Kitabı oku: «Solo Per Uno Schiavo»
Svjatoslav Albireo
Solo
per
Uno
Schiavo
Il Sogno Di Firokami
Traduzione, Editing e Adattamento
di
MAGDA PALA
@AlbireoMKG
Indice
CAPITOLO UNO
CAPITOLO DUE
CAPITOLO TRE
CAPITOLO QUATTRO
CAPITOLO CINQUE
CAPITOLO SEI
CAPITOLO SETTE
CAPITOLO OTTO
CAPITOLO NOVE
CAPITOLO DIECI
CAPITOLO UNDICI
CAPITOLO DODICI
CAPITOLO TREDICI
CAPITOLO QUATTORDICI
CAPITOLO QUINDICI
CAPITOLO SEDICI
CAPITOLO DICIASETTE
CAPITOLO DICIOTTO
CAPITOLO DICIANNOVE
CAPITOLO VENTI
CAPITOLO VENTUNO
CAPITOLO VENTIDUE
CAPITOLO VENTITRE
CAPITOLO VENTIQUATTRO
CAPITOLO VENTICINQUE
CAPITOLO VENTISEI
CAPITOLO VENTISETTE
CAPITOLO VENTOTTO
CAPITOLO VENTINOVE
CAPITOLO TRENTA
CAPITOLO TRENTUNO
CAPITOLO TRENTADUE
CAPITOLO TRENTATRE
CAPITOLO TRENTAQUATTRO
CAPITOLO TRENTACINQUE
CAPITOLO TRENTASEI
CAPITOLO TRENTASETTE
CAPITOLO TRENTOTTO
CAPITOLO TRENTANOVE
CAPITOLO QUARANTA
CAPITOLO QUARANTUNO
CAPITOLO QUARANTADUE
CAPITOLO QUARANTATRE
CAPITOLO QUARANTAQUATTRO
CAPITOLO QUARANTACINQUE
CAPITOLO QUARANTASEI
CAPITOLO QUARANTASETTE
CAPITOLO UNO
“Dove?” chiese, autoritaria, una donna dai capelli scuri.
A una prima occhiata, sembrava avere venticinque anni. In realtà, era molto -molto- più vecchia. Elegante e all’ultima moda, Aletta era la proprietaria di un hotel. Uno con un nome molto originale, per un albergo. Astoria. Chiaramente, una reputazione coi controcazzi la precedeva ovunque andasse.
Accanto a lei, un uomo. Alto, pallido, magrissimo. Il suo essere completamente vestito di nero lo faceva apparire ancora più macilento. Le indicò qualcosa, con un cenno del capo.
I due erano sul Ponte Principale del transatlantico Dream e osservavano, annoiati, la folla che si abbrustoliva al Sole.
Il Mare, una distesa di seta azzurra.
La crociera aveva radunato personaggi di ogni tipo. Il fattore VIP era rappresentato da una ricca compagnia di sadici -ufficialmente in incognito, ma neanche tanto- che avevano deciso di passare le vacanze a caccia di nuovi Schiavi da torturare. Ovviamente, quei poveracci ancora non sapevano di esserlo -sia Schiavi che poveracci- ma dettagli.
La coppia di osservatori apparteneva alla borghesia di Firokami, la Città-Stato di Diamante. Considerata troppo violenta per il resto del Mondo, era anche troppo influente per poterla boicottare. Tale potenza era stata creata molto tempo prima, quando il suo Governo aveva raccolto tutti i reietti del Globo -compresi i mutanti- all’interno delle sue mura. Coloro i quali erano stanchi dei vari regimi mondiali erano più che benvenuti.
Poi, fu come se Lei -la Città- prendesse vita.
Accadde tutto dopo che si separò dal continente d’origine.
