Kitabı oku: «La Fine Del Cammino», sayfa 4
VERA
Finalmente ho finito il giro. Sono distrutta, ma so che potrebbe andare molto peggio. Nel mio reparto, maternità e neonatologia, mi occupo di mamme e bambini piccoli. È meglio che avere a che fare con altri tipi di pazienti e, anche se quando capita qualcosa di brutto è una vera tragedia, il più delle volte il mio lavoro mi piace.
Vado nella stanza delle infermiere per prendere le mie cose, fare il check-in e tornare a casa. È la fine del mio turno. Penso a cosa prepararmi per cena. Non ricordo se è rimasta insalata in frigo o se l'ho già mangiata tutta, e non ricordo se nella credenza ci sono delle scatolette di tonno. All'improvviso, non appena esco per prendere l’ascensore, qualcuno mi chiama per nome. Ottimo.
"Vera l'infermiera!" sento esclamare alle mie spalle. Automaticamente divento rossa come un pomodoro. "Bene, ci incontriamo di nuovo!" Alejandro, l’interno che ho incontrato qualche giorno fa in corridoio e che è stato tanto gentile con me, mi sorride nella sua uniforme blu.
"Ciao, sì ... come stai?"
"Beh, stavo per andare a mangiare qualcosa in mensa. - mi dice - Mi fai compagnia?"
Mentirei se dicessi che non avevo pensato di farmi un panino, prima di tornare a casa e, comunque, mangiare un boccone con Alejandro potrebbe essere una buona idea. Lui mi piace, mi piace e mi sento stranamente a mio agio in sua compagnia. Insomma, come può sentirsi bene una come me con un bonazzo come lui.
Sono rimasta in silenzio troppo a lungo. L'ascensore è arrivato al mio piano e ha aperto le porte. Alejandro entra e mi sorride in quel suo modo adorabile.
"Andiamo." dice, e finalmente mi decido a seguirlo.
Lungo la strada non smette di parlare animatamente. Mi dice che gli piace molto il suo tirocinio in pediatria. Quando ha iniziato a frequentare Medicina aveva pensato di specializzarsi in Traumatologia e Ortopedia, cioè Medicina Interna. Poi si è accorto che la chirurgia era un campo interessante, ma troppo competitivo, non adatto al suo carattere tranquillo e positivo. Ma l’esperienza che sta facendo in pediatria lo sta portando a dirottare là i suoi passi, visto che gli piacciono i bambini.
Senza che io abbia detto neanche una parola siamo già arrivati in mensa. Alejandro prende un vassoio e inizia a riempirlo di patate, barrette energetiche e frutta. Arriviamo ai panini e lui ne sceglie uno con la frittata, mi guarda e sorride di nuovo.
"Prendi pure quello che vuoi, offro io."
"Grazie."
Scelgo un panino alle verdure e una lattina di tè freddo al limone, lui invece prende una Coca-Cola. Oggi rimane in ospedale fino a tardi.
Ci sediamo a un tavolo e lui comincia a mangiare il suo panino. Io, invece, ho lo stomaco completamente chiuso, anche se cerco di sbocconcellare qualcosa per educazione.
"E dimmi, – continua lui - da quanto tempo lavori qui?"
"Due anni." rispondo.
"Sempre in Maternità?"
"No, prima di arrivare a questo Ospedale ho lavorato del tempo in una Casa di Cura, e poi qui mi sono fatta qualche mese di Psichiatria."
"Interessante!"
"Non mi è piaciuto."
"E perché?"
Rifletto un attimo su cosa rispondere e cerco di ricordare il tempo trascorso nel mondo delle malattie mentali. Non sono mai stato brava a trattare con le persone, ho un carattere un po’ introverso e i malati psichiatrici sono spesso imprevedibili. Non mi piaceva dover stare sempre all’erta, con l’ansia che potesse succedere qualcosa di anomalo da un momento all’altro.
"Mi dava troppa ansia." alla fine rispondo.
"Capisco."
Sembra che davvero Alejandro abbia capito, nonostante la mia breve spiegazione. Sorrido, felice di aver accettato di pranzare con lui.
