Kitabı oku: «Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 2», sayfa 9
CAPITOLO XXIII
Porta-Longa. – Bastimenti Europei. – Ipsilanti. – Continuazione del viaggio. – Burrasca. – Arrivo in Alessandria. – Uragano. – Spaventosa burrasca. – Arrivo a Cipro. – Pessimo stato del bastimento. – Sbarco a Limmassol.
Io rimasi a Modone fino al 20 febbrajo dì sera, quando il capitano mi avvisò d'essere pronto a partire. Perciò entrai nella scialuppa che mi condusse a Porta-Longa, ove trovai tre bastimenti austriaci, i di cui capitani mi diedero all'indomani una piccola festa.
I venti d'E. ci obbligarono a restare tre giorni in quel porto della costa orientale dell'isola Sapienza. Due esatte osservazioni fatte in terra mi diedero la latitudine settentrionale di 36° 46′ 37″.
In questo frattempo si approvisionò la nave di viveri presi a Modone, come pure d'acqua piovana raccolta nell'isola.
Nell'ultimo giorno entrarono in porto una grande ourca Russa armata, ed un altro bastimento procedente da Napoli e da Corfù, i quali portavano ufficiali e soldati Russi sulle coste del Mar Nero.
Vennero a visitarmi un general maggiore ed alcuni ufficiali. Il generale parvemi un buon uomo; era vestito di nero, con una piccola berretta di cuojo in capo dello stesso colore, ed una corona composta d'una dozzina di grani grossi come una noce che teneva in mano. Gli ufficiali avevano tutti presa l'aria e le maniere inglesi. Erano accompagnati da un Greco, chiamato Costantino Ipsilanti, nipote del famoso principe di tal nome. Questo giovane che aveva servito in qualità d'ufficiale nelle guardie vallone di Spagna, mi parve un dizionario poliglotto ambulante, perciocchè parlava e faceva versi in dieci o dodici lingue. Io l'udii parlare inglese, francese, spagnuolo, italiano assai bene: sgraziatamente per altro con tante cognizioni e talenti, le sue idee erano frequentemente confuse.
Poichè si ritirarono, io mandai loro un piccolo regalo di latte, e di rinfreschi, cui corrisposero con una scarica generale dell'artiglieria dei due bastimenti. Ipsilanti mi spedì i seguenti versi:
«Volerà di lido in lido
La tua gloria vincitrice,
E d'oblio trionfatrice
La tua fama viverà.
«E non solo in questi boschi
Sarà noto il tuo coraggio
Ma ogni popolo più saggio,
Al tuo nome, al tuo valore
Simulacri innalzerà.»
«In segno di verace stima
e profondo rispetto
«L'infimo sì, però servo sincero
Costantino Ipsilanti.»
Se come pare questi versi improvvisati sono suoi, può riguardarsi il Greco Ipsilanti come l'uomo attualmente più istrutto della sua nazione.
All'indomani mattina 21 febbrajo si mise alla vela per continuare la nostra navigazione al S. O., avendo il capitano alla fine risolto di passare al largo di Candia senza entrare nell'Arcipelago.
Il vento di N. O. cominciò a rinfrescarsi a mezzodì, e verso sera erasi cangiato in decisa burrasca. Si corse tutta la notte, ed il susseguente giorno con colpi di mare terribili; ma in su le nove della sera il vento calmossi alquanto, ed il pericolo cessò.
Moderati furono i venti del susseguente giorno benchè il mare continuasse ad essere grosso. Io trovavami in un estremo stato di debolezza; niente potendo mangiare o ritenere nello stomaco, e vomitando sangue. Quasi tutti i passeggieri trovavansi egualmente ammalati, e nel più compassionevole stato. Il capitano peggiorava i nostri mali prolungando il tragitto, perchè faceva di notte piegar le vele onde poter dormire a suo agio, dopo aver passata un'ora a cantar canzoni in onore di Bacco in mezzo alle bottiglie; ciò che non lasciò di fare in tempo di burrasca. Io non avrei mai creduto d'incontrarmi in un capitano Turco così dedito all'ubbriachezza, e così poco guardingo nel celarla. Molte volte pregavami di alzarmi per osservare la nostra posizione, perchè egli non teneva verun conto di stima, nemmanco per approssimazione; e trovavasi come un cieco in alto mare senza sapere da qual parte andare: cosa che faceva disperare i passeggieri, onde mi pregavano tutti a levarli da tanto imbarrazzo.
