Kitabı oku: «Nel Segno Del Leone», sayfa 3
Mollare l’ancora – Ritirare le gomene – Cazzare la randa – Mollare il pappafico – Issare le vele di trinchetto, erano tutti comandi di cui non comprendeva nel modo più assoluto il significato. In ogni caso, poteva osservare come, a ogni comando del Capitano da Mar, l’equipaggio si muovesse in maniera veloce e precisa, senza alcuna incertezza. In breve, il galeone si distaccò dal molo e prese il largo, iniziando la navigazione verso nord, con un bel vento di scirocco che gonfiava le vele al massimo. Il Foscari teneva ben saldo il timone in mano e continuava a spiegare ad Andrea ciò che stava facendo.
«Il Mare Adriatico è un mare chiuso e anche piuttosto stretto tra le sponde italiane e quelle della Dalmazia. E quindi è abbastanza sicuro. È difficile che scoppino tempeste improvvise, come si incontrano quando si attraversa l’oceano per raggiungere il Nuovo Mondo. Ma comunque non è da sottovalutare il fatto che a volte il vento gira e diventa pericoloso. Il Garbino, il vento che spira da terra, può sollevare il mare e provocare mareggiate anche imponenti. In più esso rende faticoso governare la nave, in quanto spinge le imbarcazioni verso il largo. Come puoi vedere, noi cerchiamo sempre di navigare piuttosto al largo per evitare le secche, ma sempre in vista della costa, cosicché non perdiamo mai la rotta. Il Garbino ti può fregare, facendoti perdere di vista la linea costiera e quindi disorientando i navigatori, in particolar modo quando il cielo è nuvoloso e non ci si può orientare grazie al sole e alle stelle. L’altro vento che temiamo noi marinai è la bora, il Buriàn, che porta neve e gelo, e spira soprattutto nella stagione invernale. La bora a volte è così forte, da poter spazzar via tutto ciò che trova, compresi i marinai che si trovano sul ponte e che, se finiscono nelle acque gelide, hanno poche speranze di poter sopravvivere.»
«Mio caro Tommaso», lo interruppe Andrea, che ormai aveva preso confidenza col suo nuovo amico. «Ti devo confessare che io sono molto timorato del mare. Non so neanche nuotare e ho avuto una bruttissima esperienza lo scorso anno al largo di Senigallia. Quindi, preferirei che tu evitassi di raccontarmi certi particolari. Già mi hai fatto venire i brividi. Se continui così, andrò in preda alla nausea e allora saranno dolori per il resto della navigazione. Oggi invece posso vedere una bella giornata, il vento che ci sta carezzando è tiepido e gradevole, e questa nave è talmente stabile che non avverto alcun malessere. Pertanto, lasciami godere questo viaggio, e raccontami magari delle tue imprese di guerriero. So che hai combattuto contro i Turchi in terra Dalmata… Ma, quella che vedo là verso la riva è la sagoma della Rocca Roveresca? Siamo già giunti a Senigallia?»
«La nave è veloce e abbiamo il vento favorevole. Sì, siamo già giunti al largo di Senigallia. E visto che hai parlato di Turchi, tieniti pronto a incontrarli, perché queste acque sono infestate dai pirati del Sultano Sèlim.»
«Lo so bene. Ah, se riuscissi a fargliela pagare per quello che mi hanno fatto perdere un anno fa! Due dei miei migliori amici hanno perso la vita nello scontro con quei bastardi infedeli. E io me la sono cavata per un soffio.»
«Ottimo, mio caro Franciolino. Allora, se ci troveremo a doverli combattere, mentre io governerò la nave, lascerò a te l’onore di dare gli ordini a cannonieri e archibugieri. Ora ti spiegherò come.»
La navigazione proseguì tranquilla fino a pomeriggio inoltrato. Il Capitano Foscari stava per predisporre il galeone ad attraccare al porto di Rimini per trascorrere la nottata, quando una vedetta, dalla sua postazione in cima all’albero più alto, gridò: «Nave pirata a tribordo! Galeone battente bandiera Turca, in assetto di battaglia.»
«È Selìm!», sussurrò Andrea al Capitano Foscari, cominciando già a provare una certa eccitazione all’idea della tenzone.