A poco a poco, mentre mangiamo, i discorsi si fanno più personali. Alejandro mi racconta che è in città da poco tempo e ancora non conosce nessuno, molto strano visto che è una persona così estroversa. Condivide un appartamento nei paraggi con altri due colleghi, ma non ci va molto d’accordo. Forse la convivenza forzata frena la nascita di un’amicizia e crea momenti di attrito.
"Io invece vivo da sola. – mi trovo a dire, ed è molto raro per me aprirmi così con uno sconosciuto - In un monolocale."
"Anche tu vieni da fuori?"
"No, sono nata qui e cresciuta qui." In effetti, non mi sono mai allontanato da questa città.
"Hai una famiglia?"
"Sì, i miei genitori e due sorelle più grandi di me."
"Wow!" esclama, finendo il suo panino e aprendo un sacchetto di patatine. "Una bella famiglia. Perché non vivi con loro?"
"Mi piace stare da sola."
Mi rendo conto che suona male, ma è la verità. Quando sono riuscita ad ottenere un posto in ospedale, facevo la spola da casa mia al reparto. Le mie sorelle erano già uscite di casa, prima Victoria e qualche anno dopo anche Violeta. Poco più di un anno fa ho deciso che anch'io volevo vivere la mia vita, e la casa dei miei genitori è molto lontana dall'ospedale, quindi quando ho trovato questo monolocale non ho esitato ad affittarlo. È il posto ideale, per una come me.
"So che a questo punto può sembrare una domanda un po’ banale, ma ti va di uscire insieme, qualche volta?"
Mi soffoco con un sorso di The e comincio a tossire. Le guance mi bruciano e so che devo essere diventata tutta rossa.
"Beh…"
"Niente d’impegnativo, come amici." Si affretta a dire lui. Sorride per il mio imbarazzo. "Come dicevo non conosco molta gente, qui."
"Perché no, mi farà piacere." rispondo.
***
La strada di ritorno verso casa mi sembra molto più breve, stasera. Cammino sempre a piedi, tranne quando piove, cosa che non accade molto spesso in questa città.
Quando finalmente varco la soglia del mio monolocale, un senso di calore m’invade. Flor, la mia gatta korat grigio cenere, mi corre incontro. L'ho adottata nove mesi fa.
"Ciao piccola, - la saluto - com'è andata la giornata?"
Flor miagola piano e mi strofina la schiena contro la gamba. Le gratto un po' la testa e appoggio il cappotto e la borsa sul divano, prima di andare in cucina ad aprirle una scatoletta di pappa. Sono in ritardo di più di un'ora, immagino che la poverina avrà fame. Mentre Flor mangia, vado in bagno. L'acqua calda della doccia mi rilassa e rimango lì più tempo del previsto. Quando esco mi metto il pigiama, mi lavo i denti e mi preparo a finire di leggere il mio romanzo a letto, dove Flor si è già raggomitolata in mia attesa.
Non ho ancora sonno, la giornata è stata densa di emozioni per me, ma quando mancano solo poche pagine per arrivare alla fine dell'appassionante storia d'amore tra Lord Gavin e Lady Sophia le palpebre mi si fanno pesanti, così chiudo il libro, spengo la lucetta sul comodino e mi sdraio, con Flor già addormentata accanto a me. Non ci metto molto ad addormentarmi anch’io e sono ancora sprofondata nel sonno quando il suono del mio cellulare mi fa svegliare di soprassalto.
Sono le nove. Oggi è venerdì ed è il mio giorno libero. Chi può essere?
"Pronto?" rispondo senza neanche guardare sullo schermo chi è, e dall’altra parte del telefono mi arriva la voce di Violeta.
"Spero di non averti svegliata."
"No, ero sveglia…- mento - Che c’è?"
"Si tratta di Victoria. Devi venire a casa sua appena puoi."
