Kitabı oku: «L'Ombra Del Campanile»
Stefano Vignaroli
A Giuseppe Luconi e Mario Pasquinelli,
illustri concittadini che fanno
parte della Storia di Jesi
Stefano Vignaroli
LO STAMPATORE
L’ombra del campanile
© 2015 – 2017 Stefano Vignaroli
Tutti i diritti di riproduzione, distribuzione e traduzione sono riservati
I brani sulla storia di Jesi sono stati tratti e liberamente adattati dai testi di Giuseppe Luconi
Illustrazioni del Prof. Mario Pasquinelli, gentilmente concesse dai legittimi eredi
Sito web http://stedevigna.wix.com/stefano-vignaroli
E-mail per contatti stedevigna@gmail.com
Editore: Tektime
https://www.traduzionelibri.it
Indice dei contenuti
1 LO STAMPATORE
2 PREFAZIONE
3 PREMESSA
4 CAPITOLO 1
5 CAPITOLO 2
6 CAPITOLO 3
7 CAPITOLO 4
8 CAPITOLO 5
9 CAPITOLO 6
10 CAPITOLO 7
11 CAPITOLO 8
12 CAPITOLO 9
13 CAPITOLO 10
14 CAPITOLO 11
15 CAPITOLO 12
16 CAPITOLO 13
17 CAPITOLO 14
18 CAPITOLO 15
19 CAPITOLO 16
20 CAPITOLO 17
21 CAPITOLO 18
22 CAPITOLO 19
23 CAPITOLO 20
24 CAPITOLO 21
25 CAPITOLO 22
26 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
27 Ringraziamenti
LO STAMPATORE
L'ombra del campanile
PREFAZIONE
Jesi non vi sembrerà più la stessa quando avrete letto “Lo Stampatore”. Il primo episodio della trilogia, “L’Ombra del Campanile”, è l’ultimo romanzo di Stefano Vignaroli: esso narra le parallele vicende della giovane e fascinosa archivista Lucia Baldeschi e dell’omonima antenata, vissuta 500 anni prima. A legarle un mistero, le cui tracce sono celate nelle pietre, nelle architetture e nei testi storici della città.
Romanzo avvincente e ipnotico. Già, perché senza accorgersene, il lettore finisce per assumere il punto di vista della studiosa, agli occhi della quale vie e palazzi perdono la loro austera e distaccata bellezza, per diventare testimoni solenni di un tetro passato. Passaggi segreti, boschi infestati dai briganti, valorosi guerrieri e spietati mercenari, presunte streghe e donzelle indifese, alti prelati e frati, nobili e plebei. Sono coloro che popolano e animano l’azione, in un costante crescendo di tensione, in cui i luoghi non fanno da sfondo, ma diventano parte integrante e suggestiva di un’avvincente narrazione. Un romanzo storico in ogni senso, anche e soprattutto per la capacità dell’autore di riportare in vita usi e costumi di un'intera società, quella jesina. Ieri come oggi ricca di pregi ma non priva di difetti e viltà. Ai quali nessuno, nemmeno la protagonista, così autentica e vera, risulterà immune.
Marco Torcoletti
PREMESSA
Dopo aver pubblicato tre romanzi di genere thriller/poliziesco, ritenevo quasi cosa impossibile l’approccio a un romanzo storico. Ma la passione per la storia della mia città ha fatto scattare in me la molla giusta per affrontare questo nuovo lavoro. È ovvio che personaggi e fatti, pur prendendo spunto da eventi storici realmente documentati, sono in gran parte puro frutto della mia fantasia. Ho di proposito lasciato invariati i nomi di luoghi e di importanti famiglie jesine, proprio per rendere la narrazione il più verosimile possibile. Se sarò riuscito nell’intento, che è quello di ogni scrittore, di interessare il lettore e farlo rimanere incollato alle pagine del libro fino alla parola “fine”, lo giudicherà il pubblico. Io ce l’ho messa tutta, ai lettori l’ardua sentenza.
La trama si svolge in una Jesi rinascimentale, ricca di arte e cultura, in cui stanno sorgendo nuovi e sontuosi palazzi sui resti dell’antica città romana.
