Kitabı oku: «Solo Per Uno Schiavo», sayfa 3
Aletta sorrise. Tutto il tempo.
“Padrona, mia Padrona! Vi prego, basta,” pianse la Bestia, sperando di non essere ascoltato.
“Ma che dici? La cena è ancora lontana! Goditelo!” rispose la vipera. “A meno che non ci sia qualcos’altro che catturi la mia attenzione. Sono tutti al capezzale di Amir, adesso. Io sto cercando quel nuovo bocconcino su Internet. Così verrà a giocare con noi!”
D’improvviso, il lampo di genio. E se-?
“Potrei punire qualcuno per Voi, Signora,” propose Al. E si sentì una merda, quando lo fece. Ma quel dolore non lo stava facendo ragionare. E quell’Efebo era troppo conturbante, per lasciarselo sfuggire.
Aletta si voltò, di scatto, il volto illuminato dalla gioia. Uno spettacolo orribile.
“Bello! Punirai il ragazzino in pubblico! Non ti limiterai a scopartelo a sangue, oh no, lo punirai come si deve! Voglio che lo umili nell’intimo! Ma sappi una cosa,” aggiunse, poi, maligna. “Se non ti impegnerai, se non farai del tuo meglio, se non mi piace come ti comporti, se dovesse dispiacerti per lui, povero te! Quello che stai subendo ora, ti sembrerà il Paradiso.”
Dopo di che, gli si avvicinò. Poi, tirò fuori il vibratore. Piano piano. Al si pisciò, di nuovo, addosso.
“Ora vai in bagno e pulisciti. Puoi riposare, almeno due orette. Tanto, quello lì, non si farà vedere prima di pranzo.”
CAPITOLO SEI
Tutta la Compagnia era riunita sul Ponte Superiore. Stine annuì, quasi impercettibile.
“Okay,” disse Aletta, capendo al volo. Poi, si voltò verso Al. “Vedi quel ragazzo? Prima fila, terza sdraio. Bene, vai e colpisci. Vedi di non deludermi.”
E Al lo vide. Aveva sperato fino all’ultimo che non si trattasse di lui. Aletta lo aveva usato altre volte, come mezzo di vendetta. Litigava con qualcuno, o qualcuno osava non leccarle il culo, e lei colpiva. Usando proprio lui. Era la sua arma. Ma in quel momento, la vittima era il suo Angelo. Tutti quei discorsi riguardavano lui. Si erano incazzati. Ma perché? Al non lo sapeva.
Si avvicinò, col gelo nel cuore, non appena ricevuto l’ordine. Sicuramente i Padroni l’avevano già adocchiato, ancor prima che loro due si conoscessero. E come dar loro torto? Una tale bellezza non passava certo inosservata.
Il piano era sempre uguale. Al avrebbe lusingato la vittima e quella ci sarebbe cascata con tutte le scarpe. Poi, una volta venuta a conoscenza che era tutta una finzione istigata da Aletta -e non perché Al trovasse l’oppresso di turno particolarmente attraente- l’umiliante martirio poteva cominciare.
Ma non quella volta.
Doveva assolutamente avvisare il ragazzo, dirgli di fuggire dalla nave. Ma come? Ormai era di fronte a lui. Che fare? Improvvisazione era la parola chiave.
“Ciao”, esordì Al, inginocchiandosi accanto alla sdraio. Ad aprì gli occhi, restando senza fiato. Si ricordava, eccome, di cotanta magnificenza. Il suo microslip stava già diventando stretto.
“Ciao a te”, rispose, quindi, sorridendo. Al incombeva su di lui, i lunghi capelli che celavano il volto da sguardi troppo abili nella lettura delle labbra.
“Devi nasconderti e abbandonare la nave. La crociera la finirai un’altra volta,” bisbigliò.
“Adesso?!”
Quella dichiarazione arrivò completamente inaspettata. Quei bellissimi occhi cremisi fissarono, stupiti, la Bestia.
“No,” sussurrò Al, mentre lo accarezzava. “Dopo che ti avrò scopato”.
La reazione di Ad fu immediata. Emise un lungo gemito di aspettativa, già in preda alla lussuria e al ricordo delle sensazioni provate sotto quelle stesse mani. Sollevò il volto, per poterlo baciare, ma Al seppellì il volto tra i suoi capelli. Non poteva mostrare il minimo cenno d’affetto. Ne moriva, ma non poteva farlo. Avrebbe dovuto essere crudele. Perciò, si sedette e attirò quel bellissimo viso tra le sue cosce. Poco prima di seppellire il suo cazzo nella gola del ragazzo, quello urlò. Spalancando meravigliosamente la bocca.