Il Governo dell’epoca non voleva certo abbandonare una fonte di ricchezza e risorse. Ma i modi amichevoli non funzionarono e l’ostilità era fuori discussione. Era diventata troppo forte, nessuno sarebbe sopravvissuto a un eventuale attacco. In pochi decenni, Firokami -in maniera del tutto autonoma e razionale- si preparò alla guerra. Religione contro Scienza. Nemmeno a dirlo, Lei sostenne la Scienza. E divenne imbattibile. Campi di forza, guerrieri geneticamente modificati, armi psicotrope, licantropi, vampiri. Tutto ciò che di più fantascientifico si potesse immaginare, una contraddizione dietra l’altra. Non c’era modo di batterlo, quell’esercito. Il Sindaco di allora, Alex Alex -o meglio, Alex²- non accettò alcun compromesso. Dopo la scontata vittoria, nessuno poteva più competere con Firokami. Lei stessa non attaccò o invase nessuno. Non lo avrebbe mai più fatto. Si limitò a prosperare, recuperare le terre perdute durante l’Anschluss e diventare completamente autosufficiente.
La Scienza, nel frattempo, si perfezionò ulteriormente.
Lavorare Per Prosperare della Citta, il motto della Metropoli. Con tale atteggiamento, fu facile attirare nuovi Firokamiani. Ci si trasferiva e si lavorava per il bene comune. La politica di immigrazione più semplice e libera dell’universo.
Si trattava, però, della Città più costosa al Mondo. Non bastava essere miliardari, per potersi permettere di viverci. Il che è tutto dire. La valuta comune non era semplice moneta. Si trattava di Lingotti, ottenuti dal Diamante Dorato tipico della zona.
Non esisteva debito pubblico.
Non si commerciava con l’estero.
Non si dipendeva da nessuno.
Non c’era parità.
Non c’erano diritti.
Lì, la Legge Della Giungla -scusa preferita da tutti i Capitalisti- era Vangelo.
I meno fortunati diventavano Schiavi. Il giro d’affari che ci gravitava attorno era immenso. Soldi duramente guadagnati col sudore della fonte finivano tra le cosce e le labbra degli oppressi.
La Società prevedeva una gerarchia ben precisa. Era divisa in Padroni, Schiavi e Corifei. Questi ultimi erano baciati dalla Fortuna. Letteralmente. La Città si ergeva sulle loro spalle. Tutte le loro proprietà appartenevano alla Capitale. Lei, in cambio, li sosteneva e proteggeva. Qualsiasi cosa potesse accadere, non sarebbero mai e poi mai diventati Schiavi. Inoltre, il Giogo era totalmente volontario. Per quanto l’ultima spiaggia prima dell’accattonaggio possa essere considerata volontaria. Ultronei, questo il loro nome ufficiale. Ma quasi mai veniva usato.
La Legge era uguale per tutti. Qualche volta. Ma, in linea di massima, ci si schierava coi Padroni. A meno che qualcuno di loro non prendesse le parti dello Schiavo sotto accusa. Ma si trattava sempre di Padroni particolarmente potenti. Nessuno voleva correre il rischio di ribaltare lo Status Quo, ovviamente.
I Corifei erano ciò che rendeva la Città viva. Ognuno di loro possedeva una linea telefonica speciale, dove chiunque poteva chiamare e lamentarsi all’infinito. Un Servizio Clienti, in pratica. Erano obbligati a prendere atto di ciascuna lamentela e risolverla. Ma non prestavano la minima attenzione alla classe media e bassa, eccetto che in presenza di uno scontro di interessi.
A questo pensava Aletta, mentre socchiudeva i suoi occhietti color fango che lei amava definire nocciola. Continuava a guardare la folla. O meglio, la stava giudicando.
“Oh,” sospirò, afferrando la ringhiera. “Tutto chiaro.”
Si voltò e, di scatto, tirò un guinzaglio. A esso, legato, un esemplare di eccezionale bellezza. Pelle ambrata, lunghi capelli neri, occhi azzurri, alto, nobile, magnetico. Sulla spalla destra, un tatuaggio. Due lettere, A e D. Completamente nudo, indossava solo dei sandali di pelle. Delle cinghie di cuoio incatenavano il corpo del malcapitato e, al contempo, sottolineavano la sua condizione di sottomissione. Ma tutto si poteva dire, di quello Schiavo, tranne che fosse sottomesso. Sembrava un incrocio tra un predatore in gabbia, pronto a sbranare chiunque si avvicinasse alle sbarre della sua prigione, e un Dio Pagano. Una sorta di Bronzo Di Riace infernale, pericoloso e seducente.
