Kitabı oku: «En torno a la economía mediterránea medieval», sayfa 5
12 A. ORLANDI, Affaires et dévotions dans les documents des marchands florentins (1450-1550), in L’Économie des dévotions. Commerce, croyances et objets de piété à l’époque moderne, a cura di A. Burkardt, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2016, pp. 323-346.
13 A. ORLANDI, Playing with Luxury: Dolls ad Ambassadors for the Florentine Business Community in Sixteenth-Century Spain?, «Journal of Early Modern History», 22, 4, 2018, pp. 259-278.
14 G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti, scultori e architetti di Giorgio Vasari, Firenze, Le Monnier, Firenze 1846; reperibile all’indirizzo internet: <https://books.google.it/books?id=edJfAAAAcAAJ&pg=PA37&dq=>, consultato il 22 novembre 2017.
15 Sul tema dei consumi di lusso rinvio a una breve ma efficace sintesi di Angela Orlandi che iniziando dalle posizioni di Roberto Sabatino Lopez e Armando Sapori offre una panoramica degli studi sull’argomento fino a Mary Douglas, Baron Isherwood, Richard Goldthwaite e Arijun Appadurai. A. ORLANDI, Tra austerità e lusso. Modelli di consumo dei mercanti fiorentini tra XIV e XV secolo, in Faire son marché au Moyen Âge. Méditerranée occidentale, XIIIe-XVIe siècle, a cura di J. Petrowiste e M. Lafuente Gómez, Casa de Velázquez, Madrid, 2018, pp. 31-45.
16 G. NIGRO, L’economia, in Eccellenza, Innovazione, Creatività nella Storia della Toscana, a cura di V. Baldacci, Edizioni dell’Assemblea, Firenze 2008, pp. 25-38.
17 G. NIGRO, L’economia, cit.
18 Scelta di poesie liriche del primo secolo della lingua fino al 1700, Le Monnier, Firenze 1839, p. 119. Reperibile all’indirizzo internet: <https://books.google.it/books?id=-DpyKbNUXUxMC>, consultato l’11 marzo 2018.
19 G. NIGRO, Et coquatur ponendo…, in Et coquatur ponendo…cultura della cucina e della tavola in europa tra medioevo ed età moderna, Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini»-Prato, Prato 1996, pp. 19-26.
20 E. ULIVI, Scuole e maestri d’abaco in Italia tra Medioevo e Rinascimento, in Un ponte sul Mediterraneo. Leonardo Pisano, la scienza araba e la rinascenza della matematica in Occidente, a cura di E. Giusti, Firenze 2002, pp. 121-159.
21 C.M. CIPOLLA, Istruzione e sviluppo. il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale, il Mulino, Bologna 2002, p. 52. Si veda anche A. ORLANDI, Mercanzie e denaro: la corrispondenza datiniana tra Valenza e Maiorca (1395-1398), fonts històriques valencianes, Universitat de València, Valenza 2008.
22 F. MELIS, Sulle fonti tipiche della storia economica: per una particolare tecnica di lavoro dello storico (relativamente ai secoli XII-XVII), «Rassegna Economica», XXXIX, 2, 1972, pp. 307-332, pp. 332.
23 F. MELIS, La banca pisana e le origini della banca moderna, a cura di M. Spallanzani, Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini»-Prato, Le Monnier, Firenze 1987.
24 F. MELIS, Werner Sombart e i problemi della navigazione nel Medioevo, in F. MELIS, I trasporti e le comunicazioni nel Medioevo, a cura di L. Frangioni, Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini»-Prato, Firenze 1985, pp. 3-68.
25 G. NIGRO, Il mercante e la sua ricchezza, in Francesco di Marco Datini. L’uomo il mercante, a cura di G. Nigro, Fondazione Istituto Internazionale di Storia Economica «F. Datini»-Prato, FUP, Firenze 2010, pp. 81-104.