I Padroni iniziarono ad arrivare, accompagnati dai loro Schiavi. Ognuno di loro ordinò ai servitori di toccarli. Non specificarono nemmeno il come, non avevano bisogno di alcuna tecnica per poter godere. Quello spettacolo era più che sufficiente. Tra la folla, Stine e Gene condividevano lo stesso Schiavo. Amir, alla faccia della convalescenza, stava abusando di un ragazzino. E brutalmente pure.
Al, dal canto suo, era combattuto. Quell’Efebo era splendidamente terribile. Quando gli venne in gola, quasi non si strinse. Ingoiò tutto con gioia. Era sbagliato. Se mostrava piacere, i Padroni gliel’avrebbero fatta pagare.
Decise di aumentare il carico.
Non gli diede tempo di riprendersi. Gli afferrò i capelli sulla nuca e lo guardò. Le labbra gonfie, un rivolo di bava che sgorgava da un lato, gli occhi lucidi, bellissimo.
Oh, quanto avrebbe dato per possedere tale gemma!
Ma quei pensieri erano pericolosi.
Lo afferrò e lo sbatté sulla sdraio. In un attimo, gli fu sopra. E lo penetrò, senza nemmeno prepararlo. Si rese subito conto che, comunque, non ne avrebbe avuto bisogno. Quella bellezza riusciva ogni volta a stupirlo. Ad cominciò a muoversi e gemere, contorcendosi in preda all’estasi.
Non andava bene proprio affatto!
Al cercò di distrarsi da quell’immenso piacere, pensando a come umiliare la sua vittima e -allo stesso modo- a non offenderla. Anche se, a ben vedere, per offendere tale famelico bocconcino ci sarebbe voluto un miracolo.
Si guardò attorno. Tutti i Padroni erano impegnati a scopare col vicino più prossimo. Tutti quanti. Riportò la sua attenzione alla meravigliosa creatura che aveva davanti. Ad tutto sembrava, tranne che umiliato. La Bestia doveva escogitare qualcosa e al più presto. Ma quel folletto ribelle si dimenava oh-così-sinuosamente sotto di lui che gli era impossibile pensare. Allora con una mano gli afferrò -di nuovo- i capelli, tirando forte. L’altra gli immobilizzò un fianco. Le spinte divennero più violente e mirate. Abbandonata la criniera, si concentrò sul piccolo ma delizioso pene del giovane. E strinse.
“Oh, mio Dio!” urlò quello, più volte.
Al si stava innervosendo. Possibile non gli importasse un beato accidente che se lo stesse scopando, con rabbia, davanti a tutti? Senza che fosse stato lui ad approcciarlo? Come poteva portarlo a ribellarsi e nascondersi, se la sottomissione pubblica non lo umiliava minimamente! Anzi, se la stava godendo come un ossesso!
Non voleva ricorrere al dolore fisico, ma sembrava l’unica soluzione.
Afferrò i testicoli, quasi glabri, e strattonò. Il ragazzo urlò, per la prima volta, di dolore. Ma si strinse alle spalle della Bestia, come in cerca di protezione.
“Sei un Dio!” gridò, tra i gemiti. “Sei il mio Dio!”
Al ebbe quasi il coraggio di ammosciarsi, mentre era ancora sepolto in quel calore.
Non glielo aveva mai detto nessuno. Mai, in più di trent’anni!
La felicità gli fece venire un coso alla gola. Subito, però, percepì la malvagia invidia dei Padroni.
Lui un Dio? Un cazzo di Schiavo?! Ma quando mai!
Doveva risolvere e in fretta.
Ritornò a masturbarlo e quello venne, un suono melodioso che Al già conosceva. Sapeva l’effetto che avrebbe provocato. Infatti, poco dopo, i Padroni lo imitarono.
Ma Al era un professionista. Rimase concentrato sul compito. Nulla avrebbe potuto distrarlo. Continuò a spingere, sempre nello stesso punto. Il ragazzo urlava, abbracciandolo disperato. Ci volle pochissimo perché ritornasse duro.
La Bestia agì d’istinto.
