Kitabı oku: «La vita italiana nel Trecento», sayfa 5
I PRIMORDI DELLE SIGNORIE E DELLE COMPAGNIE DI VENTURA
DI
AUGUSTO FRANCHETTI
I
Se, passando da piazza della Signoria, alzate gli occhi a guardare le armi dipinte sotto il ballatoio di Palazzo Vecchio, ne vedrete una, che porta uno scudo azzurro col motto Libertas, ed era l'insegna del magistrato de' priori: la stessa parola si legge scritta sullo stemma di Bologna e d'altri comuni; e si trova ad ogni passo nei bandi delle autorità, nei discorsi degli oratori, nei versi dei poeti, durante i secoli XIII e XIV. Ma la libertà che amavano e bramavano gli uomini di quei tempi, e per la quale erano pronti a dare fino all'ultima goccia di sangue, era la libertà di regolare le cose del Comune opprimendo ferocemente le consorterie e le fazioni avversarie, e di tener soggette le terre vicine, anche taglieggiandone gli abitanti. Alle menti medievali, il diritto politico si rappresentava come un privilegio, e le attribuzioni dello Stato come franchigie; quel che chiamavasi Comune era quasi sempre il governo d'una fazione; le sue leggi e i suoi statuti, anche in materia civile e amministrativa, miravano a difesa o ad offesa partigiana; e le sue giustizie medesime apparivano vendette. Abbattuti i feudatari e costretti i più di questi a venire dentro le sue mura, il Comune s'era sostituito nelle loro ragioni, e le esercitava, con non minor vigore, a carico dei vassalli, sotto le due alte e mal definite potestà della Chiesa e dell'Impero; potestà intorno alle quali s'aggira tutta la storia dell'evo medio, e che combatterono tra loro le ultime grandi battaglie appunto fra il 1226 e il 1268, cioè fra il principio della seconda Lega lombarda e il supplizio di Corradino. Laonde rimase all'Italia una funesta eredità di odî, di divisioni e di rovine e le si apparecchiò, pel futuro, uno stato d'impotenza e di dipendenza politica, confortato soltanto dal sogno della duplice supremazia universale.
Non vanno accettate a chius'occhi le meravigliose descrizioni che ci lasciarono poeti e cronisti del beato vivere nelle prime età dei Comuni. Presto incominciarono le guerre coi vicini e anche le discordie
Tra quei che un muro ed una fossa serra.
E la parte che v'ebbe senza dubbio la diversità di schiatta non appare dai documenti raccolti sia stata così preponderante nè così universale come afferma qualche moderno storico; mentre, a buon conto, le stesse gare di fazioni nemiche, le stesse violenze pubbliche e private si ritrovano nei luoghi dove non penetrarono nè si stanziarono invasori germanici. Si può tenere per vera l'opinione del Balbo che la fusione delle razze era omai compiuta al tempo della pace di Costanza, nel 1183; e già di lunga mano si era andata operando in seno alle moltitudini. Avvalorata da varie cause accessorie, la esaltazione delle forze individuali congregatesi in molteplici compagnie, fu causa d'ogni bene e d'ogni male, di precoci fortune e di non meno precoci calamità, pei popoli della penisola che sorgevano rigogliosi a vita nuova in sul principiare del secolo XII.