Ai Firokamiani DOC era permesso portarsi in giro i loro Schiavi senza abiti addosso. Non c’era Violazione Della Pubblica Morale o Atto Osceno In Luogo Pubblico che tenesse, per il privilegiato 1%.
Il Mondo intero abbassava la testa -e, spesso ma non così volentieri, le mutande- di fronte alle assurdità di Firokami. Non si limitavano a essere una potenza. Erano La Potenza fattasi carne. Commerciare con loro significava avere un PIL del ventordici per cento. Quindi, a un certo punto, erano anche un po’ sticazzi dei Diritti Civili e delle minoranze oltraggiate.
E il ragionamento non faceva una singola piega.
Firokami aveva talmente la faccia come il culo da dichiarare che, finché ci sarebbero state donne lapidate per adulterio e ragazzini neri uccisi dalle forze dell’ordine, nessuno avrebbe potuto dire mezza virgola sul trattamento riservato ai suoi Schiavi.
Inoltre, tali Schiavi non venivano trattenuti contro la propria volontà. Una volta abbandonato il Paese, non era prevista alcuna condanna o persecuzione. Nemmeno dopo richieste di Asilo Politico a stati esteri.
Le regolamentazioni imposte dalla Città valevano solo al suo interno. Bello, vero? E, invece, no. Gli Schiavi sapevano bene, quanto tutto ciò fosse ipocrita. Nessun’altra nazione aveva bisogno di loro, nessuno poteva accoglierli. Inoltre, la vita -là fuori- sarebbe stata ancora più insopportabile. Di conseguenza, Firokami non poteva fare altro che arricchirsi. Vita natural durante.
“Da bravo, fai il tuo dovere,” sussurrò Aletta, mentre allargava le gambe.
Lo Schiavo si inginocchiò davanti alla sua Padrona, senza lasciar trapelare alcuna emozione. Le sfiorò i fianchi con la punta delle dita. Poi, seppellì il viso tra quelle cosce spalancate. E Aletta gridò. Cazzo, se gridò. Quell’Adone ci sapeva proprio fare. Come poteva non essere così? Dopotutto, aveva ben trent’anni di esperienza. Una brillante carriera, iniziata quando aveva otto anni. È la pratica che rende perfetti, n’est-ce pas?
Il socio della donna, annoiato, si accese una sigaretta. Poi, girò i tacchi e se ne andò.
“Ehi! Dov’è che vai, Stine?” gemette Aletta, in preda ai piaceri del cunnilingus ma sempre sul chi-va-là.
“Se permetti, pure io c’ho voglia di un pompino,” rispose l’altro, seccato. “Mica posso restare a guardare te che ti diverti.” E si diresse al Ponte Inferiore.
“Ma il divertimento comincia questa sera,” sussurrò lei, prima di arrendersi alle coccole del suo Animale Da Compagnia.
Andava bene. Stine era perfettamente in grado di badare a se stesso. Aletta non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi, se non venire. Poi, venire di nuovo. E, magari, venire ancora.
***
L'Oceano e il Sole sembravano respirare. Sembrava quasi stessero per dire qualcosa di davvero importante. Il Ponte Inferiore era il più vicino e Ad era in ascolto. Scrutava l’orizzonte coi suoi occhi color ciliegia. Non voleva perdersi una sola parola, se avessero iniziato davvero a parlare. Ma non lo fecero. O, forse, non riusciva a sentirli. Con tutta quella marmaglia che mormorava attorno a lui, come avrebbe potuto? Si stava annoiando.
“È scomoda, quella sdraio?” chiese, d’improvviso, un uomo.
“Non scomoda come quei vestiti neri che c’hai addosso,” rispose il ragazzo, sgarbato.
Stine sollevò un sopracciglio. Ma sorrise e gli si sedette affianco. Sulla stessa sedia.
“Adesso sì che è scomoda,” commentò Ad, mentre sollevava le gambe e le poggiava sulle ginocchia del nuovo arrivato.
E, all’improvviso, l'Oceano e il Sole cominciarono a gridare. Urla disperate. Ad si raddrizzò, di colpo.
“Stai mica aspettando qualcuno?”
Il ragazzo avrebbe voluto rispondere a modo suo. Ma cambiò idea e soppesò l’uomo con lo sguardo.
“Cos’è che vuoi?” gli chiese, poi, come se fosse appena arrivato.