Il Capitano da Mar gridò alcuni ordini in gergo marinaresco. Andrea non ci capiva nulla, ma poté di nuovo ammirare come, a ogni comando, l’equipaggio della nave si muovesse in perfetta sincronia per assecondare il volere del comandante. In pochi istanti, vennero sollevati i pannelli metallici protettivi del lato destro della nave, le bocche da fuoco furono caricate e gli artificieri si misero in posizione di combattimento. Gli archibugieri, invece, caricate le loro armi, si spostarono sul lato sinistro del galeone, in prossimità delle mura di babordo.
«Sarà tuo l’onore di ordinare di fare fuoco», disse il Foscari, rivolto ad Andrea. «Ma non prima che il nemico abbia fatto la prima mossa!»
«Lasciamo che i pirati ci attacchino? Non è imprudente?»
«Vedrai!»
Il colloquio tra i due fu bruscamente interrotto dall’attacco nemico. Una gragnola di palle incendiarie partì dal vascello turco. Molte piovvero in acqua, spegnendosi in una nube di vapore e spruzzi d’acqua salata, a diversi piedi di distanza dalla nave veneziana. Alcune palle colpirono i pannelli metallici, e anche queste caddero in mare, senza procurare danno alcuno allo scafo. Andrea si sentì a un certo punto investito da uno zampillo di acqua tiepida, sollevato da una delle palle incendiarie caduta assai vicino al ponte di comando. Bagnato come un pulcino si preparò a ordinare di rispondere al fuoco. Gli artificieri avevano caricato i cannoni con palle esplosive. Andrea ordinò di accendere le micce, mentre il suo amico Tommaso predisponeva la manovra successiva.
«Fuoco a volontà! Non diamo loro la possibilità di aggiustare il tiro», e cercò un solido appiglio per reggersi forte, prevedendo il rinculo dovuto alle esplosioni contemporanee di almeno quaranta cannoni.
Ma, con sua somma meraviglia, vide partire i colpi, accompagnati da nuvole di fumo in corrispondenza delle bocche da fuoco, senza che la stabilità del galeone fosse intaccata più di tanto. Certo, un po’ la nave iniziò a oscillare e la veloce manovra ordinata dal Capitano subito dopo peggiorò non di poco le condizioni dello stomaco di Andrea. Ma doveva resistere. Non poteva farsi prendere dal mal di mare. La nave puntava ora veloce la prua verso il galeone turco. Erano state ammainate le vele, e ci si muoveva solo a forza di remi. Infatti la manovra doveva essere precisa, non ci si poteva affidare ai capricci del vento. Due ordini di vogatori per lato potevano spingere la nave alla velocità voluta in ogni istante dal capitano, per il tramite del maestro dei rematori, chiamato “sottocomito”. I proiettili esplosivi avevano fatto il loro dovere. Avevano colpito il trealberi turco in più punti, provocando gravi danni. L’albero maestro era stato abbattuto e diverse falle erano state aperte sullo scafo, che si stava ormai inclinando sul fianco destro. I pirati stavano calando le piccole imbarcazioni da arrembaggio sul lato opposto, verso il mare aperto, sia per abbandonare la nave che stava per affondare, sia perché non si davano mai per vinti e si sarebbero preparati all’arrembaggio della nave veneziana. Sia Andrea che Tommaso De’ Foscari sapevano bene che la religione di quei bastardi insegnava loro che morire in battaglia significava essere assunti in gloria dal loro Dio. Nessuno di loro si sarebbe mai arreso. Avrebbero combattuto fino a morire tutti, ma se un solo manipolo di quegli spietati pirati fosse riuscito a salire a bordo, diversi uomini avrebbero perso la vita. Certo, ben presto i Turchi sarebbero stati sopraffatti, ma essi sarebbero comunque riusciti a fare numerose vittime. E Tommaso non avrebbe voluto perdere neanche uno dei suoi uomini. Pertanto la manovra doveva essere precisa. Guidò la nave ad aggirare il galeone turco, in modo di trovarsi tra esso e le barchette dei pirati. Andrea poté a questo punto rendersi conto di quanto micidiale fosse la nuova arma chiamata archibugio. I cinquanta archibugieri spararono all’unisono contro le piccole imbarcazioni all’ordine gridato dal Capitano Franciolini, giusto nel momento in cui il Capitano da Mar gli fece il cenno convenuto. Gli uomini colpiti dalle palle degli archibugi venivano decimati come mosche: teste che si spappolavano, corpi che venivano proiettati in acqua come fantocci di pezza, gambe e braccia che venivano strappate da tronchi che rimanevano per breve tempo ancora agonizzanti, per poi morire dissanguati. Mentre gli archibugieri caricavano di nuovo le armi, i pirati rimasti in vita si gettarono in acqua per cercare di sottrarsi al tiro. Ma la seconda raffica non fu meno distruttiva della prima. Fu ordinato di sparare anche qualche palla esplosiva con i cannoni, in modo di affondare le scialuppe dei turchi. Qualche freccia sibilò sopra le teste di Andrea e Tommaso, ma nessuna andò a segno. Gli archibugieri e gli artificieri erano ben protetti dalle mura della nave e dai pannelli mobili. In mare si iniziò a delineare una chiazza rossastra, una specie di isola di sangue, i cui abitanti erano frammenti di legno bruciacchiato e cadaveri sformati. Per fortuna l’attenzione di Andrea era rivolta invece a un’unica imbarcazione che si stava allontanando dal luogo della battaglia. Era un po’ più grande delle altre, aveva un piccolo albero con una vela quadrata, al di sopra della quale sventolava un vessillo rosso con una semiluna e una stella bianca.