II
Ogni città pertanto soleva avere molti nemici e di molte sorta: primi fra tutti, i fuorusciti che avevano avuto le case arse e disfatte, a furia di popolo e talvolta per sentenza del magistrato, e tutti i beni pubblicati, ossia confiscati; onde peregrinavano condannati essi stessi a morte o all'esilio, insieme colle donne e coi figliuoli (quando pure questi non fossero stati trattenuti come ostaggi): bensì costoro, senza perdersi d'animo, costituivano subito uno Stato fuori dello Stato; si raccoglievano a consulte, si eleggevano capi, stavano uniti ed armati, offrendo i loro servigi in cambio dell'ospitalità a quelli della loro parte, e spiando l'occasione di tornare in patria, per render la pariglia ai loro avversari: taluni pure stretti dal bisogno si mettevano agli stipendi di qualche signore italiano o straniero, facendosi così precursori delle compagnie di ventura. C'erano inoltre altri nemici del Comune, più coperti, ma non meno pericolosi: dentro, la moltitudine dei malcontenti, cioè degli esclusi dagli onori: e questi solevano essere, in Toscana, i nobili e i plebei, poichè coloro che in sul finire del secolo XIII si erano recati in mano lo Stato erano generalmente i popolani grassi; ma ai grandi poi vennero ascritte, per astio e per vendetta, molte famiglie d'origine cittadina, e gli stessi popolani grassi, divisi in consorterie e in nuove fazioni, si fecero guerra tra loro. Fuori poi, stavano le terre e le città soggette le quali erano tenute in freno più che altro dalla paura; e quanto più esteso era il dominio, tanto più eran temibili le ribellioni; nè si ristavano dal fomentarle i feudatari della campagna, che non tutti si erano condotti a vivere dentro le mura, ma parecchi serbando una mezza indipendenza eran venuti a patti col Comune, nè avevano scrupolo di violarli ove a loro tornasse conto. Non occorre accennare alle insidie e alle guerre degli emuli vicini o lontani, essendo sorte che tocca a tutti gli Stati. Bensì i Comuni, per la loro natura, vi andavano più esposti degli altri.
Invero varie città, guerreggianti coi signori del contado, avevano ordinato l'affrancazione dei servi della gleba; talvolta li avean persin ricomprati; e famosi sono i decreti promulgati da Bologna nel 1256 e 83, da Firenze nel 1289 e 97, che sembrano precorrere, nella consacrazione della libertà personale, le dottrine filosofiche del secolo XVIII. Ma tali atti, ristretti alla sola servitù rurale, possono equipararsi alle emancipazioni sancite dai pontefici qual conseguenza delle bolle di scomunica; poichè come da un lato non ponevano ostacolo alla servitù domestica (di cui si trovano traccie negli Stati italiani fin oltre al seicento), così dall'altro non iscioglievano tutta la compagine degli ordini feudali; ed i Comuni vietando di vendere o di comprar coloni e abolendo le angherie dovute ai Signori, non intendevano menomamente di rinunziare alla giurisdizione civile e politica sui loro vassalli. Anzi, persino accettando la dedizione spontanea o l'accomandigia di qualche terra, non mancavano d'imporle un tributo od almeno un atto d'omaggio, insieme coll'obbligo di obbedire ad ogni loro comandamento. Figuratevi dunque come trattassero i conquistati!
Al Machiavelli che in un capitolo dei Discorsi sulle Deche di Tito Livio aveva vagheggiato l'idea d'una grande Repubblica italiana, il Guicciardini obbiettava, nelle sue Considerazioni, che ciò sarebbe stato a vantaggio d'una sola città e a rovina delle altre, dappoichè repubblica non concede il benefizio della sua libertà “a altri che a' suoi cittadini propri„, mentre la monarchia “è più comune a tutti„. Tal contrasto, sagacemente notato dallo statista fiorentino, si trova espresso, con singolare vivezza di passione, nell'ultimo scorcio del secolo decimoterzo da un rimatore politico, il Saviozzo da Siena, in una canzone da lui composta a laude di Giovan Galeazzo, duca di Milano, la quale incomincia:
Novella monarchia, giusto signore,
Clemente padre, insigne, virtuoso,
Per cui pace e riposo
Spera trovar la dolce vedovella…
Niuno oserebbe affermare che il desiderato sovrano meritasse tutti quegli epiteti; ma è certo che il poeta senese esaltava principalmente in lui l'avversario degli odiati Fiorentini. E poichè i Fiorentini stessi avevano sempre in bocca la parola libertà, e aggregando nuove città al loro dominio non si vantavan già (come faceva Antonio Pucci, cantor popolare e trombetta del Comune) di averle recate al loro mulino, ma affermavano di averle ridotte in libertà, il Saviozzo invocava la giustizia e la vendetta di Dio contro quel
detestabil seme
Nimico di quïete e caritade
Che dicon libertade
E con più tirannia ha guasto il mondo.