26 G. Todeschini, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso, il Mulino, Bologna 2002.
27 M. SPALLANZANI, Maioliche ispano-moresche a Firenze nel Rinascimento, SPES, Firenze 2006.
L’ARTE DELLA LANA IN ITALIA (SECOLI XIII-XV): PESO ECONOMICO E FUNZIONE SOCIALE
Giuliano Pinto Università degli studi di Firenze
«Ars lane omnes italicas civitates exaltat et extollet»: così a metà Quattrocento i Capitoli dell’Arte della lana di Perugia sottolineano il ruolo che la manifatturiera laniera aveva assunto da tempo nelle città –ma aggiungiamo anche in moltissimi centri minori– dell’Italia dei secoli finali del Medioevo.1 Espressioni simili, che fanno riferimento all’importanza dell’arte della lana e alla fama e alla ricchezza che ne derivavano per le singole città, si incontrano di frequente nella documentazione pubblica, specchio questa di un sentire comune. Così a Pisa nel 1335 una commissione di savi, approvando una serie di provvedimenti a favore dell’arte, sottolineava nella premessa come fosse noto a tutti quanto la presenza di una manifattura laniera contribuisse a rendere le città ricche e ben popolate.2 Lo stesso concetto era espresso nel 1358 nel Consiglio maggiore di Venezia, ovvero che le arti della lana e del fustagno «sunt hee que pocius faciunt ad populationem civitatum mundi quam alie».3 Nel 1366 nel Consiglio generale di Siena si affermava che i panni prodotti in città «undique denarios adducunt et alia honorabilia ad civitatem Senarum».4 Nel 1454 la commissione del Comune di Prato, incaricata di riformare lo statuto dell’Arte della lana, sottolineava all’inizio della delibera che tale manifattura «è il principale membro di decta terra et quella che insino al presente dì à mantenuto decta terra di Prato, et manchando quella la terra di Prato sarebbe totalmente disfacta».5 A Firenze nel 1458, il divieto di importazione di panni forestieri venne motivato con il fatto che «la città nostra s’è facta potente et grande mediante le industrie et exercitii et per mezzo di quelle s’è difesa da ogni oppressione, et maxime per lo exercitio dell’arte della lana».6 Mezzo secolo prima, nel 1409, sempre a Firenze, i vertici dell’Arte della lana sottolineavano come la città avesse sempre primeggiato nella manifattura laniera tanto da essere in questo «domina et magistra» di tutte le altre città e di avere acquistato così fama nel mondo intero.7 Più o meno negli stessi anni i documenti pubblici vicentini definiscono il lanificio «beneficium civitatis».8 All’inizio del ‘500 una delibera consiliare veronese definiva la manifattura laniera «l’anima della città».9
Anche le fonti narrative si soffermano sull’importanza dell’arte della lana. Per Firenze sono note e oggetto di discussione le cifre sulla produzione di panni lana riportate da Giovanni Villani –su cui torneremo più avanti– e le indicazioni presenti nella Cronica di Benedetto Dei, dove in riferimento al 1472 si scrive di 270 botteghe della lana dislocate soprattutto nell’Oltrarno.10 Bonvesin della Riva nel passo che elenca gli addetti alle principali attività economiche dei milanesi a fine XIII secolo pone al primo posto i tessitori di lana.11 Nel 1514 il canonico fiorentino Bonsignore Bonsignori in visita ad Ascoli per conto del papa metteva in rilievo come in città vi fossero molti artigiani che «fanno grandissima quantità di panni ogni anno, et assai boni».12
La manifattura laniera si era sviluppata a partire dal XIII secolo in concomitanza con il forte incremento della popolazione cittadina e con il conseguente aumento della domanda di capi di abbigliamento da parte di una popolazione sempre più differenziata al proprio interno.13 Gualchiere, tiratoi, botteghe di tinta, fondaci, lavatoi caratterizzarono presto il paesaggio urbano e sub-urbano di molte città.14 Eppure, le condizioni naturali per il suo sviluppo erano meno favorevoli in Italia rispetto ad altre parti dell’Occidente europeo e del mondo mediterraneo: le lane migliori erano prodotte, come sappiamo, in Inghilterra e poi nella penisola iberica e nei paesi del Nord-Africa;15 alcune sostanze usate nel processo produttivo (allume, coloranti, ecc.) arrivavano in buona parte dall’esterno. Fu probabilmente la richiesta sui mercati urbani di tessuti, qualitativamente sempre più differenziati e di valore crescente, a determinare il decollo della manifattura tessile, già presente per altro in molte realtà su base artigianale e con una produzione modesta per quantità e qualità.16
