per animo.
Francesco e Andrea furono dunque richiesti di dare ciascuno in iscritto due nomi di maestri confidenti. I quattro, se non fossero andati d'accordo nell'arbitramento, avrebbero dovuto eleggere essi il quinto, confidente di tutti. Infatti non riescirono a intendersi, e chiamarono un orafo, Pietro del Migliore, promettendo di rimettersi nel parere di lui, il quale, con qualche modificazione, scelse la colonna di Andrea.
Malgrado ciò, si ricomincia, ordinando a Francesco Talenti ed a Giovanni di Lapo Ghini, capomaestri della fabbrica, di far dei nuovi disegnamenti, da confrontarsi poi con quello già preferito dell'Orcagna; ma il Ghini non presenta nulla. Non importa: viene da cinque maestri, in presenza degli operai, scelta all'unanimità la nuova colonna del Talenti, come più forte e bella e laudabile; e gli operai si dichiarano soddisfatti, e vogliono che codesta colonna di gesso si ponga sul primo fondamento già costrutto, e che iscritto vi sia a pie' con lettere grosse che qualunque persona volesse apporvi alcun difetto, debba fra otto dì venire agli operai o ad altri per loro a dirne l'animo suo, e sarà udito graziosamente. In oltre il provveditore Filippo Marsili inviò il messo dell'opera a tutti i maestri religiosi e secolari di Firenze, per far conoscere loro a bocca le risoluzioni intorno alla colonna, pregandoli di venire a vederla e di esprimere il proprio giudizio. Pochi giorni dopo levano l'asempro della colonna, poichè niuna cosa per niuno è stato detto sopra ciò; e danno le relative allogazioni; e il Talenti medesimo è incaricato di vigilare la esecuzione con questo severo patto, che per ogni pietra concia che si murerà alle colonne e Francesco Talenti non vi sia, egli cada in pena di soldi venti. Quando il camarlingo non trattenesse sul salario la multa, sia condannato esso camarlingo a pagare il doppio di tasca sua.
Saltiamo nove anni: al 1366.
La vecchia Santa Reparata era stata distrutta; erano state buttate giù le case dei canonici e dei cappellani, che stavano nel perimetro della chiesa nuova; bisognava pensare, dopo avere stabilito che le navi avessero quattro valichi, alla crociata, alle cappelle posteriori, che dovevano accordarsi con la novella grandiosità della parte dinanzi. Cinque orafi vennero chiamati a consiglio il 13 luglio; ma si offrono lo stesso giorno otto pittori e maestri, fra cui l'Orcagna e Taddeo Gaddi, di fare insieme entro un mese il disegno di tutta la parte posteriore del tempio. Il 13 d'agosto si convoca di fatto un consiglio, presenti otto cittadini scelti nei conventi dell'Arte, per confrontare il merito di tre modelli: il primo condotto da' maestri e dipintori in concordia, cioè i maestri Neri di Fieravante, Benci di Cione, Francesco Salvetti e l'Orcagna, ed i pittori Taddeo Gaddi, Andrea Bonaiuti, Niccolò di Tommaso e Neri di Mone; il secondo condotto da Simone figliuolo di Francesco Talenti, il terzo condotto da Giovanni di Lapo Ghini. Bisognava rispondere a questa domanda: Quale dei tre nuovi disegni pare più bello, più utile e più sicuro? Il curioso si è che vennero interrogati gli autori medesimi circa la propria opera e quelle degli emuli. Ora i maestri o dipintori rispondono, naturalmente, che il loro proprio modello è più bello, utile e forte per ogni ragione, che niun altro, mentre Giovanni di Lapo Ghini afferma, s'intende, che il modello fatto da lui gli piace di più. Ma Francesco Talenti, buon uomo, abbandona invece il lavoro del figliuolo, per appoggiare quello dei pittori e maestri, al quale si chiariscono favorevoli anche gli otto cittadini. Ed i consoli e gli operai deliberano concordi che secondo quel disegnamento la chiesa si edifichi ad onore di Dio e della sua Madre madonna Santa Maria e di Santo Zanobi e di Santa Reparata e di tutta la corte di paradiso, e a bellezza della città di Firenze. Amen.
Lo stesso giorno consoli ed operai se ne vanno al Palagio; e lì, innanzi ai Priori delle Arti e al vessillifero di giustizia, espongono ciò che hanno risoluto per le opere del tempio ottenendo promessa di aiuto e pienissima approvazione.
Pareva dunque che tutto fosse deciso. – Oibò: state a sentire.
I capomaestri contrastavano insieme. Già Neri di Fioravante e Francesco Talenti s'erano bisticciati, tanto che a rappattumarli occorse l'intromissione di due amici comuni; ma il peggio era tra Francesco e quell'inframmettente ed inquieto Giovanni di Lapo Ghini. I loro dissensi mettevano in iscompiglio le cose della fabbrica, così che il provveditore Cambino Signorini nota: O se potessono fare che Francesco e Giovanni fossono in accordo, sarebbe buono! Ma il Ghini, come vedremo, aveva chi gli faceva spalla.
