Kitabı oku: «Non Sono Come Tu Mi Vuoi», sayfa 2
«Sono ancora uno smidollato impacciato?», mi soffiò all’orecchio.
«Io non l’ho detto.»
«Ho sentito ciò che hai detto su di me.»
«Allora mi sono espressa male.»
«Non importa. Avrai tempo per aggiustare il tiro e capire davvero chi hai di fronte.»
«Sicuramente non lo Stefan di sette anni fa.»
«Quello che hai fatto licenziare.»
«Ce l’hai ancora con me per quella storia, vero? Ti avrò chiesto scusa mille volte e poi sei sparito.»
«Mi sono trasferito a Londra e ora ho un’agenzia di temporary management . Quel fatidico licenziamento è acqua passata.»
«Allora perché ho la sensazione che tu ti stia vendicando?»
«Non mi sto vendicando. Voglio solo farti provare ciò che mi hai fatto vivere tu anni fa.»
«Questa è vendetta!»
«Tu sei una preda troppo facile per poter parlare di vendetta. Ancora un passo falso e ti faccio licenziare prima della fine della giornata. Con te non devo neanche sforzarmi di pianificare un modo per sbatterti fuori, perché ci penserai tu da sola. Al contrario di me, tu non sei cambiata per niente. Sei sempre la solita irresponsabile, frivola e disattenta ragazza di allora.»
«Non è così. Anch’io sono cambiata.»
«Ne dubito», mi rispose gelido, alzandosi e andandosene lontano da me.
Avrei voluto scoppiare a piangere.
Non era così che volevo cominciare la giornata.
Non era così che avevo sempre sognato di mostrarmi a lui, se un giorno l’avessi rivisto.
Dopo la nostra rottura, mi ero fatta una promessa e l’avevo mantenuta.
Non ero più quella testa calda di tanti anni prima.
3
«Vi ho convocati qui per parlarvi di una novità», esordì Luigi poco prima della pausa pranzo, riunendoci tutti nella sala riunioni che usavamo raramente e che occupava quasi tutta l’ala est del piano superiore.
Accanto a lui c’era il mio nuovo incubo e dalle occhiate che m’inviavano i miei colleghi era ovvio che Patricia e Breanna erano subito corse a raccontare ciò che era successo nel reparto della zona notte.
Come se non bastasse, anche Stefan mi stava fissando ed il suo sguardo addosso mi sembrava più pungente e doloroso di un vento artico che congela ogni cosa e che non mi lasciava via di scampo.
A disagio fissai il pavimento e aspettai che quella riunione giungesse al termine, con la speranza di non combinare qualche altro pasticcio.
«Date le difficoltà che stiamo avendo e che rischiano di portarci alla deriva, ho chiamato il signor Stefan Clarke, specializzato in management e proprietario di un’importante agenzia che si occupa proprio di offrire servizi e consulenze finalizzate ad aumentare la produttività e a ridurre gli sprechi.»
«Ci saranno anche dei tagli al personale?», chiese Didier, l’architetto francese più in gamba e simpatico del gruppo.
Luigi abbassò lo sguardo. Era sempre stato molto in imbarazzo e troppo accondiscendente per riuscire ad affrontare quel discorso con noi.
Stefan fece un passo verso di noi e prese in mano la situazione, rispondendo al posto del nostro capo.
«Esatto! E questa cartella che ho in mano mi servirà per annotarmi tutti i vostri sbagli e decidere così chi di voi sarà sacrificabile. Da questo momento in poi dovrete rivolgervi a me. Sarò io il vostro capo temporaneamente e mi aspetto un ordine e una disciplina esemplari. Mi sono spiegato?», ci disse mostrandoci la cartella nera che teneva in mano con la lista dei nostri nomi.
Il suo tono risoluto e severo non permise a nessuno di avere abbastanza coraggio da rispondergli.
«Da oggi pomeriggio tutto dovrà cambiare, quindi approfittate di questa pausa pranzo per chiacchierare, mangiare e rilassarvi, perché poi dovrete dare il massimo e concludere più vendite possibili.»