Sollevò una mano e la lasciò cadere sul volto del giovane. Non fu uno schiaffo, ma -da lontano- lo sarebbe sembrato. Era ciò che contava.
Riafferrò quei capelli di seta e tirò di lato, esponendo la gola. Digrignò i denti, prima di affondarli in quella tenera carne. Forte. Sangue fresco e profumato gli si riversò tra le labbra. Ad singhiozzò. Dolore? Piacere? Entrambi? Mistero, ma fu delizioso.
“Sei il mio Dio,” ripeté, tra i gemiti.
Niente, non cedeva di mezzo millimetro.
Cosa ci voleva, per spezzarlo? Non c’era verso di farlo spaventare. Nemmeno ferirlo era servito a qualcosa.
A mali estremi, quindi, estremi rimedi.
“Ascoltami,” gli sussurrò. “Ho bisogno che tu lotti con me. Fingi che ti stia stuprando e che non ti piaccia. Cerca di liberarti e scappare. Puoi farlo?”
Il ragazzo lo guardò. Gli occhioni belli colmi di lussuria. Poi, si morse il labbro. Se lo morse talmente forte da spaccarlo.
“Vuoi che implori?” chiese.
No, seriamente. Chi cazzo era, quell’elfo?!
“Certo,” rispose la Bestia, prima di baciarlo. Bacio che venne ricambiato imperiosamente. Subito, lo Schiavo si allontanò. Per Ad, quello, fu il segnale. Iniziò a dimenarsi e cercò di staccarsi da lui.
“Ti prego, no! Lasciami!” urlò, in maniera molto convincente. Troppo convincente. Se si ignoravano i gridolini di due secondi prima, ovvio. Ma i Padroni non erano esattamente in grado di intendere e di volere. In linea generale e ancora meno in quel momento.
Al, quindi, uscì di botto da quel corpicino delicato. Spinse il giovane a terra, tra le sue gambe.
“Succhia!” gli ordinò, malvagio.
Ad scosse la testa, in lacrime. Allora lo afferrò, di nuovo, per i capelli e glielo mise a forza in gola.
Quel piacere, di nuovo. Viscoso. Miele e sangue.
Mentre succhiava, Al infilò un piede tra le cosce dell’Efebo e accarezzò il buchetto -appena usato- con l’alluce. Ad stava dando prova di essere un grande attore. Cercava di spostarlo e, contemporaneamente, se lo spingeva dentro. Lo Schiavo fece, ancora, finta di schiaffeggiarlo. Quando venne, sentì i muscoli di quella gola famelica che lo succhiavano fino all’ultima goccia.
Una volta venuto, lo buttò sul pavimento. Mentre si trovava schiena a terra, gli calpestò -piano- i testicoli.
“Hai capito cos’è che devi fare? Alla prossima fermata, scendi da qui e vatti a trovare un protettore!”
“Ma ne ho già uno!” piagnucolò Ad.
“Allora vedi di stargli attaccato, notte e giorno!”
A quel punto, Ad si sollevò e iniziò ad accarezzare la bellissima Bestia. Piano, con reverenza.
“Va bene. Ma perché devo scendere? Lui è già qui,” disse, guardandolo implorante.
“Bene! Vedi di attaccarti a lui!”
Beata ingenuità.
Non ci arrivava proprio che si stesse riferendo a lui.
Sputò in bocca a quel prodigio della natura e lo maltrattò, per finta, qualche altro istante. Giusto per essere sicuro. Poi, riuscì a chiedergli, in un soffio, “Come ti chiami?”
“Ad, e tu?”
“Al,” rispose la Bestia.
Subito, si ricordò.
“Alon,” si corresse.
Era quello il suo nome. Quand’era stata l’ultima volta che l’aveva usato? Che qualcuno l’aveva chiamato così?
Finiti i convenevoli, si alzò e gli diede un calcio. Uno leggero, quasi un buffetto, per allontanarlo.
“Corri,” gli disse. Ad lo guardò, le lacrime agli occhi. Lacrime di piacere, ovviamente. Venne, immediatamente, circondato da marpioni di ogni età che fecero a gara per occuparsi di lui.
Ma il ragazzo non rimase a scegliere il suo salvatore. Si alzò di scatto e scappò nella sua cabina.
“Ehi! Torna qui e continua lo spettacolo!” rise la folla.
Tutti applaudirono, mentre la Bestia si ricomponeva.