Portato a guisa d'un moribondo su le spalle di alcuni uomini veniva spesso sul ponte. E perchè non avevasi veruna stima della nostra posizione, feci varie osservazioni del Sole e di Venere, e per approssimazioni successive, fui a portata di determinare con esattezza il nostro punto, che trovai di già ben vicino ad Alessandria. Tale notizia rincorò tutti i passaggieri.
All'indomani mattina 3 marzo avendo trovato che la nostra longitudine era vicinissima a quella di Alessandria, feci drizzar bordo al S. per trovar terra. Si scoperse infatti prima di mezzogiorno, e da quest'istante la gioja fu universale. Ma perchè è una spiaggia assai bassa ed uniforme, non trovavo verun punto che me la facesse distinguere.
Osservai la latitudine meridionale, e la trovai quasi affatto la stessa di quella d'Alessandria. Feci girar di bordo all'E. con vento fresco di N. O. che ci faceva avanzare gagliardamente.
Ad un'ora e mezza si scopri Alessandria in faccia a noi. Due ore dopo eravamo già presso al porto; e le case sembravano tanto vicine da toccarsi colla mano: tutti saltando per allegrezza, si vestivano, e disponevansi a scendere a terra; già preparavansi le ancore… Nel medesimo istante in cui afferravamo la bocca del porto col vento più favorevole, uno spaventoso colpo d'uragano colpisce la nave ed impietrisce il capitano.
Il suo secondo, ed i marinaj si ostinano a voler entrare in porto; il capitano vi si oppone, si fa ubbidire a colpi di bastone, e correndo sul ponte rimette la prora al mare. Si scongiura di prendere l'altro porto d'Alessandria, o quello d'Aboukir: ma sordo alle preghiere riprende il mare, e ci porta in seno alla burrasca la più orribile che immaginar si possa.
La furia del vento e delle onde s'accrebbe a segno che verso sera tutti i passeggieri si credettero perduti, e già imploravano ad alte grida la Divina misericordia. Salii sul ponte, e vidi uno spettacolo d'orrore. Le onde più alte assai del vascello venivano le une sulle altre a rompervisi contro; e formavano come una specie di nebbia densa, che a traverso dalla incerta luce del crepuscolo confondeva la vista del cielo con quella del mare; tutti gli oggetti sembravano d'un color grigio che piegava al rossiccio; le vele erano squarciate, il bastimento faceva acqua da tutte le parti, e le pompe non bastavano per diminuirne la quantità. La maggior parte de' passeggieri tremanti, sembravano moribondi; molti marinai erano feriti, sia pei colpi loro dati dal capitano, sia per le cadute ed i colpi della manovra. Il bastimento era raggirato come una palla da giuoco tra i due elementi che lo battevano. Tale fu io spaventoso quadro che s'offerse a' miei occhi. Il capitano mi s'avvicinò colle lagrime agli occhi, e mi disse; che potrei io fare, Sedi Alì Bey? Se è volontà di Dio che noi moriamo qui, questa notte, che andiamo noi ad essere?… Io gli risposi soltanto: Ah! capitano… e non volli proseguire, perchè la cattiva sua condotta, e la sciocca sua ostinazione ne avevano condotti a tale estremità, ch'egli avrebbe potuto schivare entrando in uno dei porti d'Alessandria, o meglio ancora s'egli avesse vegliato la precedente notte; nel qual caso saremmo entrati in porto avanti il mezzogiorno.
Questa terribile burrasca si andò alquanto calmando in sul cominciar della notte. Così urgente pericolo non impedì al capitano di chiudersi nella sua camera, ove poich'ebbe bevute alcune bottiglie di vino s'addormentò così tranquillamente come se fosse stato all'ancora. Lo stesso fece il suo secondo poich'ebbe fatto assicurare il timone. I marinai stanchi e senza capo, sparirono l'un dopo altro andando per dormire sotto coperta. Io rimasi sul ponte con un marinajo maltese e due napolitani. Quale spettacolo presenta una nave della grandezza di una fregata, sbattuta da violenta burrasca, facendo acqua in ogni lato, senza capitano, senza piloto, senza marinaj, col timone attaccato, e totalmente abbandonata al furore dei venti e delle onde!