“Niente,” fu la risposta. Poi, aggiunse, “Non hai paura a parlare così a degli sconosciuti? Non puoi mai sapere chi ti possa capitare di fronte.” Si sporse e lo fissò. “E come potrebbe reagire alla tua maleducazione.”
Ad ghignò. Lo divertivano sempre, i boomers che cercavano di intimidirlo.
“Un lupo non si preoccupa della reazione di una pecora,” rispose il giovane, acido come poche cose nella vita.
Stine sorrise. Immaginava come quelle labbra avrebbero gridato, come quegli occhi cremisi avrebbero pianto, come quella pelle si sarebbe arrossata, sotto le sue cure. E ridacchiò.
“Stasera, avvicinati al Quarto Tavolo. Vedrai che ne varrà la pena.” E se ne andò, non prima di aver buttato il mozzicone della sua sigaretta nel drink del ragazzo. Il cui primo impulso fu di tirarlo dietro a quel Vecchiaccio-Di-Merda-Che-Arriva-Lì-E-Pensa-Di-Fare-Come-Gli-Pare-Quando-Gli-Pare. Ma si bloccò, quando vide i muscoli di schiena e glutei dello sconosciuto. Un finto magro, poco ma sicuro. Rimase a guardarlo, mentre si allontanava. Dopo di che, si alzò. I battibecchi tra Monsieur Oceano e Mr. Sole non gli importavano più. Forse, non gli erano mai importati.
***
Aletta era seduta a un tavolo. Un venticello fresco le accarezzava il viso, ancora accaldato dagli orgasmi. Ma quelle sensazioni piacevoli non poterono nulla, contro la sua agitazione. Stine era sparito. Letteralmente. In più, tutti -tutti- non levavano gli occhi di dosso dal suo Schiavo. Il suo Schiavo! Se lo stavano letteralmente mangiando con gli occhi. Ma che filibustieri! Poi, lo vide. Stine. La salutò con un cenno del capo, ma non si avvicinò e proseguì oltre.
L’uomo era un gossipparo di prim’ordine, ma -in quel momento- la sua voglia di scopare era più forte della voglia di pettegolezzi. Non abbordò nessuno, però. Quegli Schiavi erano tutti così banali e insipidi. Nemmeno tutti assieme avrebbero potuto soddisfare ciò che quel bellissimo giovane gli aveva scatenato. Meglio solo, quindi, che male accompagnato. Non voleva certo passare per disperato.
“Ma che ca- Al! Vai là e scopri cos’è successo! E, soprattutto, quando è successo! Corri!” esclamò Aletta, spingendo lo Schiavo lontano da sé. Quello si alzò, abituato a ben di peggio, e si diresse verso l’obbiettivo.
Due falcate e lo raggiunse, proprio prima che entrasse nella sua cabina.
“Padron Stine,” disse. “La mia Signora vuole sapere cosa è successo. E, soprattutto, quando.”
“Cosa e quando?!” Stine corrugò le sopracciglia. Aletta diventava ogni giorno più assurda. Poi, guardò il manzo che aveva di fronte. “Entra che ti racconto.”
E Al obbedì. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato punito dal Padrone.
Certo, Aletta lo avrebbe punito per aver acconsentito che un altro lo toccasse. E perché la stava facendo aspettare.
Poteva quasi vederla, dove l’aveva lasciata, che programmava il dopo-cena al Tavolo Quattro. Unghie affilate, espressione corrucciata, mentre preparava la punizione esemplare per il suo essere lento e insolente.
In un modo e nell’altro, lo Schiavo ne avrebbe pagato le conseguenze.
Non poteva vincere.
Ma non era sicuro che gli importasse.
CAPITOLO DUE
Un bellissimo ragazzo, poco più che adolescente, passò accanto ad Aletta. Lei lo vide, sorrise, allungò una gamba e gli fece lo sgambetto.
Lui bestemmiò che manco uno scaricatore di porto. Sollevò lo sguardo e la fissò. Quegli occhi color ciliegia, se avessero potuto, l’avrebbero uccisa. Aprì la bocca e le disse, “Scusate tanto,” col tono che nessuno mai assocerebbe a delle scuse.