Una delle Schiave di Melinda, Selena, gli sorrise. Ma Aletta lo trascinò via. Il resto della cricca li seguì nella suite della donna.
“Notevole! Davvero notevole,” commentò Gene.
“Sì! Bravissimo, Al,” seguì Melinda.
Aletta gli stava accarezzando i lunghi capelli, facendoli scivolare tra le dita.
“Perché non hai pisciato addosso a quel piccolo figlio di troia, me lo spieghi?” domandò, cattivo, Amir.
A quel pensiero, Stine e Gene ebbero un brivido. Un caldo fiume giallo su quella puttana capricciosa. Ebbero quasi un’erezione. Ma Aletta divenne cupa. Le era passato il buon umore.
“Già,” disse, poi. “Perché non l’hai fatto?”
L’atmosfera era stata rovinata.
Selena tremò per la Bestia. Non le era mai passata, quella cotta adolescenziale.
“Maddai, su, non ci avrà pensato!” intervenne Melinda. “Mica è un Padrone, lui! Poverino, che ne sa di certe cose?”
Aletta non l’ascoltò.
Tirò fuori il vibratore, ancora sporco.
“Mettiti a quattro zampe. Subito,” ordinò alla Bestia.
Dalle stelle alle stalle, in meno di un minuto.
CAPITOLO SETTE
Al sapeva quale orrore lo attendeva.
Quel vibratore gigante avrebbe riaperto tutte le ferite e ulcere che avevano appena iniziato a cicatrizzarsi. Poi, l’avrebbero curato col ‘SalvaGente’ -panacea all’ultimo grido, in quel di Firokami, pure più famoso dell’Aspirina- che avrebbe guarito la qualsiasi.
Se lo avessero lasciato in pace, per qualche giorno.
Ma non sarebbe andata così.
Gli uomini erano lì per scopargli pure il cranio, passando per l’uretra. Le donne non vedevano l’ora di pisciare su ogni singolo, minuscolo, taglietto che si ritrovava.
Non sarebbe stato nulla fuori dall’ordinario, in tempi normali. Ma era appena caduto in disgrazia. Non aveva sottomesso abbastanza la puttana che aveva aggredito Amir.
E se avessero scoperto che, in realtà, l’aveva aiutato?
Non voleva nemmeno pensare alla caccia che si sarebbe aperta a bordo per trovarlo. E a quello che sarebbe successo, una volta acciuffato.
Il suo Angelo, il suo Amore.
No, non l’avrebbe permesso.
Si inginocchiò, subito, davanti alla sua Padrona. Doveva ingoiare l’orgoglio e implorare.
Non l’avrebbe fatto perché temeva il dolore, ovviamente, ma per salvare quel giovane che lo stava facendo impazzire.
Poteva anche funzionare. Dopotutto, era sempre sull’orlo della narcolessia. Nessuna tortura più lo smuoveva. Quel cambiamento avrebbe acceso qualcosa, nei Padroni. Si sarebbe impegnato. Sarebbe stato Katherine Hepburn.
“Vi prego, mia Signora!” implorò, gettandosi ai piedi della donna. “Lasciate che lo trovi e lo porti qui! Gli piscerò ovunque, lo giuro!”
“E come pensi di fare? In questo momento starà sicuramente piagnucolando nella sua cabina. Oppure, più probabile, si starà facendo consolare da qualcuno. Quindi, te lo richiedo. Com’è che pensi di portarlo qui e finire l’opera, troia?” rispose Aletta, palesemente incazzata nera.
Non aspettò nemmeno la risposta, prima di aggiungere, “Non temere. Il tuo amico gommoso qui presente saprà come stimolarti la fantasia. Magari, la prossima volta, sarai un pochino più creativo.”
Non stava funzionando. Doveva aggiungerci un po’ di Meryl Street, alla sua performance.
“Stasera! C'è un ballo. Parteciperà sicuramente, lo farò lì.”
“Mica male, come idea,” commentò la donna, accendendo il vibratore e provando le varie velocità. “Ma dovremo pur ammazzare il tempo, fino ad allora.”
“Vi soddisferò tutti! Abbiate pietà, non fatelo!” continuò a implorare, giusto per.
La sua idea era stata accettata. L’Efebo era salvo. Doveva solo mantenere la facciata. Cazzo gliene fregava di quel dildo gigante? Aveva visto e provato di peggio. Certo, sarebbe stato inconveniente e scomodo e un’autentica rottura di coglioni. Ma, alla fine, sticazzi.