Alle dieci ore della sera il vento rinforzò ancora, ed i colpi di mare si resero più gagliardi e più frequenti. Vedendo che la burrasca prendeva nuovo vigore, ero preparato ad una crisi terribile nell'atto del passaggio della luna per il meridiano; e non potendo assolutamente contare sul capitano, nè sull'equipaggio, ritenni ogni cosa perduta.
Alle undici ore la luna passò il meridiano, crebbe la burrasca, ed a mezzanotte era più orribile che mai. Malgrado la luna, ci trovavamo tra le più dense tenebre; montagne di flutti ne coprivano di quando in quando, e la pioggia, e la grandine alternavano col furore del mare. I lampi illuminavano questa scena d'orrore, ma non si udiva il fracasso del tuono, reso nullo da quello delle onde somigliante al ruggito di mille lioni e tori; e per colmo di sventura il bastimento, in tale estremità era, per così dire, abbandonato dal capitano e dall'equipaggio!.. Io mi trovavo affatto debole, ed omai fuori d'ogni speranza di salvezza: ma la considerazione che vent'anni di vita più o meno passano come un sogno, ed alcune altre riflessioni calmarono il mio spirito; e rimasi alcun tempo aspettando tranquillamente il fatale istante.
La burrasca continuava colla medesima forza. Vidi più volte cadermi il fulmine vicino, e parvemi ancora di averlo altra volta osservato guizzar dal mare verso le nubi. Ottenni intanto di risvegliare il secondo ed alcuni marinaj, i quali cominciarono a pompar acqua, mentre il secondo ch'era un uomo colossale, preso il timone, cercava di presentar la prora alle onde: queste due operazioni furono assai utili. Finalmente alle due ore dopo la mezzanotte vidi innanzi alla prora risplendere una fiamma che parvemi avesse tre piedi di diametro; ma perchè non potevo calcolarne la distanza non mi fu possibile di conoscerne l'effettiva grandezza. La sua esplosione si eseguì senza lampo e senza apparente movimento; la sua luce brillante come il sole durò tre in quattro secondi. La figura di questa meteora parvemi quella d'un sacco che si vuota, e di cui si svolge la tela. Turchino e rossastro fu l'ultimo raggio di luce.
Lo sparire della meteora fu seguito da un orribile colpo di mare, di vento, di grandine, che durò fino alle tre ore. Allora la tempesta cominciò a scemarsi quantunque fosse ancora assai violenta fin dopo il levarsi del sole; continuando a mantenersi tutto il giorno il vento N. O., e l'onda grandissima.
Il cinque di marzo poi ch'ebbi osservata la mia posizione, il capitano decise che non potevasi arrivare ad Alessandria; e risolse di passare a Cipro. Diressi perciò la nave a quella volta, ed in tre giorni di navigazione con venti sempre furiosi, ed il mare grossissimo, si diede fondo nella rada di Limmassol nell'isola di Cipro il 7 marzo 1806.
Come potrei io descrivere il miserabile stato del nostro bastimento? Tutte le vele squarciate, e senza averne di cambio; il corpo faceva acqua in ogni lato a segno che le pompe dovevano sempre essere in azione; tutte le genti ammalate; venti che sembravano prossimi a spirare: uno era morto il giorno 4, ed il suo corpo era stato gettato in mare, un altro morì il giorno che si prese porto, due altri erano agonizzanti, e due impazziti. Gli uomini dell'equipaggio ajutandosi a vicenda per iscendere a terra fuggirono tutti lasciando il capitano a bordo con tre o quattro marinaj turchi. Tutti ci affrettammo di sbarcare. Gli abitanti in vista dell'infelice stato del bastimento, se ne allontanarono: niuno voleva montare a bordo; e fu duopo che il governatore della città ordinasse ad alcuni calafattaj di chiudere almeno le principali aperture del carcasso per salvar la nave, che faceva temere di colare ben tosto al fondo.