Violeta mi ha assicurato che Victoria sta bene e che non si tratta di nulla di grave, ma non ha voluto dirmi di cosa si tratta. Mi vesto in fretta, lascio a Flor una ciotola con l'acqua e un’altra con il cibo, e mi dirigo a casa di Victoria, che dista una quarantina di minuti di autobus dal mio monolocale. Durante il viaggio non riesco a smettere di chiedermi che cosa può essere successo di così grave, da costringermi a mettermi in pullman alle nove e mezza di domenica mattina. Magari è incinta? No, non credo. Meno di una settimana fa ci ha detto che il test era negativo. Quando finalmente arrivo a casa sua, mi apre la porta Violeta. Sembra stanca ed è evidente che ha passato lì tutta la notte. Indossa uno dei pantaloni da tuta di Victoria e una larga maglietta, di quelle col marchio pubblicitario sul davanti. Ha i capelli castani tutti arruffati e il suo colorito, di solito ambrato, oggi è piuttosto pallido.
"Entra, siediti. "mi dice. Comincio a innervosirmi.
"Vuoi dirmi che succede? Dov'è Victoria?" A questo punto, muoio dalla voglia di sapere.
"Sta ancora dormendo."
"Ma, sta male?"
Violeta si siede sul divano e mi guarda con la stanchezza riflessa nei suoi occhi color miele.
"Carlos l'ha lasciata." sussurra.
È una frase semplice da afferrare, ma io sul momento non capisco.
"Come?"
"Ha un'altra donna, ha una relazione con lei da molto tempo e Victoria l'ha scoperto solo due giorni fa. – mi spiega lei – Lei ieri sera lo ha messo alle strette e lui ha confessato tutto. L’ha buttato fuori di casa per la rabbia, e ormai credo che non ci sia più nulla da fare."
Una folla di domande mi esplodono nella testa. Come è possibile? Perché è successa una cosa del genere? Ma la più importante è quella che faccio ad alta voce.
"E Victoria come sta?"
Violeta sospira.
"Non sta bene, ovviamente. – risponde - Stanotte ha pianto fino alle tre. Poi le ho dato un sonnifero e alla fine si è calmata. Non lo so quanto dormirà ancora, comunque io devo andare a lavorare. Si tratta di una cosa importante, altrimenti mi sarei preso la giornata libera."
"Ok, resto io, ma …" inizio a dire.
Violeta mi guarda e le parole mi si strozzano in gola.
Per me, il matrimonio di Victoria con Carlos è sempre stato un esempio da seguire. Li ho sempre visti come la coppia perfetta: matura, equilibrata, innamorata ... Nessun litigio o cose del genere. Avevo sempre sperato di fare un matrimonio così, un giorno…
"Ascolta, Vera. - mi dice mia sorella, che ha intuito quello che mi passa per la testa – la cosa grave per Victoria non è tanto che Carlos se n’è andato, quanto il fatto che non si era mai accorta di questa relazione. Questa notte ha perso tutto i suoi punti di riferimento, ha visto scomparire tutto ciò in cui credeva, e non sa più cosa aspettarsi dal futuro... È arrabbiata con se stessa e a pezzi, e io non so cosa potrebbe fare, in un momento come questo."
"Che vuoi dire?"
"Voglio dire che non devi perderla di vista per un solo momento. Non lasciarla sola nemmeno se deve andare in bagno, capito?"
Non posso credere che Violeta alluda a ciò che sto pensando.
"Non penserai mica che voglia suicidarsi! – esclamo – Ma come ti viene?"
"Io non lo so che cosa può succedere – risponde - e nemmeno tu, quindi ascoltami."
A malincuore ammetto che ha ragione, anche se la cosa mi sembra assurda.
Violeta mi fa un cenno con la testa e, senza alcun pudore, si spoglia completamente, poi va in camera sua a prendere i vestiti e torna in salotto a vestirsi.
"Ma come si può essere così bastardi!" urla, mentre io cerco di abituarmi mentalmente all’idea. "Ecco perché non voglio nessuna relazione seria, i maschi sono sempre bugiardi e traditori. Cavolo! Dieci anni di matrimonio perfetto e bastano un bel viso e un paio di tette per rovinare tutto!"
"Forse…" provo a dire.
Violeta finisce di abbottonarsi i jeans e mi guarda.