“Ovvio che lo farai,” sbottò Aletta.
L’approvazione degli altri Padroni era molto, molto, importante per lei.
Come tutti i narcisisti, era insicura.
E come tutti gli insicuri, adorava essere invidiata.
L'ultima cosa che voleva era che qualcuno mettesse in discussione il suo rigore.
Quella col cuore tenero era Melinda. Certo, aveva anche lei la sua bella reputazione. Gli Schiavi maschi non le duravano più di due anni. Li uccideva, tutti, in modi crudeli e disgustosi. Aveva un occhio di riguardo, però, per le Schiave donne. Non la si vedeva mai, senza una ragazza accanto.
Nel frattempo, Aletta stava lubrificando il vibratore. Fissando Al per tutto il tempo. Come stavano facendo tutti i presenti. Quella Bestia umiliata e sottomessa era una visione. Chissà come si sarebbero sentiti umiliati loro, se avessero anche solo sospettato che -quella- era tutta una finta e che la Bestia stava semplicemente ottenendo ciò che voleva!
“Non preferireste frustarmi?”
Alon era carico a pallettoni. Si stupì di se stesso, per quell’uscita.
“Faremo entrambe le cose, stai sereno,” rispose Aletta, cadendo drittadritta nella trappola.
Amir, beato tra il suo Schiavo e quello di Gene, risero di gusto. Stine si concesse un sorriso. Gene, invece, era impegnato con Selena. La toccava, assente, pensando alla prossima orgia.
Alon, sentendosi sempre più Joan Crawford, buttò all’aria la dignità e si aggrappò -singhiozzando- alle gambe della sua Padrona.
“Vi prego! Vi supplico! Vi imploro!”
Cazzo se era convincente!
La donna guardò Amir. Quello, con una scrollata di spalle, puntò il pollice verso il basso. L’Imperatore aveva deciso. Anche Melinda scrollò le spalle. Ma il suo pollice era sollevato. Stine rimase immobile. Voleva vedere l’andazzo, prima di esprimersi e seguire il gregge. Gene abbandonò le grazie di Selena e pollice verso pure per lui. Quindi, anche il gioielliere -da brava pecorella- decise per il no.
“Vedi? Tre contro due, dolcezza,” disse, sarcastica, Aletta.
“Ma così non potrò più ballare,” sussurrò lo Schiavo. Lo fece perché, se avesse parlato a voce alta, molto probabilmente sarebbe scoppiato a ridere davanti a tutti.
“E allora non ballerai, semplice.”
“Perché, poi?” chiese, subito, Amir. “Mica saranno le palle che ti impediranno i movimenti!”
“Nossignore, le palle non mi danno per niente fastidio,” rispose, leggerissimamente preoccupato, Alon. Quell’Amir doveva sempre aggiungere benzina al fuoco, mannaggiallui.
Intravedendo una degenerazione del suo piano, ripassò velocemente il tutto.
Si era umiliato, aveva implorato, aveva singhiozzato.
Cosa mancava? Ma certo! La ciliegina sulla torta.
A quattro zampe, nessuno poteva resistergli.
Aletta fu fin troppo felice di penetrarlo con quella verga di gomma. E glielo dimostrò.
Inesorabilmente, tutti i tagli che aveva nello sfintere si aprirono. Ma quell’eventualità era già stata messa in conto. Al strinse i denti. Ai Padroni piaceva, quando gli Schiavi cercavano di trattenere le urla. Ma, in effetti, gli faceva male.
“Perché sei così silenzioso?” chiese, garrula, la Padrona. Poi, accese il vibratore. E allora sì che Alon urlò. Ma più di sorpresa che altro. Non che la donna sapesse la differenza, comunque.
“Quanto è bello?!” sospirò Amir, ammirando l’Adone.
“Silenzio,” disse Stine, indicando Aletta.
“Cosa?” chiese Amir.
“Sembra proprio che la nostra ragazza preferita stia piangendo,” ridacchiò il gioielliere.
Aletta lo sentì, si rese conto di stare veramente piangendo e -imbarazzata- si alzò. Stine approfittò di tale défaillance per spogliarsi alla velocità della luce e lanciarsi sul povero Alon. La noia.