Si pretese che la cattiva acqua dell'isola Sapienza avesse pregiudicata la salute della nostra gente, e che il vapore di alcuni quintali di zafferano avesse viziata l'aria del bastimento: ma il peggio di tutto fu, che in molti giorni che fummo agitati dalle burrasche, furonvi sempre più d'ottanta persone chiuse sotto senza la menoma apertura per respirare: tutti eravamo tristi ed abbattuti non avendo altro che pochi cibi freddi, e gli escrementi di tante persone gettate in fondo alla cala. Da ciò è facile l'immaginarsi lo stato di quegl'infelici. Rispetto a me, fortunatamente la camera di poppa ov'io ero solo, non aveva comunicazione colla sotto coperta.
Allorchè sbarcai a Limassol mi si presentarono alcuni Turchi e Greci; ai quali avendo chiesto un alloggio, mi condussero in una bella casa, di cui ne presi possesso coi miei domestici. In seguito venne ad offrirmi i suoi servigi il governatore turco che è un agà, e spedì due scialuppe con un ufficiale per isbarcare i miei effetti, che alla dogana non furono visitati. In ogni cosa fui trattato con quella delicatezza che avrei potuto desiderare nella più cortese città d'Europa.
Colui che qui aveva cura de' miei affari era il più ricco greco, Dometrio Francondi, allora vice console d'Inghilterra, e di Russia, e console di Napoli: parlava assai bene l'italiano, ed era egualmente rispettato dai greci, e dai turchi.
Era alloggiato in sua casa un inglese chiamato il sig. Rich, che risiedeva al Cairo, come egli diceva, per amministrarvi gli affari della compagnia delle Indie. Questo giovane preveniente che parlava senza stento il turco, ed il persiano, ed aveva adottati gli usi e le costumanze mussulmane mi accompagnava spesso a pranzo, e parlavami sempre con entusiasmo di Mamlouk Ali-Bey.
Trovavasi pure presso il sig. Francondi un eunuco nero, ch'era uno dei quattro capi del serraglio del Gran Signore: chiamavasi Lala, e si recava alla guardia del sepolcro del Profeta a Medina. Allorchè arrivò a Limassol rimase mortalmemte ferito da alcuni soldati, che avevano attaccato uno de' suoi domestici; e questo uomo dotato del più dolce carattere che mai possa immaginarsi, perì vittima di tale accidente.
Uno de' miei domestici era ammalato in conseguenza delle fatiche sofferte sul bastimento. Eranvi nella moschea molti altri sventurati nello stato medesimo.
Il 21 marzo morì una delle donne ch'erano sulla nave, il 25 si perdette un altro passeggiere, ed un altro mio domestico ammalossi il giorno 23.
CAPITOLO XXIV
Viaggio a Nicosia. – Descrizione di questa città. – Architettura. – Visite d'etichetta. – Arcivescovi, e Vescovi. – Tributi dei Greci. – Donne. – Ignoranza. – Chiese Turche. – Moschee.
Trovandomi nel paese reso famoso dalle descrizioni che fecero i poeti delle gentili avventure della madre d'Amore, volli visitare i siti più celebri di Citera, d'Idalia, di Pafo, d'Amatunta, accompagnato soltanto dal sig. Francondi, da suo figlio, e da quattro domestici. Il 28 marzo 1806 partii alle cinque del mattino, prendendo la strada all'E.
Appena passato il fiume d'Amatunta che scorre al S. per isboccare poco dopo in mare, trovai in riva al mare stesso le ruine della città, di cui vedremo più sotto la descrizione. Di là seguendo la stessa direzione al N. O., entrai nelle montagne, ove a mezzogiorno fui sorpreso dalla burrasca, ed all'un'ora e un quarto giunsi al villaggio di Togui.
Il paese attraversato questo giorno offre le più ridenti prospettive. Da Limassol alle ruine la strada costeggia il mare, e la terra offre piccole pianure dolcemente inclinate che vanno a terminarsi in amene colline coperte di un bel verde. Al di là delle colline innalzasi una catena di alte montagne, le di cui cime erano coronate di neve. Il suolo formato di una terra vegetabile rossiccia è fertilissimo.
Le montagne attraversate dalla strada hanno un pendio assai dolce, e la più rigogliosa vegetazione anima questo grazioso paesaggio.