Aletta rimase a bocca aperta. Non era proprio la reazione che si aspettava. Ma non si perse d’animo e gli offrì il suo sorriso più smagliante. Poi, senza guardarlo, si sistemò meglio sulla sua poltrona.
“Siediti, ti offro un caffè,” offrì, soave, sempre senza guardarlo. Di proposito.
La risposta non arrivò. Anche se quel silenzio fu molto eloquente.
Finalmente, si voltò a guardare il giovane. A quel punto, si aspettava di trovarlo in ginocchio. Terrorizzato per aver osato urtare una dei Padroni, gli occhioni belli pieni di lacrime. Semplicemente perfetto.
Ma lui non c’era.
Scomparso. Puf. Come se non fosse mai stato lì.
Si rese conto, in pratica, che aveva parlato da sola. Come un’idiota qualsiasi. La donna arrossì di umiliazione. Quello Schiavo presuntuoso aveva osato non implorare pietà. Le odiava, quelle puttane boriose. Se la facevano coi Corifei e non valevano assolutamente nulla, se non fosse stato per la loro bellezza. Si trovava sulla nave per incontrare Alsheh Mareh, la Lady Gaga di Firokami. Sicuro come la Morte che era quella la ragione. E se ne sarebbe pentito, eccome, per tutta la vita.
Aletta ghignò, pensando agli altri prima di lui. Tutti caduti tra le grinfie di Stine e mai più risollevatisi. Sarebbe successo anche a quel San Sebastiano. Sarebbe stata proprio lei a fare in modo che accadesse.
***
I Padroni adoravano sfondare culi. Non si curavano di prepararli prima. Era -quasi- voluto. E Stine non faceva differenza. Anzi, era maledettamente violento. Più degli altri. La sua era una missione. Doveva, per forza, dimostrare costantemente che lui era un Padrone e loro degli Schiavi. Nel caso di Al, una Bestia. Quindi, ancora più inferiore.
“Allora, troia, ti piace?” gli sussurrò all’orecchio.
“Sì, Padrone,” rispose, come d’abitudine, lo Schiavo. Mancava solo sbadigliasse.
Ma Stine non ci badò. Probabilmente, dato che non lo riguardava personalmente, nemmeno se ne accorse. Gli sborrò dentro, senza tante cerimonie. Poi, si sdraiò sul letto. Completamente rilassato, ignorò del tutto la presenza accanto a lui. Il poveraccio rimase col culo in aria, in attesa di ordini. Era ancora duro.
“Posso venire, Signore?” chiese, infine, quando divenne insopportabile. Di certo, un Padrone non l’avrebbe fatto di sua sponte.
“Apri la bocca. Poi, potrai venire.” E l’uomo lo fece inginocchiare. Dopo di che, iniziò a pisciargli tra le labbra.
Al sapeva che non se la sarebbe cavata solo con una chiavata a secco. E, senza alcuna emozione, cercò di non perdersi nemmeno una goccia. Nel frattempo, si toccava furiosamente.
Quel Padrone, tanto decantato nella sua depravazione, lo annoiava da morire.
Tutti loro lo annoiavano da morire.
Credevano di essere stocazzo, ma erano fotocopie gli uni degli altri.
Pensavano le stesse cose, agivano nella medesima maniera. E, da bravi narcisisti patologici, erano convinti di essere tutti particolari ed eccentrici.
Pisciargli in bocca. Wow, che originalità.
Ovviamente, si tenne tutto per sé e cercò di bere il più velocemente possibile. Ma il piscio gli finì comunque nel naso e sugli occhi. Quando finì, si ritrovò in una pozza dorata.
Stine, soddisfatto e tronfio, cominciò a rivestirsi. Molto lentamente. E osservava quella grande e terribile bellezza che si veniva addosso.
“Pulisci,” gli ordinò, poi.
Un’altra richiesta molto originale. Leccare il pavimento. Al stava lottando con se stesso per non cadere addormentato nei suoi stessi liquami.
Quindi, si chinò in avanti e cominciò a leccare. Stine lo guardava col sorrisino che tutti i siti di seduzione online, palesemente salvati tra i preferiti del Padrone, definivano da-stronzo. Al provava sempre qualcosa di molto simile alla pietà, per tale mancanza di consapevolezza di sé. Era palese quanto quel tipo stesse godendo nell’umiliare lo Schiavo. Era davvero convinto di essere il primo, il solo e l’unico ad averlo fatto. Faceva quasi tenerezza. Quasi.