La giovane Lucia Baldeschi è nipote di un malvagio Cardinale, tessitore di oscure trame finalizzate ad accentrare sia il potere temporale che quello ecclesiastico nelle proprie mani. Lucia, ragazza dotata di spiccata intelligenza, diventa amica di un tipografo, Bernardino, insieme al quale condividerà la passione per la rinascita delle arti, delle scienze e della cultura, che stanno caratterizzando il periodo in tutta Italia. Si troverà stretta tra il dovere di obbedire a suo zio, che l’ha fatta crescere ed educare a palazzo in assenza dei genitori, e l’amore appassionato per Andrea Franciolini, figlio del Capitano del Popolo e vittima designata della tirannia del Cardinale.
La vicenda ci viene narrata anche attraverso gli occhi di Lucia Balleani, una giovane studiosa discendente del nobile casato. Nel 2017, con esattazza 500 anni dopo i fatti, quest’ultima scopre antichi documenti nel palazzo di famiglia, e ricostruisce tutta la complessa storia di cui si erano perse le tracce.
Stefano Vignaroli
CAPITOLO 1
La magia non è stregoneria
(Paracelso)
Bernardino sapeva bene di vivere in tempi in cui era davvero pericoloso dare alla stampa un testo senza aver ottenuto l’imprimatur ecclesiastico. Se oltretutto il testo era blasfemo e offendeva la Chiesa ufficiale, propinando dottrine a lei contrarie, si rischiava il rogo, non solo dei libri stampati, ma anche dell’autore e dell’editore. La sua stamperia, in Via delle Botteghe, andava bene. Il secolo decimo sesto era da poco iniziato e Bernardino si era fatto conoscere come tipografo in tutta Italia, per aver sostituito i caratteri mobili di stampa in legno con quelli in piombo, molto più resistenti e duraturi. Con lo stesso “clichet” riusciva a stampare un migliaio di copie, contro le trecento che i suoi predecessori della scuola tedesca stampavano con gli “stereotipi” in legno, anche se manipolare quel metallo gli stava creando non pochi problemi di salute. Aveva rilevato, oltre un trentennio prima, la stamperia di Federico Conti, un Veronese che aveva fatto la sua fortuna a Jesi, creando la prima edizione a stampa tutta italiana della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri. Il Conti aveva in breve raggiunto l’apice della fortuna, così come altrettanto in breve era caduto in disgrazia. Bernardino ne aveva approfittato e aveva acquistato la stupenda stamperia per quattro soldi. Con la calma e la pazienza proprie di coloro che provenivano dal contado Jesino – Bernardino era originario di Staffolo – aveva fatto crescere la sua attività fino ai massimi livelli, senza mettersi mai in contrasto con le autorità, sempre onorato e riverito. Fino allora, l’opera più importante alla quale si era dedicato, era stata una “Storia di Jesi, dalle origini alla nascita di Federico II”, basata su quanto tramandato per tradizione orale e sui documenti storici, antichi manoscritti, contratti, mappe e quant’altro era conservato nei palazzi delle nobili famiglie jesine, Franciolini, Santoni e Ghislieri. Alla stesura dell’opera avevano lavorato Pietro Grizio e lui stesso; anche se non era un vero e proprio scrittore, a forza di preparare bozze da stampare, aveva infatti acquisito buonissima familiarità con la lingua italiana. Un’opera che ancora non aveva portato a termine e che sarebbe stata stampata dai suoi successori solo nel 1578, dopo un notevole lavoro di rivisitazione e rifinitura. Un’opera che sarebbe stata per lungo tempo la più importante fonte storica sulla città di Jesi, e da cui avrebbero preso spunto, dopo due secoli circa e oltre, il Baldassini per il suo “Memorie historiche dell’antichissima e regia città di Jesi” e l’Annibaldi per la sua “Guida di Jesi”, comparsa addirittura nei primi anni del XX secolo. Una grande e importante opera, ancora tutta in cantiere, lasciata in sospeso per pubblicare un libercolo commissionatogli da una ragazzina poco più che ventenne. Cosa passava per la testa di Bernardino per dare alle stampe un opuscolo dedicato al culto pagano della Dea Madre e alle cure con le erbe officinali? L’Inquisitore capo della città, il Cardinale Artemio Baldeschi, avrebbe potuto fare irruzione nella sua bottega da un momento all’altro, magari istigato da qualche altro tipografo geloso dei suoi successi. E tutto questo per fare un favore proprio alla nipote del Cardinale, Lucia Baldeschi. A cinquant’anni aveva forse perso la testa per quella donzella?