"Cosa?"
"No, niente…"
"Ti chiamo dopo. - dice, afferrando la borsa e il cappotto – Ci vediamo stasera."
La porta si chiude alle mie spalle e io resto lì sul divano, completamente devastata. Di fronte a me, sullo scaffale contro il muro, la foto del matrimonio di Victoria e Carlos cattura la mia attenzione. Non riesco a evitare di scoppiare in lacrime.
CAPITOLO TRE. FUTURO INCOGNITO
VICTORIA
Riemergo lentamente da un sonno profondo indotto dal sonnifero che ho preso stanotte. Per fortuna, non ho sognato niente.
Quando apro gli occhi, ho visto la stessa cosa che vedo ogni mattina: il mio comodino con la sveglia col quadrante rotondo e i numeri al led, la lampada, il comò e, dietro, il muro bianco. Mi ci vuole un po’ per fare mente locale perché, malgrado intorno nulla sembra diverso, so che la mia vita è cambiata per sempre. Mi giro lentamente sul fianco e mi rendo conto che sono sola a letto. Il lato di Carlos è freddo e sento di nuovo le lacrime riempirmi gli occhi.
Fa male, fa male, e il dolore aumenta col passare delle ore.
Mi ci vuole uno sforzo sovrumano, ma mi alzo. Mi infilo le pantofole e vado in bagno. Poi qualcuno compare in mezzo alla stanza, chiamandomi per nome.
È Vera. Non me lo aspettavo, ma suppongo che Violeta avesse degli impegni di lavoro.
"Ciao. – mi sussurra la mia timida sorella. È chiaro che non sa come comportarsi.
"Te lo ha detto?" le dico, e la mia voce è roca e priva di vita.
"Sì. – risponde - Dove vai?"
"In bagno."
Vedo che la mia sorellina è sospettosa, ma non osa muoversi.
"Non preoccuparti, non mi chiudo dentro. – cerco di rassicurarla – Stai tranquilla."
Vado in bagno, lasciando la porta aperta, per non far impazzire Vera dall'ansia. Apro l’acqua del rubinetto e mi lavo la faccia. L'acqua fresca mi aiuta a tornare alla realtà.
Mi guardo allo specchio e vedo una donna uguale a ieri: capelli castani di media lunghezza, occhi azzurri come il cielo, pelle chiara e quelle prime zampe di galline che minacciano di imbruttire qualsiasi viso, anche se bello... Sembro la stessa persona che ero qualche giorno fa, ma so che dentro di me tutto è cambiato. Mi ci vorrà un bel po’, per abituarmi a questa nuova Victoria.
Ho mal di testa. Apro l'armadietto delle medicine per cercare un'aspirina, poi i miei occhi si posano su una scatola che conosco molto bene. L'ho comprata pochi mesi fa. Una da quattro, convinta che non ce ne sarebbero voluti di più, e su questo non mi sbagliavo, non ce n’è proprio bisogno. La prendo, e in un gesto che vorrebbe essere di rabbia la butto nella spazzatura, ma so che ciò che mi spinge a farlo non è la rabbia, ma la disperazione e una incredibile stanchezza.
Quando esco, Vera è ancora lì in mezzo al soggiorno. Alla fine si rilassa quando mi vede ancora viva.
"Come…? "inizia a dire. La interrompo.
"Non voglio parlare, voglio solo che ci sediamo sul divano e accendiamo la televisione."
E così facciamo. Vicine vicine, ci sediamo sul divano blu, quello che ho fatto fare proprio per questa casa. Accendiamo la televisione che ci ha regalato la banca la prima volta che abbiamo acceso il mutuo, e restiamo sedute in silenzio per ore. Povera Vera, che deve prendersi cura della sorella maggiore, disperata per l'abbandono del marito...
Non so dopo quanto tempo Vera finalmente si alza e mormora che va a preparare qualcosa da mangiare. Non ho fame, ma non dico nulla. La sento aprire il frigorifero, esaminarlo, scegliere quello che ha deciso di cucinare e mettersi al lavoro. Tuttavia, qualcosa la interrompe a metà. Il campanello della porta suona e, dal modo in cui lo fa, qualcosa dentro di me comincia a urlare.