Una ricca messe di studi quasi ininterrotta, che parte dall’erudizione storica tardo ottocentesca e dalla scuola economico-giuridica a cavallo tra i due secolo,17 sino a giungere a lavori recenti, ha messo bene in luce la diffusione e il ruolo della manifattura laniera nelle città italiane. Una prima sintesi c’è stata offerta, nel 1990, dalla rassegna di Bruno Dini che presenta un quadro complessivo, ricco e articolato, della geografia delle manifatture tessili basso medievali.18 Gli studi non si sono affatto interrotti negli ultimi due-tre decenni, con lavori di carattere generale19 o su singole città.20 L’attenzione si è rivolta anche a centri piccoli e medi, talvolta veri e propri distretti, dove non di rado parte della manodopera –quella meno specializzata– alternava il lavoro nella manifattura con quello dei campi.21 Il sistema della fabbrica disseminata (Verlagsystem) risulta essere in funzione anche in numerosi piccoli centri.22
L’arte della lana, fiore all’occhiello –si potrebbe dire parafrasando il testo perugino– di tante città italiane, aveva assunto un’importanza del tutto particolare per una serie di ragioni, che si possono così riassumere: produceva ricchezza, ovvero, usando un termine dell’economia contemporanea, contribuiva in misura determinante al prodotto interno lordo; alimentava gli scambi commerciali ai diversi livelli (locale, regionale, internazionale) sia per i panni finiti che per le materie di base, incrementando in tal modo le entrate dell’erario grazie alle gabelle che gravavano sulle merci in movimento; dava da vivere a una parte considerevole della popolazione cittadina e a persone che vivevano nelle campagne circostanti (per la filatura e in certe zone anche per la tessitura); contribuiva a rendere le città ben popolate, in un periodo in cui il numero degli abitanti era considerato elemento di forza e di prestigio: «nichil est quod urbes opulentiores et celebriores efficiat quam civium et habitantium moltitudo».23 Si aggiunga infine che si trattava di una produzione destinata a soddisfare i bisogni primari della popolazione nella sua interezza: come recita uno statuto padovano del ‘300, i tessuti erano considerati «res utiles ad sustentaciones vite», al pari quasi dei generi alimentari (victualia).24
Tutte queste ragioni facevano sì che l’interesse per le sorti della manifattura laniera non rimanesse circoscritto all’interno della corporazione ma chiamasse in causa il governo stesso della città, come testimoniano gli statuti cittadini e le delibere consiliari, di cui abbiamo falto menzione.
Nella celebre descrizione di Firenze al 1338 Giovanni Villani parla di 200 botteghe della lana e di una produzione di 70-80 mila panni, il cui valore superava i 1.200.000 fiorini d’oro.25 Può darsi che il cronista sopravvaluti il numero dei panni confezionati,26 resta il fatto che a Firenze –uno dei maggiori centri dell’Occidente europeo– nessuna altra attività produceva manufatti il cui valore si avvicinasse minimamente a quello dei panni che uscivano dalle botteghe dei lanaioli. Per Siena abbiamo ricordato sopra la considerazione espressa nella massima assemblea cittadina secondo cui la vendita dei panni di lana faceva affluire da ogni parte denaro in città.27 A Pisa una serie di provvedimenti pubblici a favore dell’Arte della lana, adottati prima e dopo la metà del Trecento, avevano come obiettivo dichiarato quello di accrescere la ricchezza della città.28 Vanno nella stessa direzione le testimonianze ricordate sopra in relazione a Verona e Vicenza.29 Ancora, alcune delle maggiori famiglie ascolane della primissima età moderna avevano costruito le loro fortune con la produzione e il commercio dei panni lana.30
Importante quanto l’attività manifatturiera in sé era il commercio delle materie prime e dei panni confezionati. Le une e gli altri erano probabilmente tra le merci che più circolavano sulle medie e lunghe distanze.31 È noto che la più importante arte fiorentina, quella di Calimala, raggruppava i grandi mercanti internazionali impegnati nella rifinitura e nel commercio dei panni pregiati importati dalle Fiandre.32 Quanto alla materia prima, nei centri manifatturieri italiani arrivava –come si è detto– lana dall’Inghilterra, dalla penisola iberica (detta di San Matteo), dai paesi del Maghreb (lana d’Algarve); ma intensa era pure la circolazione delle lane nostrali, di minor valore, prodotte soprattutto nelle aree montane, alpine e appenniniche.33 A tale commercio si aggiungeva quello delle sostanze tintorie, a cominciare dal guado, dei vari mordenti (allume, erica, ecc.), dell’olio per ungere le fibre da filare, del sapone per purgare il tessuto.34 Per molti dei maggiori centri lanieri italiani si potrebbe costruire una carta tematica con le provenienze delle diverse materie prime e altrettanto per le principali destinazioni dei panni prodotti.