Una volta terminato tale teatrino, il Padrone tirò il guinzaglio e si diressero -insieme- sul Ponte. Tutti si girarono a guardare la Bestia.
E i sorrisini da-stronzo si sprecarono.
***
Aletta, vedendo Stine e Al all’orizzonte, ridacchiò. Le piaceva, quella vista. Eccola, la differenza tra uno Schiavo e un Padrone. Si può essere più alti, più forti, più attraenti. Ma è la forza di volontà che gioca il ruolo di punta.
Quando la coppia si avvicinò, la donna mise su un’espressione contrariata.
“E dov’è che sei stato?” chiese.
Stine posò il guinzaglio, accese una sigaretta e si guardò attorno. Come se non avesse proprio nulla a che fare col ritardo dello Schiavo.
“Mi dispiace, Signora. Stavo aiutando Padron Stine a rilassarsi.”
“E io ti punirò per questo. L’hai fatto apposta? Ti piace essere castigato? L’avrai praticamente implorato di scoparti. Sai fare solo quello! Non sei nemmeno in grado di versarmi un bicchiere d’acqua!”
Si sentì subito meglio.
Prendersela con gli Schiavi aveva il potere di farla stare bene.
La vergogna provata poco prima, dimenticata. In quel momento, qualcun altro era più umiliato di lei. O così lei pensava. E ciò le bastava.
“Mia Signora, Voi siete la mia priorità. Ma non posso rifiutarmi, se un altro Padrone mi comanda. Sono uno Schiavo. No è una parola che non posso dire. Mai.”
Nemmeno una nota di colore trasparì da quella voce.
Ma un brivido dolce percorse la schiena della donna, a sentire quelle parole.
Il Dio Pagano era talmente umiliato da essere stato costretto a giustificarsi. Bene.
“Sdraiati sul fianco,” gli ordinò.
Quello obbedì, subito. Sapeva cosa la donna voleva. Sapeva tutto in anticipo. Perché gli faceva sempre le stesse pallosissime richieste.
“Toccati, puttana, lo so che ti piace,” gli sibilò.
Lo Schiavo cominciò a toccarsi. Veloce, ma senza la minima passione.
“Mettici più impegno! E non dimenticarti i coglioni,” aggiunse Aletta, mentre gli spingeva la base rigida del guinzaglio nel culo già martoriato.
La Bestia iniziò ad ansimare.
“Fa male, Padrona. Fa tanto male.” Ed era vero. Ma non voleva certo che si fermasse. Il dolore era una consolazione. Solo così sapeva di essere ancora vivo.
“Vi prego, Signora,” implorò, poi, falsissimo.
E Aletta sorrise. Ci credeva davvero, povera stella.
“Pensi, forse, che non lo sappia? Non distrarti! Più forte!”
Stine, nel mentre, continuava a guardarsi attorno.
“Hai mica visto un ragazzo? Giovane, bellissimo, occhi rossi, sfrontato da morire.”
“Sì, era qui. Se n’è andato,” rispose la donna, facendo dentro-fuori con la base del guinzaglio. Poi, aggiunse, “Hai già organizzato qualcosa?”
“L’ho invitato al Tavolo, per cena.”
“Awww, ma quanto sei premuroso!”
E scoppiò a ridere, lo stesso suono di mille vetri in frantumi. Ossia, fastidioso.
Al stava tentando di venire, in fretta, ma quel rumore lo mise a dura prova. Voleva ascoltare i discorsi dei due Padroni, ma prima doveva portare a termine l’ordine ricevuto.
Quindi, si dedicò alle sue personali fantasie.
Un prato verde, tanti fiori bianchi, una scogliera stagliata sul cielo azzurro, una casetta dal tetto verde, un orticello, un amante grazioso, risate sulla spiaggia, tenersi per mano, ascoltare il Mare cristallino e i suoi misteriosi sussurri. Il sesso sarebbe stato piacevole. Niente forzature, niente manipolazioni. Nessuno dei due avrebbe provato dolore. L’amore avrebbe reso tutto fantastico, nient’altro. Avrebbe guardato il suo innamorato negli occhi, con rispetto, sempre. Gli avrebbe sorriso e goduto della sua felicità. L’avrebbe fatto stendere sull’erba, lo avrebbe baciato ovunque e poi-
Al diede un ultimo strattone e si venne in mano. Aletta buttò il guinzaglio per terra, mentre la Bestia riprendeva fiato.