Vera si avvicina alla porta e guarda dallo spioncino. Impallidisce di colpo, ma io sapevo già che era lui.
"È Carlos! – mi sussurra –Che faccio?"
"Io vado in camera mia."
Non voglio vederlo e per fortuna mia sorella afferra al volo. Mi alzo di corsa e mi chiudo nella camera che per dieci anni ho condiviso con mio marito, con quell’uomo che ora è fuori della porta di una casa che non sarà mai più nostra, mai più, mai più…
Pensavo che non sarei riuscita a sentire cosa si sarebbero detti, ma l'appartamento è piccolo e le pareti sono sottili.
"Sono venuto a prendere delle cose che mi servono per il lavoro." dice Carlos. Il suo tono e la sua voce mi graffiano dentro.
"Per favore, fai presto." gli dice timidamente Vera.
Sento dei passi, qualcuno apre un cassetto nella scrivania del soggiorno. Documenti, per lo più sento un rumore di carte che vengono infilate da qualche parte. Poi un breve silenzio.
"Come sta?" chiede Carlos. Nella mia stanza soffoco un singhiozzo.
"Male." risponde Vera, e la sua voce è più alta di prima. È molto arrabbiata. Da fuori nessuno lo direbbe ma io che la conosco lo capisco, è furiosa. E chi non lo sarebbe?
"Lo so e mi dispiace."
"Non ci credo che ti dispiace."
Sento un sospiro e qualcuno che crolla sul divano. So che è lui. Mi viene la voglia di uscire e buttarlo di nuovo fuori casa, ma so che non riuscirei a guardarlo negli occhi senza scoppiare a piangere.
"Perché l'hai fatto, Carlos?" mia sorella gli chiede, dolcemente. So che voleva bene a Carlos come un fratello e che ora si sente profondamente delusa da lui.
"Non capiresti." risponde lui.
"Provaci.".
"Mi sentivo in trappola, Vera. - lo sento rispondere - Mi sento tremendamente in colpa per quello che ho fatto, ma anche molto sollevato. Non so perché, eppure è così. Se non riesco a capirmi io, come puoi farlo tu?"
Vera adesso ha la voce cattiva e, per la prima volta nella sua vita, sembra davvero furiosa.
"Provaci." ripete.
"Amavo tua sorella, e la amo ancora. – prova a spiegare Carlos - Siamo stati sposati per dieci anni e un matrimonio come il nostro non può essere cancellato in un attimo, eppure è successo. Eravamo in stallo. Non c'era più passione, nemmeno vero amore, solo desiderio di un figlio. Un figlio che, inconsciamente, potesse ricucire un matrimonio che stava andando in frantumi. Non so se questo abbia accelerato le cose oppure no ... Io non volevo che finisse, davvero, ma poi ho incontrato un’altra."
"Posso capire che c'erano problemi, che avere un bambino non era la soluzione, anche che il vostro matrimonio non aveva futuro - esclama Vera, seriamente incavolata - ma tu l'hai tradita! E per mesi! Come puoi giustificare una cosa simile?"
Carlos si alza dal divano e si mette a camminare nervosamente per il soggiorno.
"Non è come pensi, non l’ho tradita, non sono mai andato a letto con quell’altra. Mi sono innamorato. Abbiamo dormito insieme, è vero, ma nient’altro. Non ci siamo mai nemmeno baciati.
"Anche questo è tradire. – esclama Vera - Tu l'hai ingannata perché non le hai mai detto nulla, anzi hai mandato avanti la cosa per mesi. Hai continuato a farle credere che l’amassi, che volevi allargare la famiglia, e invece eri innamorato di un’altra. E cosa avresti fatto, se mia sorella fosse rimasta incinta?"
E allora Carlos mi affonda l'ultima pugnalata nel cuore.
"Non poteva rimanere incinta. –dice – Mi sono fatto visitare, ho fatto delle analisi. Non posso avere figli, almeno non naturalmente. Senza delle cure specifiche non sarebbe mai stato possibile per Victoria concepire."