«È il sultano! Se ne sta scappando con i suoi uomini fidati», esclamò Andrea, eccitato. «Inseguiamolo. Potremmo catturarlo e farlo prigioniero. Il Duca Della Rovere ce ne sarà di certo riconoscente!»
Il Capitano De’ Foscari mise un braccio intorno alla spalla dell’amico, nel tentativo di placare il suo animo.
«Lasciamolo. Non vale la pena rischiare. È comunque un uomo pericoloso. Abbiamo vinto la battaglia. Possiamo continuare il nostro viaggio, ormai senza più intralci di sorta.»
«Ma… Nel giro di breve si riorganizzerà, e tornerà a infestare i nostri mari e terrorizzare le nostre città costiere!»
Così dicendo, Andrea abbassò la testa, un po’ mortificato. E vide quello che non avrebbe mai voluto vedere. Il sangue, i cadaveri, i pezzi delle barche distrutte. Questa volta non riuscì a trattenere il groppo allo stomaco. Il conato di vomito risalì con forza. I movimenti della nave, per quanto lievi, erano ormai insopportabili. Sentì le gambe cedergli. Si accasciò sulle ginocchia.
Tommaso chiamò un paio di armigeri, che subito furono accanto a lui.
«Accompagnatelo sotto coperta, nella mia cabina, e fatelo distendere nella mia branda. Ha condotto in maniera egregia l’assalto ai pirati, ma è un combattente di terra. E il sangue, in mare, fa tutto un altro effetto. Vegliate sul suo riposo. Io passerò la nottata qui, sul ponte di comando.»
CAPITOLO 5
Un guerriero non può abbassare la testa,
altrimenti perde di vista l’orizzonte dei suoi sogni. (Paulo Coelho)
Nel dormiveglia, cullato dallo sciabordio delle onde, che scorrevano ritmiche sotto lo scafo del galeone alla fonda nel porto di Rimini, ad Andrea ripassavano avanti agli occhi le immagini degli ultimi due mesi, trascorsi accanto alla sua amata Lucia e alle due splendide bambine, alle quali si era affezionato in una maniera che non avrebbe mai creduto possibile. Amava Lucia, così come amava Laura, frutto del loro amore, così come amava Anna, che così tanto somigliava alla sua mamma adottiva. Di certo c’era sangue della famiglia Baldeschi in quella piccola, anche se non era uscita dal grembo di Lucia, ma da quello di una presunta strega che aveva finito i suoi giorni tra le fiamme. E il sospetto di chi avesse ingravidato quella presunta strega era ormai divenuto certezza per Andrea. C’era lo zampino del Cardinal Baldeschi, dello zio di Lucia, non poteva darsi altra spiegazione, ma ormai egli era morto e non poteva più arrecar loro alcun fastidio, come aveva fatto in passato. Il solo pensiero di quel truce personaggio gli metteva addosso i brividi. Non molto tempo era passato da quando, dopo aver sistemato tutti i suoi affari nel Montefeltro, si era congedato dai Conti di Carpegnia ed era rientrato a Jesi in una calda giornata di fine luglio. Come nella precedente occasione, rivedere le mura, le porte, le torri, i torrioni e i campanili della sua città aveva suscitato in lui emozioni difficili da contenere. Ma questa volta poteva entrare in città a testa alta, forte di un titolo nobiliare, protetto del Duca di Urbino. E a pieno diritto poteva reclamare di essere nominato Capitano del popolo e di poter convolare a giuste nozze con la sua promessa sposa.