…
Costor coi loro inganni han messo al fondo
Già le cose di Dio
E conculcato quasi ogni vicino.
…
Ch'el sangue fiorentino
Purghi ogni sua più velenosa scabbia
E noi siam franchi da cotanta rabbia!
La voce del rimatore politico è avvalorata da due ben più gagliarde, levatesi già al principio e verso la metà dello stesso secolo, quelle di Dante e del Petrarca. L'uno, imprecando anch'esso, ma con tutt'altro animo, alla sua città, che gli si era fatta matrigna, e predicendole grandi sventure, le faceva intendere come le terre soggette, non meno che i nemici, le augurassero ogni male:
Tu sentirai di qua da picciol tempo,
Di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.
E a tutti predicava in ogni forma, secondo il suo ideale politico, fraterna pace e giustizia. L'altro similmente lamentava, tra le peggiori piaghe d'Italia, la folle superbia di soprastare e la cupidigia di taglieggiare i vicini più deboli; per le quali imprese gli Stati italiani, quando fu scritta la canzone (cioè secondo ogni probabilità fra il 1344 e il 45) solevano già adoperare le armi mercenarie delle soldatesche di ventura:
Qual colpa, qual giudicio, o qual destino
Fastidire il vicino
Povero, e le fortune afflitte e sparte
Perseguire, e in disparte
Cercar gente e gradire,
Che sparga 'l sangue e venda l'alma a prezzo?
A queste testimonianze, tolte, come vedete, da varii momenti del periodo storico di cui nel presente anno vogliamo intrattenervi, ne potrei aggiungere molte più intorno al furore delle sette, alle mutabilità dei provvedimenti, ed agli altri mali che straziavano i Comuni. Ma me ne astengo, poichè non bisogna abusare di nulla, neanche dei versi dei migliori poeti; tanto più che vorrò pure citarvene altri in altre occasioni, pensando che vi riesca gradita, com'è utile e buona, simil maniera d'illustrare i casi storici coi documenti della letteratura contemporanea: al che giovano non meno delle opere dei dotti ingegni, le leggende e i cantari fatti pel popolo da rimatori mediocri e spesso ignoti. Ma non vo' farvi credere d'essere andato io a scovarli dai vecchi codici dove erano sepolti; a tale studio dettero impulso fra noi il D'Ancona, il Bartoli, il Carducci; e dietro a loro una eletta schiera di giovani che alla lor volta sono già diventati maestri, quali il Casini, il Frati, il Mazzoni, il Medin, il Morpurgo, lo Zenatti, e mi piace di ricordarli per debito di gratitudine.