Lavoravo lì da tre anni, ma non avevo mai percepito tanta tensione dentro lo showroom.
Stefan si aggirava per tutti i reparti, con la sua cartella nera in mano.
Ogni volta che annotava qualcosa, tutti noi sudavamo freddo.
Sembrava che ogni cosa su cui posasse lo sguardo avesse qualcosa che non andava.
Da tranquilli venditori, ci eravamo tutti trasformati in famelici avvoltoi pronti a scarnificare ogni cliente che osasse mettere piede in negozio.
Quando arrivò una coppia di anziani, mi precipitai ad accoglierli e pregai di concludere una vendita. Qualsiasi essa fosse, anche solo quella di un cuscino.
In un attimo li tempestai di domande e compresi che intendevano comprare un divano con chaise longue, facile da tenere pulito e dalle dimensioni ridotte.
Avevo solo un modello di quella lunghezza e consigliai subito la pelle al posto del tessuto, perché quest'ultimo era più difficile da sfoderare.
Tuttavia, il prezzo li mise in crisi.
Disperata, consigliai loro l’ecopelle, dicendo che non c’erano grandi differenze e che si lavava con una semplice spugna e sapone neutro.
Dopo mille tentennamenti e uno sconto sul trasporto, alla fine riuscii a concludere la vendita. Feci firmare l’ordine cartaceo ai clienti e, appena se ne andarono, mi misi a correre per caricare l’ordine al computer con il mio account.
«Eliza, fermati», mi bloccò Stefan, fermo dietro di me.
A quanto pareva, si divertiva a prendermi alla sprovvista, nascondendosi alle mie spalle.
«Non posso, devo caricare l’ordine e servire altri clienti», m’impuntai, irritata dalla sua presenza asfissiante. Non avevo più voglia di subire il suo atteggiamento prepotente.
Proseguii impettita verso le scrivanie dei venditori e mi fiondai sul primo computer disponibile, dove mi misi subito ad inserire i dati dell’ordine.
Sarebbe stato un gioco da ragazzi, se non avessi avuto per tutto il tempo gli occhi assassini di Stefan addosso.
Le dita mi tremavano e feci un sacco di errori di battitura per via dell’agitazione.
Quando conclusi e stampai l’ordine, Stefan mi chiese di mostrarglielo.
Fingendomi sicura di me, mi alzai e gli passai il foglio, mettendomi davanti a lui con l’atteggiamento di una donna intoccabile e pronta solo a ricevere complimenti, anche se in realtà ero terrorizzata da un suo possibile commento o dal fatto che potessero esserci errori.
Lesse con calma il mio ordine, posò il documento sul tavolo e riprese la sua cartellina, in cui iniziò a scrivere qualcosa di negativo sul mio operato.
Mi sentii mancare, ma m’imposi di rimanere fredda e distaccata.
«Posso andare, adesso?», ringhiai furiosa per la sua indifferenza.
«No», mi rispose secco lui.
«Posso esserti utile in qualche modo?», tentai con l’approccio reverenziale che usavo sempre con i clienti.
Finalmente alzò gli occhi dalla sua cartella e mi guardò.
Abbozzai anche un sorriso di incoraggiamento e di malcelato disprezzo, ma in compenso ricevetti solo una sferzata gelida che mi atrofizzò tutti i muscoli facciali.
Lo vidi fare un passo verso di me, ma non mi mossi e con stupore notai quanto fosse alto. Non me lo ricordavo più oppure lui non mi aveva mai guardata dall’alto in basso in quel modo?
«Numero uno: se io ti dico di fermarti, tu lo fai.»
Aprii la bocca, ma la sua espressione divenne così minacciosa da farmela richiudere all’istante.
Eliza, ricordati che lui non aspetta altro che trovare una scusa per licenziarti, quindi stai zitta!
«Numero due: sei una pessima venditrice», continuò lui severo.