Dopo una breve sosta presso il palazzo paterno, giusto per darsi una rinfrescata e cambiarsi d’abito, si era precipitato verso la residenza di campagna dei Conti Baldeschi. Sapeva bene, infatti, che non avrebbe trovato Lucia nel Palazzo del Governo, né tanto meno nel Palazzo Baldeschi in Piazza San Floriano. Si era presentato alla servitù e si era fatto annunciare alla padrona di casa. Lucia si era fatta attendere un bel pezzo, ma quando aveva varcato la soglia del salone a piano terra, Andrea era rimasto colpito dalla sua fulgida bellezza, come fosse la prima volta che la vedeva. Indossava una gamurra di seta verde, che metteva in risalto i suoi lineamenti e le sue fattezze femminili. Gli occhi nocciola, al centro del viso pallido, erano quasi fissi su di lui. Erano dolci e al tempo stesso penetranti. Lo scollo del vestito mostrava con generosità le spalle e la fossetta tra i seni, la pelle chiara quasi come latte. Una collana di perle bianche le ornava il collo e l’acconciatura dei capelli era studiata per rendere giustizia al bel viso della dama. La cascata di capelli scuri era tirata indietro da una treccia che circondava la nuca, in modo tale da lasciare del tutto scoperta la fronte. Nel viso perfettamente ovale, dai lineamenti delicati, le labbra spiccavano di un vermiglio innaturale, donato dal colore ottenuto dai fiori di papavero. Le sopracciglia appena accennate e la fronte alta, spaziosa, le donavano l’aspetto di una vera Signora. Ai suoi fianchi, una per lato, le due bambine di circa sei anni, del tutto somiglianti a lei nell’aspetto, nel portamento, nelle sembianze e nell’acconciatura, la tenevano con delicatezza per mano. Le uniche differenze tra le due bimbe erano l’altezza e il colore dei capelli, una un poco più alta, longilinea e dai capelli biondi e ondulati, l’altra poco più bassa e dai capelli lisci e neri, rasati nella parte alta della testa per dare risalto all’ampiezza della fronte. Andrea aveva capito, già fin dall’altra volta in cui aveva intravisto le bimbe giocare nel giardino di quella stessa villa, che la sua figlia doveva essere la bionda. Senza nulla togliere alla moretta, era una bimba bellissima e aveva due occhi celesti proprio uguali ai suoi. Lucia aveva mandato le bimbe a sedersi su un divanetto e aveva porto la mano destra al cavaliere, che l’aveva presa tra le sue, si era inginocchiato e gliela aveva baciata.
«Su, su! Alzatevi!», gli aveva detto Lucia, le gote che le si stavano infiammando. Sollevandosi, Andrea si era trovato con il suo viso a brevissima distanza da quello di lei. L’impulso era stato quello di avvicinare le labbra alle sue e baciarla a lungo, ma si dovette trattenere a causa della presenza della servitù, ma soprattutto delle due bimbe.
I due rimasero così, per un po’, fissandosi negli occhi, senza proferire parola. Poi Andrea si schiarì la voce.
«I vostri occhi nocciola. Credo di averli visti l’ultima volta dietro una celata sollevata. Eravate voi il giorno del torneo a Urbino. Ne sono sicuro. Ho riconosciuto i vostri occhi. Dello stesso colore, al mondo non ce ne sono altri. Siete voi che mi avete salvato la vita, che avete bloccato Masio. E non capisco proprio, non mi capacito di come una damigella, bella e delicata come voi, abbia avuto la forza e il coraggio di intervenire in una maniera degna di un uomo d’armi.»
«Dovete ancora conoscermi a fondo, Messer Franciolino - o posso ancora chiamarvi Andrea? – In ogni caso, dietro la facciata di femminilità, ho saputo sempre farmi valere, anche in situazioni che richiedevano non solo forza, ma anche astuzia, cervello e ragionamento. E nessuno è mai riuscito a gabbare la qui presente Contessina Lucia Baldeschi. E vi assicuro che ci hanno provato in molti.»
«Immagino che questi anni per voi, qui in città, non siano stati semplici. Mi hanno raccontato che vi siete assunta delle responsabilità non indifferenti. E che ve la siete cavata in maniera egregia. Mi hanno anche riferito che siete una temeraria e più di una volta vi siete avventurata in viaggi anche perigliosi, e per di più senza scorta. Una cosa davvero azzardata per una dama del vostro rango.»