III
Basta il fuggevole sguardo che abbiamo dato alle condizioni interne ed esterne dei Comuni per fare intendere che sorta d'esistenza travagliata e precaria essi menassero e come aprissero facile varco alle ambiziose mire dei futuri Signori. I quali, peraltro, non ostante tutte le arti loro, non avrebbero potuto insediarsi nè mantenersi in istato ove non fossero stati sorretti, per un tempo, dal favore delle moltitudini. E non poteva essere altrimenti; giacchè la licenza e le sfrenatezze generano tal sazietà, che viene un momento in cui un popolo si darebbe anche al diavolo, pur di tirare in basso i prepotenti e di godere qualche giorno di vivere riposato; si acconcia allora all'assoluta potestà d'un solo, finchè i mali dell'oppressione non abbiano alla lor volta cancellato il ricordo degli abusi della libertà. Ci possiamo fare una chiara idea di questa legge storica, ripensando (per addurre un solo esempio) alle vicende della repubblica in Francia, negli ultimi cento anni: nè parrà strano il raffronto, chi consideri quanto si somigliano nell'instabilità le nostre antiche democrazie con la moderna di Francia. Colà due volte, nel 1800 e nel 1848, la nazione intera si buttò volonterosa in braccio ad un Bonaparte, affinchè la salvasse dai pericoli dell'anarchia. Speriamo che, al presente, faccia miglior prova la terza repubblica; e noi, come italiani, dobbiamo desiderarlo; ma poco mancò, due anni or sono, che essa non precipitasse sotto la strana dittatura d'un fantoccio soldatesco, di cui teneva i fili una compagnia di legittimisti, d'imperialisti e di faccendieri. Ed avvertasi che se, nella prima repubblica, c'erano due categorie di persone messe fuor della legge, gli emigrati ed il clero non costituzionale, nelle altre due repubbliche, tutti partecipavano e partecipano al governo, anche i residenti in remotissime colonie; mentre per contrario gli assoggettati, gli esclusi e gli sbanditi costituivano il massimo numero degli abitanti, nei nostri Comuni medievali.
Non deve dunque parere strano che la vita loro abbia avuto, in complesso, splendida, ma non lunga durata, essendo sorta coll'undecimo secolo, e già nel decimoterzo incominciando a declinare; c'è piuttosto da meravigliarsi che alcune città riuscissero, tra molte traversie, a mantenersi libere fino ai tempi moderni, e che quattro delle antiche repubbliche sopravvivessero ancora in Italia quando l'intiera Penisola, travolta nel turbine della rivoluzione francese, fu soggiogata dalla nuova repubblica e dal suo condottiero, nato in Corsica, di schiatta toscana: quattro repubbliche, Venezia, Genova, Lucca e San Marino, tutte prettamente oligarchiche, salvo una che, sola superstite, ci è caro di conservare qual minuscolo testimone d'un mondo scomparso.
Per tutti gli altri Comuni, la trasformazione in signorie ha principio col 1200 ed ha compimento nel 1559. Durante questo periodo si manifestano svariatissime forme di vita politica che s'intrecciano e si avvicendano, secondo che portano l'energia individuale e l'umore avventuroso d'un popolo, il quale si ridesta, giovane e vecchio ad un tempo, superbo delle antichissime tradizioni latine, perpetuatesi nei travestimenti del medioevo, e pur voglioso d'innestare su quelle i germogli d'una nuova civiltà.
IV
Al modo stesso che i Comuni si sono inalzati sui feudi, appropriandosene gli usi e le prerogative, così ai Comuni si sovrappongono le signorie usurpandone le ragioni e riducendole in mano ad un solo. Ma poi (questa è una sentenza veramente storica del cronista Matteo Villani) “come tirannie si criano, com'elle esaltando si fortificano e crescono, così in esse si nutrica e si nasconde la materia della loro confusione e ruina„.
Laonde avveniva non di rado che un Comune, caduto sotto l'autorità d'un tiranno, si rivendicasse in libertà, e che poi più d'una volta si rinnovasse la stessa vicenda. Non alla sola Cesena, ma a parecchie città si potevano applicare i versi di Dante:
Così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
Tra tirannia si vive e stato franco.
E del pari le signorie non istavano ferme; le grosse ingoiavano le piccole; e queste, quando se ne porgeva il destro, tornavano indipendenti, salvo a ricadere sotto gli artigli d'un più potente vicino. Se non che neppure il semplice trapasso, che può dirsi normale, da feudo a comune, da comune a signoria, e da signoria piccola a signoria grossa, non sempre accadeva, nè dappertutto; e molto meno poi tali successioni si effettuavano contemporaneamente. Nel modo stesso che a quanto c'insegnano gli astronomi, si muovono, negli spazi eterei, mondi in formazione, e poi sistemi planetari che come il nostro compiono le proprie rivoluzioni, e infine soli spenti e pianeti frantumati; così a mal agguagliare, sussistevano insieme, nei secoli XIII e XIV, feudi d'antica data, comuni rimasti o rifattisi liberi, e signorie di varia grandezza e di varia natura.