No, improbabile, si diceva tra sé e sé lo stampatore. Non potrei di sicuro farcela a sostenere una notte d’amore con una giovane puledra, anche se… Anche se la sola idea di poterle sfiorare le mani con le sue un po’ lo eccitava, ma ricacciava quelle pulsioni negli angoli più reconditi della sua mente.
In cambio della stampa del manuale, la giovane “strega” aveva promesso a Bernardino una cura efficace per la sciatalgia che lo affliggeva ormai da anni e un unguento che l’avrebbe protetto dall’assorbire la polvere di piombo attraverso la pelle screpolata delle mani.
«La colpa della tua anemia e dei tuoi dolori ossei è del piombo che maneggi ogni giorno. Esso si assorbe attraverso la pelle, e inalando la sua polvere mentre si respira. Se vuoi vivere ancora a lungo segui i miei consigli.»
Lucia era una giovane donna, all’epoca aveva venti anni, piuttosto alta, mora, dagli occhi nocciola sempre in movimento, alla curiosa ricerca di ogni singolo dettaglio. Nulla le sfuggiva di quanto stesse accadendo intorno a lei, aveva un udito finissimo, e anche capacità di preveggenza; inoltre era in grado di curare con le erbe e i rimedi naturali una gran varietà di malattie. Questo era quello che sapeva chi la conosceva. In realtà, Lucia era dotata di poteri sconosciuti alla maggior parte delle persone comuni, ma cercava di non rivelarli a nessuno, soprattutto per il fatto che viveva sotto lo stesso tetto di suo zio. Era una bambina di nove anni quando, assistendo al rogo di Lodomilla Ruggieri sulla pubblica piazza, era rimasta sconvolta dallo spettacolo raccapricciante dell’esecuzione. La nonna la teneva per mano in mezzo alla folla che aspettava che la condannata uscisse dalla rocca in cima alla Salita della Morte. La donna, in sella a un mulo, le mani legate alle sue redini, i vestiti laceri che lasciavano scoperte le sue nudità, era visibilmente provata dalle torture che gli inquisitori le avevano fatto infliggere al fine di confessare le sue colpe. Aveva un occhio pesto, una spalla slogata e, quando fu fatta scendere dal mulo, quasi non era neanche in grado di reggersi in piedi. Fu legata al palo, con le braccia in alto, in modo che non si accasciasse sulle ginocchia. Poi fu disposta la legna sotto i suoi piedi e intorno alle sue gambe. Un sacerdote le si avvicinò con la croce: «Rinneghi Satana?» Per tutta risposta, Lodomilla aveva sputato alla croce e al sacerdote e le fiamme erano state appiccate alla catasta. Le urla della donna che bruciava erano disumane, Lucia non poteva sopportarle, e aveva pensato intensamente che se in quel momento fosse iniziato a piovere a dirotto, l’acqua avrebbe spento il fuoco e la poveraccia si sarebbe potuta salvare in qualche modo. Guardò il cielo e lo vide caricarsi in breve di nuvole nere minaccianti pioggia. Lucia capì che bastava che con il pensiero ordinasse alle nuvole di piovere e si sarebbe scatenato il diluvio. La nonna, che conosceva le potenzialità della bambina, alla quale aveva cominciato a insegnare i primi rudimenti della magia, la fermò appena in tempo.
«Se non vuoi fare la stessa fine di Lodomilla, frena i tuoi istinti. È la Dea che ha rivoluto a sé la nostra amica, altrimenti con le sue arti magiche sarebbe scampata alle fiamme. Fra poco finirà di soffrire e il suo spirito sarà accolto dalla Buona Dea.»
Si sentì il rombo di qualche tuono, ma non cadde una sola goccia d’acqua. In breve le nubi si dileguarono e il cielo si rasserenò. L’azzurro della giornata di fine maggio era attraversato solo dalla colonna di fumo nero che si alzava dalla pira. Lodomilla era ormai un tizzone ardente senza vita. Qualcuno continuò a gettare fascine e alimentare il fuoco fino a che della strega non rimasero che le ceneri.