“Manca qualcosa,” disse. E, sempre molto innovativo, incominciò a pisciare sul viso dello Schiavo. Di nuovo. Nemmeno lui sapeva il motivo, ma adorava farlo. Con la Bestia, più che con chiunque altro.
Amir, ammirando la scena, si sentì legittimato a sdraiarsi sul pavimento e afferrare i testicoli di Al. Subito, iniziò a graffiare e tirare e strizzare.
Le signore non furono da meno. Aletta -asciugatasi le lacrime- prese a calci la schiena di quello Schiavo, così impertinente da averla fatta piangere. Melinda la seguì a ruota. Lo sapeva che ci sarebbe stata una buona ragione per indossare quegli scomodissimi tacchi a spillo, quando li aveva scelti la mattina! Mirò proprio alla spina dorsale. Poi, si girò verso le sue Schiave e ordinò, “Fatevi scopare da qualcuno. Chiunque andrà bene.”
Ma non controllò di essere stata effettivamente obbedita.
Stine, alla parola scopare, reagì di conseguenza. Si inginocchiò e sbatté il cazzo in gola ad Alon.
Il poveraccio aveva l’inguine in fiamme. Quando quasi soffocò a causa di quell’uccello mal-lavato, cercò solo di farlo venire il più in fretta possibile.
“Vedete di spingere quel vibratore più a fondo!” ordinò Aletta, mentre lo Schiavo di Gene l’accarezzava. Ma era Alon che guardava. Non l’avrebbe mai ammesso, ma quella Bestia la eccitava da morire. Nessuno era come lui, nell’intero Universo. O, almeno, a Firokami. Che per lei equivaleva alla stessa cosa.
Amir non si fece ripetere l’ordine due volte. E, senza smettere di tirare lo scroto di Alon, gli forzò il vibratore ancora più in profondità. Bruscamente, il pezzo di gomma sparì tra le natiche dello Schiavo. Alon urlò. O, meglio, ci provò. La sua gola era troppo impegnata per emettere alcun suono. In compenso, ingoiò ancora di più l’intera lunghezza del Padrone. Il quale non aveva la minima intenzione di venire così velocemente. Anzi, afferrò un frustino e lo colpì in faccia. Stine, la solita pecora, afferrò la prima frusta che vide e copiò il socio. Lo Schiavo si coprì automaticamente il volto, ma i Padroni non volevano sentire ragioni.
“Non osare!” sibilò Amir, continuando a tirargli i testicoli martoriati.
Lo Schiavo ululò -per finta- di dolore, ma non tentò più di evitare i colpi. Primo, era stato un riflesso condizionato. Secondo, c’era Selena. Sapeva che se la sarebbero presa anche con lei. Quell’Anima buona lo guardava, triste, mentre Gene la insozzava. E al Padrone non andò giù.
“Che cazzo è che c’hai, cogliona?” le strillò.
Non si accorse dello sguardo tra i due Schiavi. Figurarsi se avesse perso tempo con le relazioni che gli Schiavi avevano fra di loro! Però, vide cosa Amir stesse combinando e gli chiese, “Ma che fai?”
“Voglio inchiodargli le palle a terra,” rispose quello, come fosse la cosa più normale del Mondo. “Così la smette di agitarsi!”
Gene sorrise, maligno.
“Così ogni volta che vorremo giocarci, non potrà scappare,” sghignazzò. “Inchiodaglieli al comodino, dai!”
Amir aveva già i testicoli in posizione, quando lo Schiavo urlò. E lo fece più forte che mai. Ma che cazzo di porcate si stavano inventando, con i suoi testicoli, quegli psicopatici?!
Stine, ben lontano dal climax, non apprezzò che quella gola così esperta si fosse liberata della sua sacra verga. E fece schioccare la frusta, ma sul pavimento. Aveva visto che lo Schiavo non c’entrava assolutamente nulla. Sapeva essere magnanimo e giusto. Qualche volta. Quindi, se la prese coi colleghi.
“Amir!”, esclamò, irritato. “Smettila di far cazzate a cui non frega una mazza a nessuno!”
Gene scoppiò a ridere, scuotendo la testa.
“Smettila tu! Gli vuoi rovinare la faccia, per caso? Come farà a sedurre qualcuno, stasera?”
“Non deve sedurre! Deve umiliare! Deve sottomettere! Da quando si ha bisogno di un bel faccino, per farlo?”