«Non è vero! I clienti erano soddisfatti e…»
«Non m’interessa. Ho seguito tutta la transazione e tutto ciò che ho visto è stata una venditrice talmente disperata da svalutare il suo prodotto, tanto da paragonare la pelle all’ecopelle, dare consigli di pulizia che non implicano l’utilizzo dei kit specifici di cui abbiamo pieno il retro, fare uno sconto non autorizzato e…»
«Non è colpa mia se i miei clienti volevano spendere poco», lo interruppi furiosa.
«Tu non hai nemmeno provato a spingere la vendita.»
«Perché non volevo perderla!»
«Non l’avresti persa. Loro erano qui per comprare.»
«Allora, la prossima volta, fallo tu!», sbottai agitata, cercando di contenere il tremore di nervosismo e imbarazzo.
«Un’altra parola e ti faccio licenziare», mi minacciò lui.
«Lo so benissimo che non aspetti altro! Tutto questo accanimento nei miei confronti per una cretinata che ho combinato sette anni fa… Oltre a chiederti di nuovo scusa, non so che fare.» Ero a pezzi. Sentivo che stavo per scoppiare a piangere da un momento all’altro e la testa mi pulsava dolorosamente.
Più guardavo Stefan e più mi sentivo male.
Averlo rivisto in quel modo mi aveva destabilizzata più di quanto potessi immaginare, tanto che faticavo a reagire e a non lasciarmi sottomettere.
Io volevo quello Stefan impacciato e affettuoso di una volta, non quel samurai pronto a fare a pezzi chiunque si mettesse sulla sua strada.
Non ero pronta a quell’uomo.
A quei capelli stretti in uno chignon perfetto.
A quella barba che nascondeva le sue fossette sulle guance.
A quella bocca stretta in una piega severa.
A quel completo così costoso da mettermi in soggezione.
A quel suo ruolo di tagliagole che svolgeva senza il minimo scrupolo.
Quando la sua mano si posò sulla mia spalla, sussultai spaventata.
Era una stretta forte, potente ma non violenta.
Al contrario dei miei, i suoi gesti erano misurati, lenti e controllati.
«Eliza, calmati. Non voglio licenziarti, ma tu non devi darmene motivo, altrimenti mi vedrai costretto a procedere contro di te. Ora, vai in bagno, datti una sistemata e poi torna alla tua postazione. Riprendi quest’ordine e modificalo. Hai inserito la chaise longue a destra, ma i clienti te l’hanno chiesta a sinistra.»
«Sul serio?», mi stupii, riprendendo l’ordine. «Non mi era mai successo prima di inserire dati sbagliati», mi giustificai, notando il mio terribile errore.
«Devi fare più attenzione. Il tuo sbaglio sarebbe costato all’azienda parecchi soldi.»
«Hai ragione. Scusa, non succederà più», sussurrai mortificata.
«Ricordati che io sono qui per aiutare Luigi ed è mio compito controllare tutto, scovare i problemi e capire come migliorare la situazione. Non sono qui per rendere la vita impossibile a nessuno, anche se tutti voi lo pensate.»
«Tu hai parlato di licenziamenti…»
«Se li posso evitare, non ce ne saranno dato che Luigi non vuole arrivare a tanto, ma secondo me lo showroom è troppo piccolo e poco frequentato per nove dipendenti.»
Lo pensavo anch’io, ma rimasi in silenzio.
Andai in bagno a darmi una sistemata e allo specchio vidi che le lacrime che mi pizzicavano gli occhi mi avevano fatto colare l’eyeliner.
Ecco perché Stefan mi aveva detto di andare in bagno!
Ancora più in imbarazzo di prima per quell’emotività esagerata che mi travolgeva quando ero tesa e spaventata, mi pulii il viso.
Mi feci poi un caffè e tornai alla scrivania a correggere l’ordine con calma e precisione, prima di tornare alla ricerca di qualche cliente libero.
Quel pomeriggio non conclusi altre vendite, a differenza di Laetitia che ricevette anche i complimenti da parte di Stefan.