Non erano tanto i lanaioli a guadagnare dalla circolazione di merci e di denaro che ruotava intorno all’arte della lana, quanto i mercanti che in genere controllavano tutta l’attività manifatturiera, dal rifornimento della materia prima alla vendita dei panni. La mobilità sociale in ascesa, nelle città come nei centri minore, ebbe come protagonisti soprattutto quanti svolgevano attività di scambio e di intermediazione, assai più raramente chi era impegnato solo nel processo produttivo.35
Dall’importanza economica della manifattura laniera derivava direttamente il peso politico raggiunto in molte città dall’Arte della lana,36 a cui si aggiungeva il prestigio sociale assicurato da iniziative che davano lustro all’intera cittadinanza.37
Se le nostre conoscenze sulla produzione e sul commercio dei panni lana si sono arricchite nel tempo, non approfondite a sufficienza risultano essere la funzione sociale svolta dall’arte della lana e la consapevolezza che ne avevano i governi cittadini, e, da qui, le misure che venivano adottate di volta in volta.
Partiamo ancora una volta dalle fonti, in particolare dalle fonti narrative e da quelle pubbliche che fanno riferimento all’importanza della manifattura laniera, in quanto attività economica che più di ogni altra creava occupazione. Giovanni Villani nella già ricordata descrizione di Firenze al 1338 parla di 30 mila persone che vivevano direttamente o indirettamente dell’arte della lana; ovvero un terzo circa della popolazione cittadina.38 La stima, sicuramente di massima, proposta dal cronista, non è in contrasto con l’indicazione del valore dei panni prodotti e della quota (400 mila fiorini d’oro) che serviva per pagare la manodopera.39 Ricerche puntuali, basate su fonti quantitative, relative alla seconda metà del ‘300 e al primo ‘400 hanno dimostrato come la percentuale dei fiorentini che vivevano allora dell’arte della lana non si discostava di molto da quella indicata dal Villani per il 1338.40
Anche per altre città sono state proposte cifre relative agli addetti al settore laniero. A Padova alla fine del XIV secolo vi sarebbero state impiegate 18 mila persone, tra la città e la campagna circostante.41 A Siena già il Constituto del 1262 fa riferimento a «quam plures familie civitatis Senarum» che vivevano della manifattura laniera;42 quasi due secoli dopo, nel 1448, i consoli dell’Arte lamentavano che le importazioni di panni forestieri, oltre a compromettere «l’honore et la reputatione» della città, incapace di provvedere a se stessa, mettevano in crisi la manifattura locale grazie alla quale «si governa et nutre il terzo delle persone d’essa vostra città».43 A Vicenza nel Quattrocento, una città di circa 20 mila abitanti, sarebbero stati intorno a 7.000 quanti lavoravano a vario titolo nell’arte della lana.44
È evidente che tali stime non hanno un fondamento certo: gli uomini del tempo non disponevano di strumenti atti a elaborare statistiche di questo tipo. Tuttavia, nelle città dove la manifattura laniera era più sviluppata, appare diffusa l’opinione che essa desse da vivere a circa un terzo della popolazione: una sorta di valutazione ad occhio, di percezione, che in qualche caso trova riscontri puntuali in fonti di tipo quantitativo.45 Di conseguenza, i momenti di crisi della manifattura –tutt’altro che rari, anche per cause non strettamente economiche, ma che attenevano al quadro politico e alle vicende belliche– avevano ripercussioni immediate su quanti vivevano di essa.46 Anzi, tanto più questa rappresentava il cuore dell’economia di una città, tanto maggiori erano le consegueur negative dei momenti di crisi. Da qui, la consapevolezza da parte dei governi di quanto la manifattura della lana giovasse all’economia e al benessere delle città.47