Alon, approfittando della distrazione, si lanciò sulle gambe di Gene. Le abbracciò strette e, nel mentre, il vibratore si mosse. Fu un dolore immane, ma pensò di sfruttarlo per aggiungere pathos alla sua supplica.
“Vi prego, Padroni, vi supplico! Non fatelo! Non mi muoverò più, lo giuro!”
E, a pensarci bene, avere i coglioni inchiodati -che fosse a un comodino o a una libreria- poteva essere seccante.
“Beh,” ponderò, o finse di farlo, il Padrone. “Per umiliare qualcuno, è necessario avvicinarsi. Giusto? E il nostro micetto potrebbe scappare. Io lo farei!”
“Ha due scelte. Accettare il suo destino o gettarsi in Mare aperto,” disse Stine. Subito, sollevò la mano per colpire lo Schiavo ai piedi di Gene. Ma si fermò.
Alon piangeva. Un altro riflesso condizionato, legato al fatto che Amir aveva appena trafitto il primo testicolo con un chiodo d’argento.
“Oh, ma guarda,” commentò Gene. “Sembra proprio diventerai parte dell’arredamento. Ma a che pro, Amir? Voglio dire, non potrà nemmeno prepararci un caffè! Resterà lì per sempre? Che spreco!”
“Mi spieghi per quale stracazzo di motivo critichi sempre ogni mia iniziativa?! Ti lamenti, ma non mi sembra tu abbia chissà quale idea originale da proporre!” sbottò Amir.
E si distrasse dalla delicatissima operazione che stava compiendo. E il martello colpì troppo forte. Un fiotto di sangue caldo lo colpì. Alon ruggì. Strinse le gambe di Gene, quasi facendolo cadere, e si pisciò addosso.
No buono. Il Padrone si rese conto che stavano per giocarsi lo Schiavo del secolo. Con un sussulto, afferrò il martello da Amir ed estrasse il chiodo dal testicolo della bestia. O, almeno, da quello che ne era rimasto.
“La lezione è finita,” disse, poi, prendendo Alon per i capelli e trascinandolo in camera da letto.
“Cos’è? Salti la fila?!” gli disse Stine.
“Ma che cazzo ne so,” sospirò Gene.
Stine scoppiò a ridere.
“mA cHe CaZzO nE sO!1!1!” lo scimmiottò.
La diceva sempre, quella frase.
“Okay,” si rivolse a Selena. “Adesso dimmi perché a Gene non sei piaciuta.”
La ragazza cominciò a piangere.
Non voleva far arrabbiare Padron Stine, ma lui la terrorizzava.
Tutti loro la terrorizzavano.
E tutti loro la circondarono, non lasciandole alcuno scampo.
***
Gene, nel frattempo, gettò Alon sul letto.
“Ma che caz- arrampicati! Fai qualcosa! Mica ti ci devo mettere io, qui sopra!”
“Grazie! Grazie, Padron Gene! Grazie non avermi fatto tagliare i testicoli! Mi avete salvato! Grazie!”
Alon era nel panico. Talmente tanto, che continuò a stare nel personaggio.
“Oh, non c’è di che. Cos’è che volevo fare, invece di tagliarteli? Bah, levati questo cazzo di vibratore dal culo! In fretta! Stai tremando tutto, mi si stacca la testa a vederti così!”
Il Padrone aveva aperto una bottiglia di Cognac, versandosene un bicchiere. Poi, guardò lo Schiavo.
“Non dirmi che non puoi farlo da solo? È un vero peccato!”
Alon guardò quel Padrone che prima lo salvava e poi non lo aiutava. Continuando a non capire, gli rivolse il suo miglior sguardo da cucciolo bastonato. Inutilmente.
“Allora, cos’è che volevo fare?”
Gene era pensoso. Buttò giù il liquore. Subito dopo, si inginocchiò sul letto e -di botto- tirò via il vibratore. La reazione di Alon fu, semplicemente, venire.
“Gli altri Padroni volevano tagliarmi i testicoli e farci una vagina,” sussurrò lo Schiavo, tra gli spasmi di piacere.
“Oh, e di certo tu -questo- non lo vuoi,” disse, sarcastico Gene.
E via con un altro sorso di Cognac, direttamente dalla bottiglia. Dopo, la guardò. Ed ebbe un’idea. Si versò il contenuto sulla mano e iniziò a strofinare le ferite della meravigliosa creatura che giaceva di fronte a lui. Tale creatura non mosse un solo muscolo. Principiante.