Quando tornai a casa, ero a pezzi.
Presa dallo sconforto, telefonai a Hope, l’unica che aveva conosciuto Stefan e che avrebbe compreso la mia disperazione.
«Stai piangendo?», comprese all’istante la mia amica, appena sentì i miei singhiozzi invece del mio solito “Ciao” spaccatimpani.
Non riuscii a rispondere.
«Chiamo Aria e veniamo subito da te», decise, troppo preoccupata per accontentarsi di una misera telefonata.
Venti minuti dopo, il campanello suonò.
«Non dovevate venire», mi limitai a dire, soffiandomi il naso, mentre Hope mi stringeva a sé avvolgendomi con il profumo alla vaniglia dei suoi bellissimi capelli biondi.
«Tesoro, ho abbandonato le lasagne nel forno e mio marito per correre da te, quindi ora mi dici cosa ti è successo. Non ricordo neanche più l’ultima volta che ti ho vista piangere», si agitò Arianna, prendendomi il viso tra le mani per analizzare ogni segno, ruga, lacrima sulla mia faccia con i suoi penetranti occhi castani.
«Io me lo ricordo», intervenne Hope. «È successo quando quel tipo più grande di noi ti ha mollata dopo che l’hai fatto licenziare. Si chiamava Stefan, se non ricordo male.»
Il solo sentire quel nome mi fece tornare a piangere come una fontana.
«Hai per caso rivisto quel tizio? Stefan? È per questo che piangi? Non ti ha ancora perdonata per quel casino che hai combinato anni fa?», cercò di capire Arianna.
Annuii.
Finalmente riuscii a calmarmi grazie alla loro presenza.
Presi tre bicchieri, una bottiglia di ginger ale e una confezione di patatine.
Poi andai a sedermi sul mio divanoletto insieme alle mie amiche, stringendoci tra noi dato che la seduta era stretta.
«Non sarà mica questa la tua cena?», si arrabbiò Arianna.
Mi strinsi nelle spalle. Ormai era da un anno che mi lasciavo andare. Non curavo più nulla e non avanzavo mai pretese.
I miei genitori aspettavano solo una mia lamentela per rinfacciarmi le mie scelte di vita.
Le mie due amiche erano ormai così prese dalle loro vite che si erano quasi dimenticate di me e non riuscivamo più a vederci, se non tramite videochat su Skype.
La mia vita sentimentale era completamente morta e sepolta.
E la mia casa era così piccola e claustrofobica che non attirava nuovi ospiti.
«Non pensavo stessi così male», mormorò Hope in colpa, capendo la mia situazione. «Ero così presa dal mio lavoro e da mia zia, che ho dimenticato le altre persone. Eliza, ti chiedo scusa. Ora sono qui e ti prometto che queste serate a base di ginger ale e cibo spazzatura si ripeteranno spesso. Non voglio che tu ti senta abbandonata.»
«Anche a me dispiace. Ti voglio bene, Eliza, anche se mi rendo conto che ultimamente non te l’ho dimostrato, però adesso sono qui per te e voglio che tu mi dica cosa c’è che ti turba così tanto. Ti prometto che farò qualsiasi cosa per aiutarti, anche cercare un altro appartamento perché questo è…»
«Un buco di trentasei metri quadrati», terminai la frase al suo posto. «Ma al momento non posso permettermi altro e forse a breve non avrò neanche i soldi per pagare l’affitto.»
« Moduli Arredi chiude? Tempo fa mi avevi detto che le cose andavano male.»
«Il rischio di fallimento è dietro l’angolo. Per questo Luigi Moduli ha chiamato un temporary manager per trovare una soluzione»
«Io odio i temporary manager . Sono bravi solo a fare tagli del personale!», borbottò Hope.
«Hai paura che possa licenziarti?», mi chiese Arianna.
«Sì», ammisi.
«E tu non dargliene motivo!»
«Troppo tardi…»
«Cos’hai combinato?»