Coloro che traevano i mezzi per vivere lavorando la lana, appartenevano in larga parte agli strati sociali più bassi: erano indicati come ‘poveri’. Nelle fonti pubbliche e private il collegamento tra lavoratori subordinati della lana e condizione di povertà è pressoché costante. Il Costituto in volgare di Siena del 1309 sottolinea l’importanza dell’arte della lana perché «molte povare persone per lo ministerio de la detta arte continuamente si sostentino».48 Sempre a Siena nel 1366 si sottolinea come da tale manifattura traevano sostentamento «innumerabiles mares et femine pauperes».49 Giordano da Rivalto nelle sue prediche di inizio ‘300 definisce «feminelle povere» le addette alla filatura della lana.50 Nella Vicenza del primo ‘400 si dice che «bona pars pauperum personarum civitatis Vincentie et districtus vivit ex lanificio et eorum familias sustentant».51 In una lettera del 1410 scritta da ser Lapo Mazzei a Cristofano da Barberino si dice in riferimento a Firenze che «l’Arte della Lana non lavora; e la grande turba de’ poveri, che solea qui bere, fa con l’acqua»;52 ossia i lavoratori della lana, rimasti senza lavoro, non acquistavano più vino e bevevano acqua. Nella manifattura tessile –scrive Leon Battista Alberti una ventina di anni dopo– «s’adoperano molte mani [e] ivi in più persone il danaio si sparge, e così a molti poveri utilità ne viene».53
Non mancano testimonianze dirette da parte degli stessi lavoranti. Così un pettinatore di Prato dice di sé «lavora quando truova a l’esercizio di pettinare la lana»; uno scardassiere senese vive «dì per dì poveramente».54 A Milano nel 1485, in una supplica indirizzata a Galeazzo Maria Sforza, i pettinatori e gli scardassieri si definiscono «poverissimi et veneno meno et non hano el modo del vivere».55
Certo non tutti coloro che vivevano dell’arte della lana, svolgendo lavori manuali, erano ‘poveri’. Alcuni avevano posizioni economiche più solide (i tintori ad esempio, qualche tessitore proprietario di più telai, qualche addetto alle gualchiere);56 ma la maggior parte, di gran lunga, costituiva quella fascia sociale a rischio di scivolare nell’indigenza ogni qual volta si presentassero momenti di congiuntura negativa, quali il rincaro dei prezzi di prima necessità o la discontinuità dell’occupazione.57
Gli interventi dei governi cittadini nei confronti della manifattura laniera ebbero come obiettivo principale l’impianto e l’incremento della produzione locale e, successivamente, la difesa dalla concorrenza esterna.
Vanno nella prima direzione l’attenzione e il favore con cui si guardava all’immigrazione di maestranze specializzate in grado di dare impulso alla locale arte della lana. È un fenomeno che incontriamo in molte realtà urbane e per un arco cronologico ampio. Le difficoltà di varia natura attraversate da alcune città manifatturiere, in Italia e fuori d’Italia, provocavano esodi di artigiani specializzati attirati altrove da incentivi quali esenzioni dal carico fiscale e dal pagamento della tassa di iscrizione all’Arte, agevolazioni sulla casa di abitazione o sull’apertura di botteghe, concessioni di prestiti, ecc.58
In qualche caso le città adottarono interventi di natura dirigistica –non si sa quanto coronati da successo– come fu il caso del Comune di Siena che cercò più volte, a cavallo fra Tre e Quattrocento, di imporre all’Arte di confezionare un numero minimo di panni l’anno e di qualità superiore.59 In altri casi si mirava a diversificare e a migliorare la produzione prendendo a modello i tessuti di altre città.60 Del resto fabbricare panni a imitazione di quelli prodotti altrove era allora prassi comune.61
Interventi sicuramente più efficaci riguardarono la costruzione a spese dell’erario degli impianti necessari al processo produttivo (fonti, lavatoi, gualchiere, tiratoi, fondaci, ecc.) e di conseguenza, in molti casi, la proprietà pubblica di essi, ulteriore prova dell’importanza attribuita alla manifattura laniera. Le testimonianze in tal senso sono numerose e riguardano centri manifatturieri di diverso rilievo, distribuiti nelle varie parti dell’Italia centro-settentrionale.62
La difesa delle manifatture locali passò spesso attraverso provvedimenti protezionistici che vietavano l’importazione di panni forestieri,63 o che penalizzavano le manifatture dei centri soggetti a vantaggio di quella della città dominante.64 Provvedimenti che non sempre brillavano per coerenza ed efficacia.