“Avete ragione, Padrone. Non lo voglio,” disse, la voce roboticamente calma.
“E perché mai? Su quali basi tu, uno Schiavo, non vuoi qualcosa?” gli chiese l’altro.
“Credo che un culo sia più stretto di una figa, Padrone.”
Logica ineccepibile.
“Non lo so,” disse Gene, con falsa noncuranza.
Quello Schiavo, però, ci aveva preso di brutto! Ma non poteva certo ammetterlo. Aveva una reputazione, lui. E se avesse parlato? Non poteva rischiare.
“Magari, invece, è anche meglio! Dovremmo provarci.”
Alon ci mancò poco sbadigliasse. Si fermò a metà e tramutò lo sbadiglio in un’espressione spaventata. Il Padrone ne sembrò molto soddisfatto. Quel viso era bello sempre, nonostante le ferite.
“Ma nessuno, poi, ti rimetterebbe a posto. Inoltre, la tua Padrona è una donna. Etero, per di più. Che ci fa un’etero con una vagina, quando può avere il tuo culo?”
Poi, sbuffò.
“Sai che? Io mi sono veramente ma veramente rotto i coglioni di vedere ogni volta la stessa scena! Ogni cazzo di volta ti sfondano il culo! Sei sempre martoriato, là sotto!”
E osservò lo scempio che la Compagnia aveva causato, non vedendo l’espressione da e-che-non-lo-so della Bestia.
“Ma ormai il danno è fatto. Che posso farci?”
Gene si sedette sul letto, fissando il volto di Alon.
Alon, dopo trent’anni di esperienza, non sapeva come trattare quel Padrone così strambo e lunatico. Quindi, andò a braccio. Poteva essere che fosse uno di quei finti alternativi che solo perché tutti fanno una cosa, lui no perché non deve mischiarsi alla massa. Ma, sottosotto, ha le stesse voglie e gusti di tutto il resto del gregge. Di solito, a quelli così, piacciono le bionde con gli occhi azzurri. L’originalità.
“Se mi permettete, Padron Gene, potrei cavalcarvi. Non sentirete affatto che ho il culo sfondato.”
Ci aveva preso? Chissà.
“È mica la prima volta che ti scopo?” chiese quello. “Lascia stare, ti farebbe male e non per merito mio. Digrignerai i denti, a causa dei tagli. Inoltre, dopo quel mostro di gomma, devi essere larghissimo. E non puoi nemmeno succhiare! Non con una faccia così!”
Sbuffò. Era stanco, annoiato. Si sentiva tradito, quasi offeso, dalla vita.
“Che devo fare? Restituirti? Lasciare che ti inchiodino a un tavolo? Che ti frustino in faccia?”
Eccola, la reazione. La tipica reazione. Alon non sbagliava mai a giudicare un Padrone.
“Farò qualsiasi cosa, Padron Gene! Qualsiasi!” lo implorò Alon, sapendo che era quello che ci si aspettava.
Erano tutti così pallosi.
“Tipo? Cos’è che potresti fare? Sentiamo.”
“Sdraiatevi, mio Signore,” suggerì, seducente. “Giuro che non digrignerò i denti.”
“Lo farai senza accorgertene, è un riflesso,” rispose Gene. Però, ovviamente, ci si sdraiò eccome sulle lenzuola. Patetico. Faceva solo perdere tempo, con quei capricci.
Però, fece qualcosa di inaspettato. Si rialzò subito.
“Prima, facciamo qualcosa per questa faccia. Stai qui.”
E si allontanò. Lasciando un Alon basito. Che si fosse sbagliato? Macché, sicuro andava a prendere uno spaccadenti o qualche altro attrezzo bondage.
Ma la Bestia si sbagliava.
Di Nuovo.
Gene era andato a cercare un SalvaGente. Quello Schiavo ne aveva un enorme bisogno. Rientrò nel salotto, dove i suoi colleghi erano tutti presi dall’orgia più triste della storia. Sollevò gli occhi al cielo. Sempre lo stesso teatrino.
Una volta tornato in camera, si occupò delle abrasioni di Alon. Ogni tanto schioccava la lingua. Lo Schiavo non si mosse mai. Era troppo scioccato per qualsiasi cosa. Ma veramente lo stava medicando?! Stava dormendo? Era morto e quella era una sorta di anticamera per l’Inferno?