Da quel giorno Lucia aveva intuito che, con i suoi poteri, poteva dominare i vari elementi della natura, mettendoli al proprio servizio, sia nel bene che nel male. La sua nonna aveva cercato di guidarla nel cammino per arrivare al controllo delle sue arti magiche, le aveva insegnato a riconoscere le erbe officinali, quelle curative e quelle tossiche, quelle dagli effetti stupefacenti e quelle dai presunti poteri magici. Le aveva insegnato a pronunciare incantesimi e realizzare talismani e, all’età di quattordici anni, le aveva detto: «Solo le streghe più potenti riescono a controllare tutti e quattro gli elementi, aria, acqua, terra e fuoco. L’unione di essi è rappresentato dalla quintessenza, dallo spirito, che può librarsi in alto, farti volare, e dal cielo permetterti di vedere cose che altrimenti non vedresti. Puoi vedere il passato, prevedere il futuro, conversare con gli spiriti dei nostri antenati o ascoltare ciò che io, o un’altra persona a te cara, vorrebbe dirti anche senza essere vicina a te. Puoi penetrare nella mente degli altri, e leggere i loro pensieri più intimi. Credo che tu possa essere in grado di usare tutte queste facoltà, ma ricorda, usale sempre a fin di bene. La magia nera, quella di cui ci si serve per scopi malvagi, prima o poi si ritorce contro chi la ha praticata.»
Così dicendo aveva aperto un’antica cassapanca e aveva porto alla nipote un antico manoscritto, rivestito da una custodia di pelle nera su cui era inciso un pentacolo, una stella a cinque punte inscritta in un cerchio. Era il diario della famiglia, che veniva passato di madre in figlia, in questo caso da nonna a nipote, perché la mamma di Lucia era venuta a mancare quando lei era ancora in tenera età. Il diario in cui ogni strega riportava le sue esperienze, i sortilegi inventati, le guarigioni ottenute, le esperienze magiche che ognuna aveva avuto modo di sperimentare, in modo che la conoscenza e la sapienza aumentassero con il tempo. Lucia aveva capito che era ormai in grado di controllare tutti e quattro gli elementi quando, concentrandosi, era riuscita a far materializzare una sfera semifluida che fluttuava tra le sue mani unite a coppa, distaccandosi dai relativi palmi di pochissimo spazio. La sfera altro non era che il suo spirito, un miscuglio di colori che, roteando, in certi momenti si mescolavano tra loro a dare infinite tonalità, in altri si delineavano come se ogni elemento volesse riprendere la sua natura e staccarsi dagli altri. Riconosceva l’aria dal colore giallo, la terra dal colore verde, l’acqua dal colore azzurro e il fuoco dal colore rosso. Poteva ordinare a ognuno di quegli elementi di fare ciò che la sua mente desiderava, nel bene o nel male. Se, ad esempio, voleva utilizzare il fuoco, con il suo pensiero selezionava quell’elemento e dalla sfera poteva partire una palla di fuoco, più o meno grande a seconda delle esigenze. Accendere il fuoco nel braciere era la cosa più semplice del mondo: bastava che la legna fosse disposta per essere accesa, una piccola palla ignea veniva diretta da Lucia verso di essa e subito si aveva un bel falò scoppiettante. Ma quei poteri potevano anche essere pericolosi. Un giorno una ragazzina della sua stessa età, tale Elisabetta, l’aveva apostrofata per strada, deridendola perché aveva ormai compiuto quindici anni e nessun giovane aveva rivolto le sue attenzioni verso di lei.
«Dicono che sei una strega, nessun uomo ti vorrà, perché quelle come te fanno l’amore solo con il diavolo. Fatto sta che quello con cui vi accoppiate non è il diavolo, ma il caprone di Tonio, il contadino che ha le terre giù verso il fiume.»
Lucia le lanciò una palla di fuoco, così grande come non ne aveva mai realizzata una fino ad allora, e gli abiti e i capelli della malcapitata si incendiarono. Poi invocò l’aria, alzò le braccia sopra la testa e, con movimenti circolari delle stesse, diede origine a un vortice, che si staccò da lei in direzione dell’altra ragazza. Il vento alimentò ancor più le fiamme, Elisabetta sentì il dolore lancinante sulla sua pelle e iniziò a urlare. Allora Lucia si ricordò delle raccomandazioni della nonna ed ebbe pietà di quell’impertinente. Invocò l’acqua e fece scatenare un improvviso acquazzone, poi chiese alla terra che gli fornisse delle erbe per un impacco lenitivo da applicare sulle scottature della ragazza. Tutto sommato non era successo nulla di grave, la ragazza aveva solo la tunica mezza bruciacchiata e la pelle arrossata, ma non si erano formate neanche delle bolle. Avrebbe dovuto tagliare i capelli, che quelli che erano rimasti si erano increspati in maniera tale da farla assomigliare a un porcospino, ma poi questi sarebbero ricresciuti.