Silenzio. Vera deve essere perplessa, proprio come me. Ci vogliono alcuni secondi perché mia sorella parli di nuovo.
"Se hai preso tutto quello che ti serve, vattene e non tornare mai più. - la sento dire - Forse qualcuno alla fine ti capirà e ti perdonerà, ma non io. Per me sei solo un mostro, quello che ha distrutto la vita di mia sorella, e non ti perdonerò mai."
Nessuno dei due dice altro. Ancora rumore di passi, la porta che si chiude e infine l'ascensore.
Poco dopo Vera bussa piano alla porta della mia camera da letto. Mi asciugo le lacrime ed esco.
"Stai bene?"
"No, ma grazie lo stesso." rispondo.
So che le parole di Vera lo hanno ferito, che anche Carlos l'amava come una sorella e che adesso ha realizzato di avere perso una famiglia. Sono contenta.
VIOLETA
Odio lavorare sotto pressione. Chiunque lo capirebbe sapendo che mi dedico a una delle professioni più stressanti che esistono, ma per me il lavoro non è qualcosa di pesante o impegnativo, non lo è mai stato in condizioni normali, ma questa volta non posso dire di stare lavorando "in condizioni normali ".
Lascio in pace la mia squadra per un po', sapranno come cavarsela per qualche minuto mentre prendo un caffè e chiamo Vera. Sono preoccupata per Victoria.
Dopo tre squilli, la mia sorellina risponde al telefono.
"Come va?" chiedo, un po’ a disagio.
"Adesso meglio - risponde Vera -ma poco fa è venuto Carlos."
Cavolo! Quanto mi sarebbe piaciuto essere lì!
"E che voleva?"
"Delle carte, per il lavoro."
Attendo pazientemente che la mia sorellina, avara di parole come sempre, mi faccia il resoconto di quello che è successo.
"E poi?"
La sento muoversi per andare a chiudere la porta. Immagino che non voglia che Victoria senta quello che ci diciamo.
"Ha provato a giustificarsi, – mormora lei, dall’altro capo del telefono - dice che in realtà non l’ha tradita."
"Che faccia di bronzo!" urlo, incapace di controllare la mia rabbia. "Come definirebbe uno che scopa con un'altra?"
"Dice che non l’ha ... fatto."
"Sì, raccontala a un’altra!"
Vera abbassa la voce.
"Ha anche detto che non può avere figli".
Apro la bocca in preda allo stupore e cerco di mettere a tacere l’urlo di rabbia che mi sale dalle viscere.
"E quando diavolo aveva intenzione di dirlo a Victoria?" esclamo.
"Non lo so, Violeta. Anch'io sono furiosa ... Gli ho detto di non farsi vedere più."
"Hai fatto bene. - dico, cercando di sopire la mia rabbia. - Ora ti lascio, ho parecchio da fare, qui."
"Non ti preoccupare, resto io fino a che non torni."
La saluto velocemente e riattacco. Ho appena visto Pablo Sandoval lasciare l'ufficio di Lorenzo e sto pensando che è il momento di fare quattro chiacchiere con lui... Non ho idea di cosa abbia in mente quel bastardo, e la cosa mi fa andare in bestia. Cerco sempre di capire cosa gira in testa alla gente.
Mi assicuro che si stia dirigendo agli ascensori, pronto a scendere, e capisco che quello è il momento. Poco prima che le porte del suo ascensore si chiudano, le blocco con il braccio e salto dentro. Ora Pablo Sandoval è in trappola, ma il viaggio sarà breve e quindi devo essere molto coincisa.
"Cos’hai contro di me?" gli chiedo, senza perifrasi...
Lui ha avuto a malapena il tempo di capire che mi ero fiondata in ascensore, figuriamoci se ha potuto prepararsi una risposta. Noto che per un attimo la sua maschera arrogante e dominatrice sembra vacillare, ma si riprende subito.
"Sei patetica! – esclama con disprezzo – Davvero non ti ricordi?"