Sotto quest'ultimo nome, nel più largo significato, si comprende ogni specie di sovranità: Venezia e Firenze, per esempio, avevano ciascuna la sua signoria, che era composta, per la prima, del doge e dei suoi collegi, per la seconda del gonfaloniere e de' priori. Signorie si chiamavano pure le giurisdizioni e i principati feudali, per lo più di remota ed oscura origine; alla qual categoria appartenevano alcuni Stati ragguardevoli, come quelli dei marchesi di Monferrato, e dei marchesi di Saluzzo (ambedue famiglie aleramiche), e quelli dei conti di Savoia, da cui si era staccato nel 1295 il ramo dei principi d'Acaia. Finalmente spetta la medesima denominazione anche al potere acquistato per eredità, o conquistato per invasione, quale fu quello che ebbero sul Regno, prima gli Svevi succeduti ai Normanni e poi gli Angioini, e sulla Trinacria nel secolo XIV gli Aragonesi, dopochè la mala signoria dei Francesi trasse Palermo a gridar mora! mora! Di codeste signorie peraltro non tocca a me d'intrattenervi, salvochè per ricordare come gli Angioini, introdottisi in Piemonte nel 1265, vi ottenessero la dedizione di parecchie città; le quali poi, tradite dal marchese Guglielmo di Monferrato, fecero lega, e, presolo, lo rinchiusero dentro una gabbia, in Alessandria, ove in capo a due anni morì, e quelle città passarono per la più parte a Casa di Savoia. Ma le signorie, nel significato ristretto e propriamente storico della parola, sono soltanto quelle che si sostituirono ai Comuni. Anche in tali termini la materia è sì vasta che ci sarebbe da discorrerne per mesi ed anni, non che per ore e giorni. Ma non vi spaventate! c'è una tirannia, maggiore d'ogni altra, e che non ha bisogno d'illustrazione: è quella del tempo, alla quale non voglio menomamente sottrarmi. Per ciò appunto ho scritto questa chiacchierata, invece di dirla familiarmente come avrei preferito. E per la medesima ragione non istarò a enumerarvi tutte le signorie del XIII e del XIV secolo (che già sarebbe impossibile) e neanche tutte le principali. Mi contenterò invece di additarvi rapidamente le diverse specie in cui esse possono distinguersi; e le loro qualità generali, come fin qui ho cercato di mostrarvi la causa prima e fondamentale da cui derivarono tali rivolgimenti politici. Dopodichè, determinata la cornice e descritto il campo del quadro, potremo mettervi dentro qualche figura più tipica delle varie famiglie di signori e di tiranni.
V
Se guardiamo alle origini, parecchi tra i signori sono antichi feudatari che già dimorano stabilmente nelle città, oppure vi calano dagli aviti castelli, dove tuttavia esercitano i privilegi nascenti dall'atto d'investitura e dalla consuetudine, e più veramente dalla forza, per quanto almeno la forza altrui non gli abbia stremati. Ve ne sono poi che vengono dal popolo; i quali, nei tempi più recenti (in particolar modo nel secolo XV), non procedono più alla maniera selvaggia dei primi, ma con arti politiche raffinate e, come dicevasi, con modi civili. Infine i condottieri, qualunque sia la loro schiatta, costituiscono una categoria di per sè stante; giacchè i primordi delle compagnie di ventura, così nella storia come anche nel nostro tema, si collegano coll'estendersi delle signorie. Rispetto dunque all'origine si hanno i feudatari, i cittadini, e i condottieri, che possono essere dell'una o dell'altra specie; quanto poi all'acquisto della signoria, suol conseguirsi per dedizione, per compra o per violenza o per queste varie vie congiuntamente, e di solito mediante l'ufficio di podestà, di capitano del popolo o di vicario.