«Non metterti più sulla mia strada, la prossima volta potrei non riuscire a fermarmi.»
«Strega, ti denuncerò alle autorità. Sarai tu a finire bruciata viva. Sul rogo. Sulla pubblica piazza. E io starò a guardare mentre le fiamme ti consumeranno. Strega! Strega!»
Quelle parole le riportarono alla memoria l’esecuzione della strega Lodomilla, cui aveva assistito da bambina. Senza proferire altre parole e senza appellarsi di nuovo ai suoi poteri, Lucia si allontanò da quel luogo, sperando che l’eventuale racconto di Elisabetta non fosse stato preso sul serio e ritornò a casa, a Palazzo Baldeschi, un enorme fabbricato che si affacciava sulla Piazza del Mercato. Il palazzo era stato finito di ampliare da pochi anni, sulla base di una costruzione risalente a più di tre secoli prima, per volere di suo zio, il Cardinale Artemio Baldeschi, che era poi il fratello di sua nonna. La sontuosa dimora era ubicata tra la nuova chiesa di San Floriano e la Cattedrale. Quest’ultima era una stupenda chiesa in stile gotico, arricchita da bellissime guglie sulla facciata, dall’ampio interno a tre navate, capace di accogliere oltre duemila fedeli. Purtroppo era stata costruita sulla base del tempio di Giove e delle antiche Terme romane, senza che chi l’aveva a suo tempo edificata si fosse preoccupato troppo di fortificare le fondamenta. Per cui la costruzione era pericolante e si sarebbe dovuta abbattere per lasciare il posto a una nuova chiesa dedicata al patrono della città, San Settimio, le cui reliquie erano conservate nella cripta dell’antica cattedrale. Per ora, il Cardinale celebrava la Santa Messa ogni domenica nella chiesa di San Floriano, e aveva ottenuto anche che l’annesso convento, che doveva essere destinato ai frati dell’Ordine Domenicano, diventasse invece sede del Tribunale della Santa Inquisizione, essendo lui l’Inquisitore Capo. I Domenicani erano stati pertanto relegati in un convento più a valle, realizzato in una vecchia costruzione del dodicesimo secolo, in prossimità della chiesa di San Bernardo e del convento delle suore Clarisse della Valle.
A Lucia si strinse il cuore quando, dopo qualche giorno, fu convocata dallo zio Artemio nel suo studio, nell’altra ala del palazzo rispetto a quella abitata da lei e dalla sua nonna. Lo studio dello zio era una stanza enorme, arredata in maniera sfarzosa, le pareti arricchite da arazzi, il pavimento in parte ricoperto da un enorme tappeto. Un’intera parete era occupata da una libreria, contenente testi sacri e profani, manoscritti di pregevole fattura e alcuni testi stampati, tra cui una copia della Divina Commedia di Dante Alighieri, realizzata anni prima da Federico Conti nella sua stamperia jesina. Lucia avrebbe dato chissà cosa per poter consultare quei testi, ma le era stato sempre tassativamente proibito.
L’odore dei velluti che ricoprivano sedie e poltrone contribuivano a rendere l’aria della stanza pesante e irrespirabile, quasi al limite del soffocamento. Le finestre che si affacciavano sulla piazza permettevano al Cardinale di lanciare lo sguardo al cuore nevralgico della sua città, tenendo sotto controllo i suoi illustri concittadini, ma erano sempre chiuse in maniera ermetica, per impedire ai rumori della piazza e delle strade di disturbare la concentrazione del più alto prelato del luogo. La carica cardinalizia gli permetteva di poter essere al di sopra di ogni altro incarico politico, potendo impugnare anche qualsiasi decisione del Capitano del Popolo, che risiedeva nel non molto lontano Palazzo del Governo. Il potere conferitogli da Papa Alessandro VI, e confermatogli dai suoi successori, Pio III, Giulio II e Leone X, era infatti al tempo rispettato e temuto da tutte le altre autorità locali.
Il Cardinale offrì la mano inanellata alla nipote perché la baciasse, poi la invitò a sedersi in una delle imponenti seggiole disposte di fronte alla sua scrivania.