Il più delle volte nei provvedimenti adottati venivano a coincidere gli interessi dell’Arte della lana (intesa come corporazione dei lanaioli) e quelli della cittadinanza nel suo complesso. Ma non sempre era così. Ad esempio, l’esenzione per gli artigiani immigrati dal pagamento della tassa di immatricolazione all’Arte non era vista di buon occhio da chi di tale corporazione faceva parte. Il divieto di importazione di tessuti forestieri poteva danneggiare altri settori economici della città per il mancato arrivo di mercanti che in genere, venduti i panni, acquistavano altre merci.65
In genere le magistrature cittadine non intervenivano in merito ai rapporti tra lanaioli e manodopera sottoposta per quanto riguardava l’organizzazione del processo produttivo con i vari obblighi e divieti: le competenze e il potere di intervento spettavano ai vertici dell’Arte ed erano regolati dallo statuto della corporazione. Così assai raramente gli statuti comunali fissano i salari massimi del settore laniero, a differenza di quanto accadeva per i lavoratori a giornata impiegati nell’edilizia e in agricoltura; questo anche nel periodo della ‘crisi’ del Trecento, quando il forte calo demografico e la conseguente scarsità di manodopera provocarono un rialzo generalizzato delle retribuzioni e l’intervento delle autorità pubbliche che miravano a contenerne l’aumento.66 Si aggiunga che i rapporti di lavoro a cottimo, del tutto prevalenti nella manifattura tessile, erano più difficilmente regolamentabili rispetto ai salari pagati a giornata.
Non mancano tuttavia –anche se abbastanza rari– provvedimenti a favore dei lavoratori sottoposti, in contrasto con gli interessi dei lanaioli. Vanno in questa direzione gli interventi che proibivano ai lanaioli di retribuire i lavoranti in natura, come accadde nel 1462 a Vicenza quando il Consiglio cittadino accolse la richiesta avanzata da tante povere persone «dietim viventium ex dicto misterio», ovvero filatori, scardassieri, pettinatori, tessitori, che chiedevano di essere pagati esclusivamente in denaro, e non con capi di abbigliamento, tele, vino, frumento e altre merci, per altro sopravvalutate.67
Altri provvedimenti che in qualche modo venivano incontro alle difficoltà che affliggevano i lavoratori della lana –e il popolo minuto in genere– riguardavano la moratoria sui piccoli debiti. La manodopera sottoposta versava di continuo in una condizione di indebitamento, come attestano con ricchezza di particolari le fonti pubbliche (fiscali e giudiziarie)68 e la contabilità privata. Ricordiamo ad esempio che il banco ebraico fiorentino dei Quattro Pavoni negli anni Settanta del ‘400 elargì, nell’arco di appena 17 mesi, quasi 40 mila prestiti su pegno, in gran parte per cifre modeste: da qualche decina di soldi fino a 5-10 lire. La clientela del banco era costituita in netta prevalenza da modesti artigiani e da lavoratori delle manifatture tessili cittadine, soprattutto della lana: questi ultimi rappresentavano quasi il 20 % del totale degli indebitati; ovvero 7-8 mila nell’arco del periodo considerato. Il pegno consisteva nel 75 % dei casi in capi di abbigliamento, in genere di modesto valore.69
Ebbene in periodi di congiuntura negativa, effetto del forte rincaro del prezzo del grano o delle difficoltà attraversate dalla manifattura tessile, non era raro che le città approvassero una moratoria sui piccoli debiti, per impedire che i debitori insolventi fossero incarcerati o ulteriormente vessati.70 Tale provvedimento si aggiungeva ad altri, assai più gravosi per l’erario, quali l’acquisto di grosse partite di grano forestiero, che era poi venduto in città a prezzo politico, o l’istituzione di forni pubblici, che distribuivano il pane ai meno abbienti. I governi erano ben consapevoli di quanto le carestie fossero pericolose per le città: una massa di gente affamata, che non aveva i mezzi per comprare il necessario per vivere rappresentava un pericolo per il regime e poteva essere strumentalizzata dagli oppositori interni.71 Le stesse Arti, in particolare quella della lana, erano chiamate a corrispondere finanziamenti al Comune per acquistare grano in periodi di difficoltà.72