VI
Insediatosi nella città, il signore deve pensare a difendersi contro gli avversari, che in casa e fuori congiurano contro di lui o gli fanno guerra aperta. Come ha acquistato l'autorità per virtù della propria energia personale, del pari deve adoperare assiduo studio a conservarla. Il suo governo sarà più o meno feroce a seconda dell'indole dell'uomo e delle contingenze; rimarrà sempre peraltro un sogno poetico l'ideale che il Petrarca delineava scrivendo a Francesco da Carrara, signore di Padova, intorno all'ottima amministrazione dello Stato. Egli voleva che il principe fosse non padrone ma padre della patria; e delle armi e dei trabanti si valesse non contro i cittadini, ma contro i nemici e i ribelli. Se non che costui, per la sua stessa condizione, è indotto a sospettare di tutti i cittadini più ragguardevoli ed a trattarli tutti da nemici e ribelli: non è rattenuto da alcun scrupolo ne si ristà dal commettere delitti, macchiandosi puranco del sangue dei suoi parenti. Colla plebe invece, che non gli dà ombra, si sforzerà di mostrarsi benefico, e di amicarsela provvedendo largamente ai bisogni pubblici. Ma per tali spese, non che pel fasto della sua corte e per lo paghe delle sue milizie, gli occorrono denari; procurerà di non aumentare le gravezze e finchè può lascerà le cose come le ha trovate, ma penserà ad impinguare l'erario, sia colla meditata spoliazione di un dovizioso cittadino e magari d'un proprio ministro arricchito, sia mediante qualche impresa fortunata o qualche buona condotta militare; nè è raro il caso che un signorotto si metta per un certo tempo agli stipendi d'un altro signore o d'un Comune.
Sospetto, crudeltà e cupidigia sono pertanto i vizi ordinari del signore, che quasi per necessità è costretto a farsi tiranno. E niuno meglio di Dante che nel suo esiglio dovette pur troppo frequentare le corti, e
Scender e salir per l'altrui scale,
esprime lo sdegno dei galantuomini contro coloro
che dier nel sangue e nell'aver di piglio;
e ne fa vendetta cacciandoli all'inferno dentro al sangue bollente.
Tutti ricordate come nella famosa imprecazione alla serva Italia in sul principiar del 300, egli attesti:
Che le terre d'Italia tutte piene
Son di tiranni ed un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Ma c'è un altro passo della sua operetta latina sulla volgare eloquenza, dove, dopo aver esaltato il valore e la gentilezza della casa di Svevia e specialmente di Federigo II e di Manfredi, vi contrappone l'abbietta volgarità e la superbia plebea dei tiranni contemporanei; e con bizzarra fantasia finge che facciano tutti insieme un diabolico concerto musicale per chiamare a raccolta i più scellerati uomini del mondo. Racha, racha! incomincia egli, usando una parola evangelica, come a dire: Ohibò, vitupero! E poi prosegue: Che mai suona ora la tromba dell'ultimo Federigo (d'Aragona)? Che la campanella di Carlo II (d'Angiò)? Che il corno dei potenti marchesi Giovanni (di Monferrato) e Azzo (d'Este)? Che i pifferi degli altri signori? Qual voce n'esce salvo che questa: Venite carnefici! venite frodatori! venite predoni!
Così li bollava il gran giustiziere del medioevo; ma non bisogna credere che tutti i signori fossero scellerati volgari. Pronti ad ogni delitto erano i più tra loro: non i più peraltro facevano il male senza qualche ragione politica, ed unicamente per isfogo di basse e brutali passioni. La sottile arte di stato che il Machiavelli vide praticata in sul finire del 400 e in sul principiare del 500, e che egli ridusse in regole scientifiche nel libro del Principe, erasi andata formando appunto nei due secoli precedenti; nè altrimenti sarebbe potuta giungere d'un tratto a sì alto grado di odiosa perfezione.