«Lucia, mia cara nipote, non sei più una bambina, ed è giunto il momento di trovare per te un uomo che sia un degno marito. Se nei tuoi pensieri non c’è nessun altro giovane, vorrei proporti il figlio del Capitano del Popolo, Andrea. Ha venti anni, è un bel giovane ed è bravo sia a cavalcare che a maneggiare le armi», si rivolse a lei, mentre puliva le lenti dei suoi occhiali di squisita fattura veneziana con un piccolo panno. In attesa che la giovane rispondesse, alitò di nuovo sulle lenti, le sfregò con il panno e quindi inforcò gli occhiali, fissando il suo sguardo penetrante negli occhi di Lucia.
Il Cardinale, quasi sessantenne, a parte i capelli grigi, era una persona ancora forte, robusta, dalla figura alta e slanciata; gli occhi marroni dallo sguardo acuto spiccavano sulla pelle chiara del viso, che nonostante l’età non appariva ancora solcata da rughe evidenti. Solo in quei rari momenti in cui sorrideva si formavano, ai lati degli occhi, delle zampe di gallina. Lucia sapeva che non era di certo quello il motivo per cui era stata convocata, e cercava di penetrare nella mente dello zio per sapere cosa in effetti volesse, ma i pensieri di lui erano sigillati dietro barriere invisibili e molto resistenti. La nonna l’aveva avvertita, lo zio Artemio faceva parte della famiglia e, come tutti i suoi membri, era dotato di poteri, forse più forti di quelli di tutti loro. Eppure, all’apparenza e agli occhi del popolo, egli aveva dedicato la sua vita a combattere la stregoneria e l’eresia.
«Se è uno stregone anche lui, perché combatte i suoi simili?», aveva chiesto un giorno Lucia alla nonna.
«Perché è dalla loro sconfitta che lui riesce ad aumentare i suoi poteri. Non girargli mai le spalle, non ti fidare mai di lui, se scoprisse che sei una creatura dai poteri forti, anche se sei sua nipote non esiterebbe a condannarti al rogo, e guardarti bruciare, mentre anche i tuoi poteri si trasferiscono a lui. Quando sei in sua presenza, non pensare, lui legge i tuoi pensieri, anche i più nascosti, e in più impedisce a te di leggere i suoi.»
Ed era vero! In quel momento Lucia stava sperimentando che non riusciva in alcun modo a penetrare nella sua mente, era come se non avesse pensieri, eppure ne doveva avere.
«Dovrei sapere se mi piace, conoscerlo e capire se posso innamorarmi di lui.»
«Innamorarsi, che parolona! Nelle famiglie nobili come la nostra ci si sposa in base a un contratto. La famiglia trova un buon partito per la ragazza e lei onorerà il marito che le è stato scelto. Ma voglio venirti incontro. Io e il Capitano del Popolo, Guglielmo dei Franciolini, organizzeremo una festa in cui avrete modo di conoscervi, tu e Andrea. E ora vai, ti farò sapere quando si terrà la festa.»
Senza ribattere, Lucia si era già alzata dalla sedia e stava per congedarsi, quando il Cardinale le rivolse ancora la parola.
«Ah, dimenticavo», disse, quasi fosse una cosa a cui non dava affatto importanza. «Mi hanno riferito che qualche giorno fa hai soccorso una tua compagna alla quale si erano incendiati gli abiti. Brava, noi Baldeschi dobbiamo distinguerci in questa città e far vedere che aiutiamo gli altri in ogni circostanza.»
In quel momento Lucia ebbe la percezione della mente dello zio che stava perlustrando gli angoli più remoti del suo cervello. Non riusciva ancora a imporsi di non pensare, ma cercò di ricordare la scena nel suo pensiero in maniera diversa da come era accaduta nella realtà. Ecco, Elisabetta si era avvicinata al falò che il Mastro tintore aveva acceso davanti alla sua bottega all’inizio della discesa del Fortino, per mettere a bollire il pentolone dell’acqua in cui avrebbe immerso i tessuti da tingere con i suoi colori sgargianti. Un lembo del saio della ragazzina era stato lambito dalle fiamme, che erano salite in un lampo ed erano giunte a bruciarle i capelli. Per fortuna, all’improvviso si era messo a piovere e Lucia, che passava di lì per caso aveva osservato la sua pelle arrossata e aveva tirato fuori dalla bisaccia un vasetto di unguento a base di Aloe e semi di lino, un rimedio naturale per le scottature che preparava la nonna.