«Niente, ma l’uomo in questione non si è di certo dimenticato il giorno in cui io ho fatto perdere il lavoro a lui.»
«Mi stai dicendo che… che…», farfugliò Hope facendosi andare di traverso l’aperitivo.
«Stefan Clark è il temporary manager », dichiarai facendo cadere la stanza in un silenzio tombale e lasciando Arianna con il bicchiere a mezz’aria.
«Non è che hai della vodka? Non credo che un analcolico possa bastare per superare lo shock», esclamò Arianna dopo un lungo momento.
«No, lo sai che dopo Stefan ho chiuso con l’alcol e con tutte le cazzate che facevo da adolescente.»
«È vero. Ti sei trasformata dalla ragazza che si è portata a letto mezzo liceo e che ballava sul cubo delle discoteche dopo essersi scolata mezza bottiglia di alcolici in una donna pacata, pantofolaia, astemia, morigerata, seria e un po’ noiosa.»
«Quella ragazza mi ha fatto perdere l’amore della mia vita. Non volevo più essere così», le ricordai.
«Ne sei ancora innamorata?»
«Io… io… non lo so», borbottai a disagio, fissando il liquido dorato e pieno di bollicine nel bicchiere. «Stefan è cambiato.»
«Che peccato! Era un giovane così perbene e maturo, sette anni fa», sospirò Hope che aveva sempre avuto un debole per Stefan.
«Era uno sfigato», controbatté Arianna che invece amava gli uomini più folli e che all’epoca frequentava un ragazzo che poi era finito in galera.
«A me piaceva così com’era. Era l’unico che mi facesse sentire speciale e amata. Lui mi abbracciava, mi sorrideva ed era sempre dolce con me. Non ho mai avuto nemmeno la metà del suo affetto da mio padre o da mia madre, che mi hanno sempre trattata con freddezza e distacco, svalutando ogni mio successo scolastico e ogni cosa che facevo, perché c’era sempre qualcuno che riusciva meglio di me.
«E ora non è più così dolce e gentile come una volta?»
«È un’altra persona. Vi giuro che non l’ho riconosciuto a causa della barba, gli occhiali, i capelli lunghi e il corpo muscoloso… Dio, era così muscoloso che la giacca era tirata sulle braccia e sul petto. Ricordavo che faceva tanta attività fisica, ma non avrei mai pensato che potesse diventare così…»
«Arrapante», ridacchiò Arianna leccandosi le labbra.
«Lo sarebbe se non fosse così severo, rigido, minaccioso e distante. Voi non potete capire la soggezione che mi causa quando si avvicina a me con quella sua maledetta cartellina nera e si mette ad annotare ciò che faccio e dove sbaglio. Mi manda via di testa! Ha degli occhi ipnotizzanti che mi confondono, ma poi li socchiude come se volesse puntarmi e… Oggi ho fatto così tanti errori che non potete nemmeno immaginare. Gli sto servendo il mio licenziamento su un piatto d’argento.»
«E tu cerca di non farlo!»
«Fosse facile. I clienti sono pochi e io non sono mai stata una venditrice di grande talento. Peccato che Stefan guardi proprio quello! Stasera ha persino fatto i complimenti a quella gatta morta di Laetitia per le vendite che ha fatto. Quanto vorrei essere brava come lei!»
«Non puoi imitarla?»
«Sì, ma questo implicherebbe indossare un tanga rosso sotto dei pantaloni di lino bianco leggerissimo che facciano intravedere l’intimo e sopra una camicetta quasi completamente sbottonata...»
«A mali estremi, estremi rimedi», dichiarò solenne Arianna, mentre Hope scuoteva il capo. Lei era contraria all’uso del proprio corpo per abbordare i clienti.
«L’importante è non farsi licenziare e dimostrare a Stefan che sei una tipa tosta che non ha paura di esporsi», cercò di convincermi Arianna.
4
Se la modalità da buona samaritana non funzionava, allora sarei passata a quella di Laetitia, seguendo le indicazioni di Arianna.