“Vorresti guardare l'acqua?” gli chiese, soddisfatta.
“Sissignora,” sospirò lo Schiavo.
E Aletta recuperò il guinzaglio, legandolo al tavolo.
“Torno a prenderti prima di cena.”
“Grazie, Signora.”
La Padrona sentiva gli sguardi invidiosi delle altre donne su di sé. E quanto le piaceva! Poi, gli accarezzò la spalla e si allontanò.
Finalmente solo, lo Schiavo si guardò attorno.
Niente sedie.
Ovvio.
Ma anche se ci fossero state, non le avrebbe usate. Da seduto, non avrebbe potuto vedere l’Oceano. E se Aletta si fosse accorta che non stava obbedendo, avrebbe potuto decidere di inventarsi qualche altro passatempo.
Le sue interiora si contrassero. Il dolore, stranamente, non era ancora scemato. Sussultò, quando si mosse troppo bruscamente. Fortuna che non c’era nessuno, a vedere che stava effettivamente soffrendo. Perché avrebbero voluto farlo soffrire un po’ di più, quei pezzi di merda.
Era diventato Schiavo all’età di otto anni. Prima, aveva vissuto in un orfanotrofio gestito dalla Chiesa. La stessa Chiesa che, poi, lo aveva introdotto al Mondo della Schiavitù della Contea di Dora. Firokami autorizzava le peggiori perversioni. Avere più di una confessione religiosa non era nulla di speciale. Nessuna era più importante di un’altra. I rappresentanti di ciascuna avevano gli stessi diritti e doveri. E le stesse depravazioni. Forse, erano pure più sregolati dei comuni mortali.
Quella era la sua vita, il suo stato sociale.
Talmente prezioso che non gli era nemmeno permesso di andarsene in giro da solo. Sempre legato, spesso rinchiuso. Non si poteva correre il rischio che venisse rubato. O, peggio, che scappasse. Perché lui, di fuggire, ci pensava continuamente.
Ma dove sarebbe andato? Cosa avrebbe fatto? Completamente nudo, senza denaro, senza la minima conoscenza. Forse, avrebbe potuto sopravvivere nella foresta. Ma come ci sarebbe arrivato? Fino a che punto sarebbe sopravvissuto? E quando l’avrebbero catturato? Non voleva pensarci.
Fantasticava su indipendenza ed emancipazione, ma non gli sembrava il caso di agire.
Da quando era bambino, gli era stato inculcato che fosse solo un giocattolo, nato per quel motivo ed esclusivamente quello. Era stato nutrito a pane e umiliazioni.
La verità era che aveva paura della Libertà. Non la conosceva. Come poteva mantenersi, da solo? Certo, sapeva cucinare e tenere pulito. Ma come avrebbe pagato la casa dove avrebbe vissuto? Non sapeva niente di concreto. L’ignoto lo spaventava più degli abusi subiti a Dora da tutti quei preti pedofili.
I suoi pensieri furono interrotti da un respiro affannoso.
Sicuramente l’ennesima Padrona che si toccava ammirando i suoi muscoli. Patetico. I suoi sogni di un amante gentile, con cui vivere in una casetta sulla scogliera, divelti all’improvviso.
Si voltò subito, perché non sia mai che quella Padrona pensasse fosse un maleducato. Ma di fronte a lui, un altro Schiavo. Uno di lusso, con gli occhi che sembravano ciliegie. Faceva sicuramente parte dell’Élite di Firokami. Quel colore di occhi era troppo raro per non essere altrimenti.
Al gli sorrise. Erano colleghi, dopotutto. Non aveva nulla da temere dalla concorrenza.
Il ragazzo si avvicinò. Era bellissimo.
“Ciao,” disse, timido.
“Ciao,” rispose Al.
E il nuovo arrivato si insinuò accanto a lui. Senza invito.