«Brava, sono fiero di te!», ripeté il Cardinale.
Lucia uscì dalla stanza, sperando in cuor suo di aver buggerato lo zio, anche se non poteva esserne sicura.
Se sa davvero che sono una strega e ho poteri che lui potrebbe invidiarmi, che cosa farà? Mi terrà sotto controllo finché non sarà sicuro delle mie capacità per poi sbattermi senza pietà su un rogo e guardarmi morire tra le fiamme? Ma allora perché propormi un marito? Mah, forse questo è un gioco politico. Far sposare sua nipote con il figlio del Capitano del Popolo aumenterà ancora di più il suo potere temporale su questa città, in cui ancora troppi abitanti si proclamano ghibellini. Non mi stupirei che lo zio voglia accentrare su di sé sia il potere religioso che quello politico. Stai in guardia, Lucia, e non ti far abbindolare né dallo zio, né da questo giovane Andrea.
Avrebbe voluto saperne di più sul conto di Andrea, ancor prima di conoscerlo alla festa ufficiale. Chissà quando avrebbe avuto luogo questo evento? Se lo zio si era esposto, c’era da stare sicuri che non avrebbe tardato tanto a organizzarlo.
Immersa nei suoi pensieri, attraversò il lungo corridoio che la riportava verso l’ala del palazzo in cui abitava. In fondo al corridoio scese la scalinata, ritrovandosi a piano terra, nell’androne in corrispondenza del portone di ingresso. Avrebbe dovuto risalire la scala di fronte a lei per raggiungere i suoi appartamenti. Alla sua destra, attraverso una porta di legno, si poteva accedere alle stalle. Morocco, il suo stallone preferito, percepì la sua presenza e nitrì per salutare la ragazza, che fu tentata di spingere la porta quel tanto che bastava per infilarsi dentro e andare a elargire una carezza al nero destriero. Ma la sua attenzione fu attratta da un’altra porticina in legno, che conduceva ai sotterranei del palazzo. Di solito quella porta era sprangata, ma quel giorno era stranamente socchiusa. La nonna l’aveva avvertita più di una volta di non avventurarsi nei sotterranei. Laggiù era un labirinto, in cui era facile perdersi, rappresentato dalle strade e dalle stanze delle antiche costruzioni dell’epoca romana. Infatti tutti gli edifici più recenti poggiavano le loro fondamenta sulle antiche costruzioni romane. La curiosità di Lucia era troppo forte. Pensava che se quegli anfratti, quelli che ora erano cunicoli, gallerie e cantine, fossero stati un tempo abitati, gli spiriti degli antichi abitanti avrebbero potuto parlare con lei, raccontarle delle storie, confidarle le loro paure e i loro sentimenti. In fin dei conti il Palazzo Baldeschi sorgeva proprio in corrispondenza di quella che al tempo dei romani era l’acropoli, il foro, il centro commerciale e politico della città. Lì c’erano i templi, lì c’erano le Terme, poco più in là, dove adesso sorgeva il nuovissimo Palazzo del Governo, c’era un enorme anfiteatro; più vicino, in prossimità delle mura occidentali della città, la grande cisterna per l’approvvigionamento idrico.
Là sotto sarà buio pesto, pensò Lucia. Avrò bisogno di una fonte di luce.
Entrò nella stalla e fece due moine a Morocco, che reclamò la carota che la ragazza era solita portargli in dono. Lucia la tirò fuori dalle tasche e l’animale fu lesto a prelevarla con le labbra dalle sue mani. Carezzò il cavallo sul dorso del naso, cercando con lo sguardo una lanterna. La vide, la sganciò dal chiodo a cui era attaccata, controllò che fosse carica di olio, poi concentrò il suo sguardo sullo stoppino, che nel giro di pochi istanti prese fuoco. Regolò la fiamma al minimo, uscì dalla stalla e si avventurò giù per le sconnesse scale che si dirigevano verso le viscere della terra. Anche se la Terra era uno degli elementi su cui aveva il controllo, in quel momento ne aveva un po’ timore. Sembrava quasi che quella scala non dovesse finire mai, tanto era lunga. Ma forse era solo l’impressione di Lucia. Finalmente abbandonò con il piede l’ultimo gradino.