La prosperità dell’arte della lana costituiva dunque una preoccupazione costante dei governi per gli effetti benefici che assicurava alla città e ai suoi abitanti: dai ricchi mercanti-imprenditori, ai lanaioli titolari di bottega sino al livello sociale più basso, quello dei lavoratori sottoposti.73 Non che le classi superiori avessero molta simpatia per questi ultimi: disprezzo e timore erano i sentimenti prevalenti soprattutto in occasione di disordini e di conflitti sociali;74 solo tra i religiosi, in particolare all’interno degli Ordini mendicanti, si incontra un atteggiamento di umana comprensione dei loro bisogni.75 Ma era interesse dei governi cittadini che il numero degli indigenti non si allargasse, restasse limitato a quanti non erano in grado di lavorare (vecchi, malati, mutilati, vedove, orfani, ecc.), oggetto dell’attività assistenziale di ospedali e confraternite. Nella sua Summa theologica Antonino Pierozzi (sant’Antonino), vescovo di Firenze, invitava a metà ‘400 le autorità secolari a preoccuparsi «ut cives non deducantur in pauperiem».76 Una manifattura laniera in salute impediva che la fascia dei senza lavoro, e quindi dell’indigenza, si allargasse, che il numero dei poveri crescesse ulteriormente con le conseguenze che ne potevano derivare per il «pacifico e tranquillo stato» della città. Assicurare il lavoro, e quindi il necessario per vivere, a una componente ampia della popolazione rappresentava una sorta di intervento preventivo. In una visione del bene comune, o publica utilitas, che aveva come punti di riferimento la pace, la giustizia, la prosperità, era indispensabile riuscire a sopire e a controllare le tensioni sociali.77 I provvedimenti a favore dell’arte della lana, che andavano direttamente o indirettamente a vantaggio della gran massa di lavoratori sottoposti, rappresentavano una forma di protezione della parte più fragile della popolazione urbana prima che si facesse ricorso alla vera e propria beneficienza. È significativo che nel già ricordato provvedimento vicentino del 1462 il pagamento del salario in natura da parte dei lanaioli, che accentuava il disagio dei lavoratori sottoposti, venisse definito «contra opus charitatis».78 Era in sostanza lo stesso giudizio che veniva espresso, più o meno nel medesimo torno di tempo, da Bernardino da Siena e da Antonino Pierozzi quando denunciavano le frodi dei lanaioli a danno dei sottoposti, pagati appunto in natura e non in moneta.79
La concezione del lavoro come prima forma di lotta contro la povertà è dunque già presente nelle società urbane dell’Italia bassomedievale: proseguirà poi –anche se non sempre in modo lineare– in età moderna e, in forme più articolate e consapevoli, nei secoli a noi più vicini.80
Proprio in questo i centri della Penisola sembrano distinguersi dalle altre città dell’Occidente medievale, dove sicuramente era forte la consapevolezza di quanto fosse importante la presenza di una grande manifattura laniera,81 ma non risulta altrettanto presente nella visione degli organi di governo –o quanto meno non viene espressa in termini così espliciti– la funzione sociale che essa era in grado di svolgere.
1 Passo citato in Ph. Jones, «La storia economica. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XIV», in Storia d’Italia, 2, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino, 1974, pp. 1468-1819, a p. 1728. Concetti simili si incontrano nella documentazione dell’arte della lana di Piacenza e di Gubbio (ibidem, p. 1765).
2 «ab experto cognoscitur civitates et terre gentibus replentur et abundant divitiis si in eis ministerium et ars lane frequentetur et augmentatur»: cit. in F. Franceschi, «Istituzioni e attività economica a Firenze: considerazioni sul governo del settore industriale (13501450)», in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, Roma, 1994, pp. 76-117, a p. 76, nota 2 (riprendendo da Pietro Silva), e poi in A. Poloni, «Nec compelli possit effici civis pisanus»: sviluppo dell’industria laniera e immigrazione di maestranze forestiere a Pisa nel XIII e XIV secolo», in Cittadinanza e mestieri. Radicamento urbano e integrazione nelle città bassomedievali (secc. XIII-XVI), a cura di B. Del Bo, Roma, 2014, pp. 235-261, a p. 255.
3 Documento edito in R. Cessi, Le corporazioni dei mercanti di panni e della lana in Padova fino a tutto il secolo XIV, Venezia, 1908, pp. 82-83.
4 Archivio di Stato di Siena, Consiglio generale, 175, c. 43r, 3 ottobre 1366.
5 Statuti dell’Arte della lana di Prato (secoli XIV-XVIII), a cura di R. Piattoli e R. Nuti, Firenze, 1947, p. 127.
6 Passo citato in Franceschi, «Istituzioni e attività economica a Firenze »cit., p. 77.
7 Ibidem, p. 79.
8 G. B. Zanazzo, L’arte della lana in Vicenza (secoli XIII-XV), Venezia, 1914, p. 69.
9 E. Demo, L’ «anima della città». L’industria tessile a Verona e a Vicenza (1400-1550), Milano, 2001.