Questa risposta è come uno schiaffo in faccia. Ricordare…cosa? Purtroppo non sono più in una posizione di vantaggio, ora sono io quella che si sente confusa e disorientata.
L'ascensore arriva al piano terra con un piccolo sobbalzo e le porte si aprono. Sandoval mi lancia uno sguardo di ghiaccio con quei suoi occhi neri e si avvia, a testa alta, verso l'atrio del palazzo. Lo seguo, sentendomi molto a disagio e anche incazzata.
"Dove vai? -gli grido dietro - Come ti permetti di offendermi così? Non mi conosci nemmeno!"
Lui è già arrivato in strada e io continuo ad inseguirlo. Questa volta non gli permetterò di piantarmi in asso.
-Ehi, tu!" - continuo a urlare - Ma dove scappi?"
Lui si ferma di botto, così all’improvviso che quasi vado a sbattere contro la sua schiena. Per fortuna sono riuscita a fermarmi in tempo. Si volta verso di me e i suoi occhi non sono più di ghiaccio, ma pieni di fuoco.
"È buffo che proprio tu mi dici di non scappare." sibila.
Io sono ancora più confusa.
"Non capisco una parola di quello che dici! – esclamo – Potresti spiegarti meglio?"
"Quando ti ho visto il primo giorno che sono venuto qui ero furioso perché pensavo che non sarebbe stato simpatico lavorare insieme, dopo quello che era successo tra noi…- mi dice, senza che io afferri una sola parola – Ma poi ho capito che non mi avevi riconosciuto, e la cosa mi ha fatto incazzare ancora di più."
"Come facevo a riconoscerti se non ti avevo mai vi…"
Oh no! Improvvisamente ricordo tutto! È vero, lo conosco, anche se sul momento non lo avevo riconosciuto. Merda! Prima o poi sapevo che mi sarei imbattuta in uno di loro, uno degli uomini con cui vado a letto, anche se non avevo mai immaginato che potesse succedere sul lavoro, e nell’ambito di una campagna così importante per la mia azienda come quella della Nox.
"Vedo che cominci a ricordare, - mi dice, con un sorriso cattivo- quanto mi dispiace!"
"Dispiacerti?" urlo. Ora non sono solo arrabbiata, sono…furiosa! – Sei tu quello che si è incazzato perché io, dopo essere andata a letto con te, non ti ho più richiamato! Dai bello, rassegnati!"
"Sai quanto me ne frega ...
"Ma sì, - gli urlo in faccia – il signorino si è offeso perché non ricordavo la sua faccia…"
"Dovresti pensare a mettere in ordine la tua vita, visto che non riesci a ricordare nemmeno le facce di quelli che ti porti a letto!"
Adesso è davvero patetico. Mi viene da ridere per l’assurdità della situazione, ma la verità è che non mi sento minimamente in colpa nei suoi confronti. Sì, non ho riconosciuto Pablo Sandoval, né dal nome né dalla faccia, perché non l'ho incontrato al LoveBox ma in un bar una notte che ero mezza ubriaca e non avevo nessuna intenzione di andare a letto con qualcuno. Era stata solo una cosa così…
"Guarda Pablo, io nella mia vita privata faccio ciò che voglio - gli dico, con tono di sufficienza - e né tu né nessun altro avete il diritto di intromettervi. Trovo molto scorretto e poco professionale da parte tua che ti metti a giudicare il lavoro mio e della mia squadra solo in base a quello che abbiamo fatto a letto. Se per te è così grave avere davanti agli occhi una che ti ha mollato, allora abbandono il progetto."
Senza aggiungere altro, mi volto con decisione e a passo svelto torno al mio ufficio. Mi sento molto meglio, il senso di oppressione si è allentato, e ho preso la mia decisione. Finalmente.
"Dove sei stata così a lungo?" mi chiede Carol, quando rientro in ufficio.
"Sono andata a sistemare le cose. Mi dispiace ragazzi, ma io abbandono il progetto."
"Cooosa?" Ettore allunga le vocali per dare più risalto alla domanda.
"Potete cavarvela anche senza di me, - li rassicuro – siete forti, i migliori. Continuate a sviluppare le ultime idee su cui abbiamo discusso: puntate sul suono, sulla nitidezza delle immagini ... Insomma, lo sapete."