A queste parole, Lucia aveva abbassato lo sguardo, sospirando. Andrea, avendo capito di aver toccato un tasto forse dolente per la sua amata, aveva riportato il discorso su un piano diverso.
«Certo, dopo i fatti di Urbino, mi sarei aspettato di trovarvi al mio fianco, di essere assistito dalle vostre amorevoli cure, come ai tempi del sacco di Jesi. Invece mi sono ritrovato in un castello sperduto e solitario, con la sola compagnia di due burberi Conti montanari, e di un piccolo manipolo di loro servi.»
«Ho provveduto a che foste curato, ma non potevo rimanere nel Montefeltro. Ero giunta fin lì in incognita, solo per vedere voi. E ora che state bene, aspetto che siate voi a…»
«Ma certo, ma certo, avete ragione appieno», e si prostrò di nuovo ai piedi della sua amata, riprendendole la mano tra le sue. «Vi chiedo umilmente scusa per essermi dilungato in inutili chiacchiere. Lo scopo della mia presenza qui è uno e uno solo. Quello di propormi come vostro sposo. È strano doverlo chiedere direttamente a voi, di solito la mano di una dama si chiede per intercessione del suo genitore, o di un suo tutore. Ma meglio così. Sono pronto a dichiararvi il mio amore immenso, e credo che anche il vostro cuore batta forte per questo cavaliere, come più volte mi avete fatto capire.»
Lucia gli intimò di alzarsi per la seconda volta. Andrea si sollevò, continuando a tenere la mano di lei. Sentiva il profumo di acqua di rose, che lo stava facendo inebriare, quasi fosse ubriaco. Ancora una volta ebbe l’istinto di baciarla. Avvicinò con delicatezza il suo busto a quello di lei, fino a sentire la pressione dei suoi seni contro il suo torace. Le sfiorò la gota con le labbra, in un leggerissimo bacio, quasi impercettibile. Lucia si retrasse un po’.
«E avete capito bene. Sì, sono pronta a sposarvi, a una sola condizione, che vogliate essere padre di entrambe le bimbe.»
«E questo è scontato. Lo voglio essere. Sono due bimbe meravigliose e, a quanto vedo, già ben educate. Di questo bisogna rendervi merito.»
«Credo che ora sia bene vi congediate. Dovrete far visita al nostro amato Vescovo, al Cardinal Ghislieri, e prendere accordi con lui per la cerimonia nuziale. Io sarò disposta ad attenermi a tutto quello che il Cardinale vorrà predisporre. Andate, ora!»
La nave veneziana, per quanto stabile fosse, era più soggetta a movimenti di rollio e beccheggio avvicinandosi alla costa. Le manovre dovute all’attracco, inoltre, accentuavano detti movimenti, così come risvegliavano la nausea e il mal di testa di Andrea. Dalle voci dei marinai, capì che si stavano avvicinando alla Marina di Ravenna. Dalla piccola finestrella della cabina del comandante si intravedeva una fitta pineta a far da cornice alla costa. Tirandosi su dalla branda, sbatté la testa sul soffitto della cabina, che per quanto fosse una delle più alte, situata fra il secondo e il terzo ponte di poppa, era sempre più bassa rispetto alla sua altezza. Giusto mentre combatteva un conato di vomito, cercando di inghiottire la bile che risaliva dallo stomaco, entrò nella cabina il Capitano da mar.
«Ci fermeremo qui, alla Marina di Ravenna, per alcuni giorni, al fine di rifornire la nave di viveri e munizioni. Fino al Delta del Fiume Padano occorreranno altri due giorni, poi risaliremo il Po fino a Mantova. Da qui a Mantova, il viaggio sarà molto meno agevole rispetto a ciò che è stato finora. Soprattutto la navigazione fluviale creerà non pochi problemi. Potremo trovare delle secche, dei tratti di fiumi più stretti, insomma non sarà facile giungere fino a destinazione con una nave così grande. Accetta il mio consiglio, sbarca qui. Ti farò procurare dei cavalli e una scorta. Via terra, raggiungerai Ferrara, dove sarai ospite per qualche giorno del Duca d’Este, nostra amico e alleato. Da Ferrara a Mantova la strada non è lunga. Ti invierò un messaggero non appena la nostra nave sarà giunta nella città dei Gonzaga e ci riuniremo lì.»
Andrea fu sollevato dalla proposta. Non vedeva l’ora di sbarcare e poter balzare finalmente in sella a un cavallo.