Proprio con quel chiodo fisso, mi presentai al lavoro il giorno successivo con una camicia mezza sbottonata, così scollata che si poteva scorgere il pizzo nero del mio reggiseno e dei pantaloni bianchi leggeri da cui s’intravedeva il perizoma nero che indossavo sotto.
Non avevo mai osato vestirmi in quel modo e non avevo più fatto nulla di vagamente provocante dopo l’ultimo incontro con Stefan sette anni prima, ma quel giorno decisi che potevo mettere da parte i miei propositi per tenermi il lavoro.
Ero nella saletta privata a prendere un caffè, quando si avvicinò Dylan.
«Ehi, piccola, quanto sei sexy oggi! Devo prenderlo come un invito?», esordì, lasciando scivolare la sua mano su tutta la mia schiena fino al sedere che strizzò, facendomi rovesciare il caffè per terra dal nervoso.
«Sì, un invito ad amputarti le mani.»
«Bella aggressiva, eh? Mi fai eccitare, lo sai?», mi sussurrò all’orecchio.
«Tu invece mi fai più effetto di un Valium. Sei noioso», ribattei, scacciando le sue mani che avevano ripreso a toccarmi come i tentacoli di un polpo.
«Dylan, hai un lavoro da svolgere o mi sbaglio?», tuonò Stefan.
«Sì, capo. A dopo, piccola», rispose Dylan sereno e neanche minimamente imbarazzato.
Mi aveva chiamato piccola davanti a Stefan!
Avrei voluto ucciderlo.
Stavo per seguire Dylan, quando Stefan mi si parò davanti.
«Tu resti. Dobbiamo parlare.»
Totalmente in apnea per paura di sentirmi di nuovo rimproverare per qualcosa, alzai lo sguardo su di lui.
Quel giorno era meno impostato.
Indossava una camicia azzurra un po’ sbottonata, abbinata a dei pantaloni chinos marroni.
La barba era sempre perfetta, mentre dal codino gli era sfuggito un ciuffo di capelli che gli ricadeva lungo la tempia.
Si può essere più fighi di così?
Mi sentii le guance avvampare, ma rimasi ferma e in silenzio.
Riuscii addirittura a non fare neanche un micromovimento quando Stefan mi mise le mani intorno al collo per sistemarmi il colletto della camicia. Poi scivolò fino al primo bottone chiuso, con le sue dita che mi sfioravano il reggiseno.
In passato Stefan non mi aveva mai toccata in quel modo, era sempre stato un po’ timido ed insicuro nel suo approccio per portarmi a letto e quello che stavo vivendo non sembrava assolutamente provenire dallo stesso uomo.
Quella sensazione di avere di fronte uno sconosciuto che, tuttavia, aveva abbastanza confidenza da toccarmi, mi eccitava e spaventava contemporaneamente.
«Questo è un negozio frequentato dalle famiglie. Famiglie con bambini. Non uomini alla ricerca di un’adescatrice sessuale. Non è questa l’immagine che vogliamo dare, giusto? Tanto meno quella di una donna che usa il suo tempo lavorativo per flirtare con i colleghi, vero?», mi disse a bassa voce, abbottonandomi la camicia fino al collo.
Quando ebbe abbottonato anche l’ultimo bottone, mi prese il mento con la mano e mi portò il viso verso di lui. «Se ti rivedo vestita in questo modo, prenderò dei provvedimenti che non ti faranno piacere. Mi sono spiegato bene?»
«Laetitia si veste sempre così», mi giustificai irritata.
«Laetitia può permetterselo.»
«Cosa vorresti dire? Che faccio schifo?»
«No. Dico solo che è normale per lei vestirsi così, perché fa parte del suo personaggio lascivo, seducente e malizioso che adora interpretare. Per questo lei non verrà mai impiegata per vendere camerette per bambini. Tu, invece, sei la classica donna acqua e sapone, sempre accomodante, disponibile e gentile, con la tua voce dolce e le tue risate allegre e sincere», mi spiegò Stefan, facendomi arrossire fino alla radice dei capelli.