Fatto sta che gli operai, temendo nuove idee e nuove ambizioni, ordinano la distruzione di tutti i modelli, eccetto del prescelto, per il quale pagano 32 fiorini d'oro agli autori. E avevano ragione di temere; bensì avrebbero dovuto cominciare dal temer di sè stessi. Ecco, che, alcuni mesi dopo, Giovanni di Lapo Ghini, il quale non s'era mai dato per vinto, ritorna alla carica con un nuovo disegno, e tanto fa che gli operai chiamano tredici maestri a giudicare il disegnamento in paragone con l'altro dei maestri e dipintori.
Gli esaminatori giurano sul messale. Cinque stanno per gli occhi, non per le finestre all'alto della nave di mezzo; otto stanno invece per le finestre: ma sul conto dell'edificio delle cupole ovvero croce, scartano il lavoro del Ghini, confermando le precedenti deliberazioni.
Questa sentenza non poteva garbare, nè crescere autorità a Giovanni. I colleghi non gli portavano rispetto, i subalterni non l'ubbidivano. Doveva essere un presuntuoso, e certo la sua indole aveva molta analogia con l'indole di un architetto francese, il Mignot, che conosceremo tra poco nei lavori del Duomo di Milano. Ad ogni modo i protettori del Ghini presentano ai consoli una petizione, la quale comincia con larghe lodi di lui, dichiarandolo di grande necessità al lavorio, e soggiunge come egli sia invidiato et oltraggiato in detti e in fatti da certi maestri e altra gente; e perchè questo non succeda più, i richiedenti domandano che l'oltraggiatore venga tosto punito con una grossa multa, della quale un quarto spetti all'ufficiale, che avrà pronunciato la condanna, un quarto all'opera di Santa Reparata, e due quarti all'Arte della lana.
Frattanto la sorda opposizione al modello dei maestri e dipintori va crescendo via via, sinchè messer Francesco Rinuccini, in nome di molti compagni suoi, proclama a viso aperto che il seguire quel disegnamento sarebbe di grandissimo pericolo, e invoca nuovi consigli di maestri e di cittadini. Il 31 di luglio gli operai chiamano tre frati e un cappellano, i quali, uditi i capomaestri e gli autori del solito modello, giudicano che questo non si possa affatto edificare; senonchè gli autori protestano che il rilievo in grande, eseguito per ordine degli operai, dal Ghini sul predetto disegnamento, non è punto conforme ad esso.
I consoli cominciano a perdere la pazienza. E gli operai tornano a convocare cittadini e religiosi, chiedendo ancora se il modello o disegnamento dei maestri e dipintori, cui già l'arcivescovo aveva apposto la sua firma, potesse venire, con qualche correzione, attuato; e frate Jacopo da San Marco risponde anche per gli altri, proponendo le modificazioni e concludendo che a questo modo l'edificio riescirà possibile e forte. Francesco Talenti e Giovanni Ghini (anche lui!) dichiarano di consentire.
Sia ringraziato il cielo! Si faccia dunque una chiesicciuola di mattoni a similitudine di detto modello, cioè un modello grande, che tutti possano intendere. Ma il Ghini (quant'è noioso!), il quale aveva pur dichiarato di piegarsi, e riceveva appunto in quei giorni dagli operai per le sue benemerenze e per maritar la figliuola il prestito di 100 fiorini d'oro, da restituire in dieci anni, stava facendo anche lui per suo proprio conto la sua brava chiesicciuola di mattoni. Bisognava risolvere una buona volta fra i due grandi modelli, perchè il Ghini era riuscito a tornar nella gara. Il 26 d'ottobre i savi e discreti operai fanno richiedere gran numero di cittadini per avere un giudizio, i quali tutti, niuno scordante, dissono e per consiglio renderono, che la chiesicciuola trovata pe' maestri e dipintori più piaceva a loro che quella trovata per Giovanni di Lapo Ghini, però ch'era più bella e più magnifica e onorevole per la città di Firenze, e che a quello esempio la chiesa si dovesse edificare e fare col nome d'Iddio.
Lo stesso giorno davanti agli operai un secondo gruppo di cittadini ripete la medesima sentenza, con un solo voto contrario di Jacopo degli Alberti, il quale giudicava la chiesicciuola del Ghini meno bella al di fuori ma più bella al di dentro; e ancora il medesimo giorno un terzo gruppo assai numeroso conferma unanime il verdetto degli altri due. Agli operai non basta: vogliono un plebiscito; e i banditori vanno per tutta la città gridando: Che ciascuna persona e ogni maniera di gente venga alla chiesa di Santa Reparata a dire quale dei disegni piace loro più e a similitudine del quale la chiesa si debba edificare.
Allora comincia una interminabile processione di visitatori, nobili, ecclesiastici, artefici, spadai, calderai, staderai, bottai, lanaiuoli, tintori, cimatori, albergatori, vinattieri, pizzicagnoli, fornai, rigattieri, ferravecchi, e che so io; e tutti quanti, senza eccezione, ripetono che la chiesicciuola dei maestri e dipintori piace loro più, e quella si debba edificare, per più bella e più onorevole e magnifica dell'altra. E il 27 continua la processione di centinaia e centinaia di cittadini, tutti concordi nel preferire la stessa chiesicciuola e nel volere che il tempio si alzi a somiglianza di quella.