“Ti fa male?” gli chiese, con dolcezza.
Al non aveva mai incontrato prima d'ora uno Schiavo D’Alto Borgo che si preoccupasse per gli altri. Avide puttane, li definiva Aletta. E, per quanto gli costasse ammetterlo, aveva ragione. Quei giovani amavano gioielli e lingotti. Li amavano più di loro stessi. Al era sempre più confuso. Il ragazzo gli accarezzò la guancia, dove il piscio si era incrostato. La Bestia sussultò. Si sentiva a disagio. Perché? Emozioni rischiose si stavano pericolosamente risvegliando in lui.
Scosse la testa, fissando il ragazzo. “No,” disse.
Quella fragile, perfetta bellezza lo fissava a sua volta. Ovunque. Poi, lo sguardo si bloccò sul cazzo della Bestia. E sorrise. Moscio, sì, ma bello e fiero. Era quasi primordiale. E, sotto quello sguardo cremisi, Al divenne duro. Per l’ennesima volta in pochissimo tempo. Imbarazzo. Quella parola non descriveva affatto lo stato in cui versava. Tale sensazione era quasi sconosciuta, certamente dimenticata. E scattò in piedi. Il giovane lo guardò, dal basso verso l’alto. Poi, scoppiò a ridere. Profumava di fresco, ma anche di caldo. Di noci, ma anche di fiori. Dolce, ma avventato. Si alzò anche lui. Aveva addosso solo un paio di mutandine. Talmente ridotte che, se anche non le avesse indossate, sarebbe stata la stessa cosa. Si avvicinò, felino, e cominciò ad accarezzare l’erezione della Bestia. Il ragazzo era molto più basso e gracile di lui. Quindi, si sollevò in punta di piedi per poterlo baciare. Fu a quel punto che Al si risvegliò.
“Cosa stai facendo?”
“Cerco di rimorchiarti,” grugnì il giovane, mentre respirava -a pieni polmoni- l’odore dell’altro.
“Qui?!” E Al si stupì di se stesso. Da quand’è che era diventato così timido?
“Certo che no! Andiamo nella mia cabina,” rispose il ragazzo, acido e seducente, mentre tirava il guinzaglio.
Quel corpo era così reale, così allettante. Al, d’improvviso, lo strinse. Dopo di che, si chinò in avanti e lo baciò. Le mani che scivolavano sulle spalle e la schiena di quel giovane sconosciuto e sfacciato.
Si staccò.
“Sono uno Schiavo,” disse, aggrappandosi alle ultime vestigia del suo buonsenso.
“Lo vedo,” gli sorrise l’altro, accoccolandosi meglio tra le sue braccia.
Poi, il baratro.
Accadde tutto molto in fretta. Le mutandine sparirono, le gambe si spalancarono, la schiena si arcuò, le labbra gemettero. La Bestia si spingeva, nervosa, dentro quel culetto oh-così-stretto e oh-così-impaziente. Tutto scomparve. C’erano solo loro due. L’ultimo barlume di razionalità dirottato all’urgenza di non venire subito. Impresa titanica, con quell’acerba bellezza che gli si agitava in grembo. Come non venire, con tutta quella pelle sotto le dita?
“Di più, ti prego, ancora,” gli sussurrava quello, dopo ogni spinta.
Dentro, fuori, su, giù.
Lo Schiavo cercò in tutti i modi di resistere, mentre seppelliva il viso tra i riccioli del ragazzo e il cazzo nel suo culo.
Ancora dentro, ancora fuori, ancora su, ancora giù.
I gemiti si fecero sempre più acuti. I gridolini si trasformarono in urla. Le carezze vennero sostituite da graffi. Poi, quel giovane venne. E fu la cosa più bella che Al vide in tutta la sua vita. Ma il piacere fu talmente forte da diventare insostenibile. Il ragazzo tentò di allontanarsi da quello spiedo che lo stava devastando. Ma la Bestia non ci stava. Nossignore. Non aveva la minima intenzione di lasciarsi scappare quel gioiello prezioso. Quindi, fece l’unica cosa possibile. Gli afferrò i fianchi, lo immobilizzò sulla sua erezione e martellò -incessante- quel posticino particolare. Profondo, tra le natiche, l’entrata per il Paradiso.