Per un attimo ci fissammo dritti negli occhi e quelle parole mi parvero carezze. Proprio quelle carezze che mi aveva fatto in passato, dopo aver fatto l’amore e che oggi mi mancavano tanto.
Come se mi avesse letto nel pensiero, distolse lo sguardo e con un secco colpo di tosse ritornò al suo ruolo di aguzzino.
«Ora voglio che tu vada in archivio e che mi trovi tutte le spese degli ultimi tre anni. Ho bisogno di analizzare la contabilità di quest'ultimo periodo per capire meglio la situazione economica», mi ordinò gelido, riportandomi alla fredda realtà.
Stavo per ubbidirgli, quando mi resi conto che il mio silenzio era solo l’ennesima conferma che lui aveva ragione e io torto.
Stanca di sentirmi sempre sottomessa e in soggezione, decisi che era arrivato il momento di mettere in chiaro chi ero.
Mi feci coraggio e allungai le mani sulla sua camicia.
Stefan mi fulminò con lo sguardo, ma finsi indifferenza e mi avvicinai ancora di più a lui, azzerando la distanza tra noi.
Gli afferrai il colletto della camicia e feci la stessa cosa che aveva fatto lui a me.
«Un bottone va bene. Due bottoni sono già al limite. Tre bottoni sbottonati sono troppi», gli dissi, abbottonandogli la camicia ed evitando di lasciarmi incantare dalla sua pelle calda e tesa che percepivo sotto il tessuto. «Qui ci vengono famiglie con bambini, non donne alla ricerca di un uomo da portarsi a letto. Mi sono spiegata bene? E per quanto riguarda la contabilità, c’è Stella, la figlia di Luigi, che se ne occupa, ma dato che sono sicura che quella ragazza si sia già presa un altro giorno libero, allora ti consiglio di darti da fare e arrangiarti. Sei qui per lavorare, non per gironzolare per lo showroom con la tua cartellina nera in mano.»
Stavo per allontanarmi e togliergli le mani di dosso, quando sentii le sue strette intorno ai miei polsi.
«Stai giocando con me, Eliza? Non ti consiglio di provarci o te ne pentirai amaramente. Ormai non sei più una ragazzina e non mi farò scrupoli a trattarti come meriti.»
«Sei libero di pensare ciò che vuoi.» Feci spallucce e quel gesto gli fece letteralmente perdere la testa, perché mi afferrò per le spalle e mi spinse contro il muro.
«Stai tirando la corda», mi sibilò Stefan, così vicino che potei sentire la sua barba morbida sul viso.
«C’è altro o posso andare?», finsi indifferenza, anche se sentivo il cuore scoppiarmi nel petto.
«Vai a prendere la contabilità che ti ho chiesto e porta tutti i faldoni dell’archivio in sala riunioni. Sono stato abbastanza chiaro?»
«Cristallino», risposi con una lieve sfumatura sarcastica.
Il suo respiro fremente e vibrante si confuse con il mio spezzato dalla tensione.
Rimanemmo fermi ancora per un po', indecisi se continuare quel gioco di forze o lasciar perdere.
Sarei scappata via se non fosse che la sua barba mi solleticava il viso e la sua bocca era solo a un paio di centimetri dalla mia.
Per un secondo avrei voluto baciarlo e ricordare i vecchi tempi, ma ero paralizzata dalla paura di scoprire che anche i suoi baci erano cambiati come tutto il resto.
In quel momento mi resi conto che non sapevo nulla di lui. Nemmeno se fosse fidanzato o sposato. In colpa per quella voglia di baciare un uomo che forse apparteneva ad un’altra donna, m’irrigidii.
Non sono affari miei se è single o no. Eliza, non ti deve riguardare. Mai. Per nessun motivo!
Per fortuna arrivò Lexie con Didier per la pausa caffè e io riuscii a sgattaiolare via prima di fare qualcosa di cui mi sarei poi pentita.
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