"Ma, Violeta ...
Non ho alcuna intenzione di ascoltare le loro proteste. Raccatto le mie cose, agito una mano in segno di saluto e, prima di andarmene, passo dall'ufficio di Lorenzo. Lui resta un po’ sorpreso dalla mia decisione improvvisa, ma sa che è l’unica cosa da fare per il bene del progetto, e non discute. Mi assicura che avrà presto bisogno di me, anche se per altri tipi di lavori.
Lo ringrazio ed esco. Vera e Violeta mi stanno aspettando.
VERA
Ho trovato il mio soggiorno nel caos. Flor, sentendosi abbandonata, aveva buttato sul pavimento parecchi libri, delle cornici e perfino i cuscini del divano. Inoltre, aveva anche graffiato la porta di casa, per dispetto. Avrei dovuto punire quel gatto cattivo, ma in fondo sapevo che era colpa mia, che l’avevo lasciata da sola per tutta la giornata. Invece di sgridarla, le ho aperto una lattina di paté di lusso, l’ho spazzolata per benino e ci siamo messe a giocare finché non si è acquietata ed è sprofondata nel sonno accanto a me, sul letto.
Stamane, non appena alzata, ho telefonato alle mie sorelle per assicurarmi che andasse tutto bene e sono stata costretta a lasciarla di nuovo sola, quella gatta cattiva. Speriamo che non dia di matto.
Mentre vado al lavoro non posso fare a meno di pensare a Victoria e Carlos. È stata una grande delusione per me, un duro colpo. Non avevo mai immaginato che Carlos potesse fare una cosa del genere, anzi, segretamente avevo sempre sperato di fidanzarmi con uno che gli somigliasse. Adesso, ripensando a quello che è successo, non so se riuscirò più a fidarmi di qualcuno.
Automaticamente i pensieri mi cadono su Alejandro. Sembra un bravo ragazzo, è attento, premuroso e divertente. È anche bello, ovviamente, e non ho dubbi che potrebbe essere il tipo di uomo di cui potrei innamorarmi, ma dopo il fatto di Victoria ... Come faccio a fidarmi di lui?
Quando arrivo in ospedale, inizia la mia solita routine. Indosso l’uniforme, timbro il cartellino e vado a controllare le mansioni che mi hanno assegnato oggi. Tuttavia, non appena esco dagli spogliatoi, qualcuno mi ferma. È Laura, la mia collega.
"Vera, il dottor Navas ha chiesto di te - mi dice - Oggi è di turno.".
È strano che abbia chiesto proprio di me. Di solito, quando un medico ha bisogno di un’infermiera, se ne fa mandare una qualunque, non specifica chi.
Vado da lui, un po’ in ansia, e quando entro nel suo ufficio trovo il dottor Navas che sta dando un’occhiata alle cartelle dei pazienti. Busso pro- forma ed entro.
"Voleva vedermi, dottore?"
"Ah!" Sì, sì… - esclama il dottore guardandomi al di sopra delle lenti degli occhiali - Entra e chiudi la porta, per favore."
Obbedisco e resto in piedi, in attesa.
"Ieri ho dovuto dare una pessima notizia ai genitori di un neonato. Sono stato costretto ad avvertirli che il bimbo ha una grave malattia metabolica di origine genetica."
Mi dispiace davvero per il bambino, ma non capisco io cosa c’entro. Resto in silenzio, in attesa di capire.
"Ma quando è uscito fuori il nome del neonato, i genitori sono caduti dalle nuvole e mi hanno detto che quello non era il nome della figlia. Mi puoi dire che cavolo è successo?"
"Beh…"
Provo una fitta allo stomaco. Faccio mente locale e intuisco come può essere successo, e anche che è stata colpa mia. Ma non faccio in tempo ad aprire bocca, che Navas mi fa un urlo in testa.
"Mi hai consegnato la cartella sbagliata! Hai idea di quanto mi sono vergognato? E di come si sono sentiti quei poveri genitori?"
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