Il villaggio di Togui, le di cui case sono brutte, e mal fabbricate, trovasi in una pittoresca situazione sul declivio di due colline, abitata l'una dai greci, l'altra dai turchi. Passa tra le due colline un piccolo fiume sotto un ponte d'un solo arco, sopra il quale è fabbricata la chiesa de' greci dedicata a S. Elena.
Il 23 marzo partii alle sette ore ed un quarto, seguendo sempre la direzione dell'E., un'ora dopo si attraversò il fiume Scarino, che scorre al S., ed alle tre ore un altro fiume che va dalla stessa banda.
Alle nove e mezzo la strada piegò al N E., s'incominciò a salire sulle alte montagne. Si giunse alla sommità alle undici, e discendendo per un dolce pendio si attraversò mezz'ora dopo un villaggio, chiamato Corno, ove si entrò a mezzogiorno nel monastero greco di Aià Tecla (Santa Tecla).
Sortendo dal monastero ad un'ora e mezzo mi diressi al N. N. O. Alle due si guadò un piccolo fiume, e dopo un altro mi lasciai alle spalle il villaggio Traforio posto a piccola distanza dalla strada. Proseguendo trovammo a destra altro villaggio detto Tisdarchavi, ed attraversato un torrente, si giunse alle sei ore, tenendo sempre la stessa direzione, nella città di Nicosia capitale dell'isola.
Il paese ci presenta in principio piccole montagne fatte a scaglioni, e coperte di freschissima verzura, che ad ogni tratto ci offrivano ridenti prospettive veramente degne dell'amabile divinità cui era consacrata l'isola. Il suolo è composto di una eccellente terra vegetabile, quale potrebbe desiderarsi per un giardino. Le alte montagne sono formate da una roccia cornea a varie degradazioni di color verde, dal verde pomo fino al verde cupo; e vi si trovano ancora dei pezzi di cornea assai bella, e lucidissima.
Fermai un'istante il mio cavallo per esaminare queste roccie. Il sig. Francondi mi disse: queste roccie chiamansi Rocche di Corno. Gli chiesi, com'erasi formato tal nome, ed egli mi rispose; da un luogo che vedremo tra poco. È questo quel luogo di cui feci cenno nel descrivere la strada. Se è accidentale quest'incontro del nome vernacolo d'un villaggio colla denominazione mineralogica, sarebbe assai singolare; e nel contrario supposto qual mineralogista avrà fondato, o denominato così il villaggio di Corno? Sulla origine di questo villaggio non poterono darmi veruna notizia, lo che è una prova della sua antichità. Può avere, a dir molto trenta case, ma la sua posizione in mezzo ad una valle coperta d'ulivi e di cavoli è veramente deliziosa. Gli abitanti sono quasi tutti fabbricatori di stoviglie.
Queste montagne sono tutte sparse di cipressi selvaggi che formano macchie assai graziose. Quest'albero indigeno di Cipro, ne ha pure ricevuto il nome. Tra gli strati di roccia cornea vedonsi alcune vene e piccoli filoni di quarzo; ma non mi riuscì di vedervi verun indizio di granito. Che tali montagne siano metallifere, ne fanno prova la mica ch'esse contengono, e gli ossidi di rame e di ferro.
Dopo avere attraversato due ore dopo mezzogiorno un ruscello si entrò in un piano di una cattiva terra argillosa. Il piano può avere una lega di diametro, ed è chiuso all'E. da montagnette di pura argilla bianca, affatto sterile ed ignuda. Trovasi in sull'uscita di questo piccolo deserto un poco di terra vegetale, ma d'inferiore qualità. Tutte le pianure seguenti non presentano nè la fertilità, nè la bellezza della parte meridionale dell'isola.
Il monastero di Santa Tecla è in una ridente situazione sul pendio delle montagne cornee. Vi abita un solo monaco con molti domestici, e lavoratori che coltivano le terre del monastero. L'Arcivescovo di Nicosia, vero principe dell'isola, gode le entrate di questo monastero e di molti altri. Sotto alla chiesa di Santa Tecla sorge una fonte di eccellente acqua. La chiesa è ben tenuta; è nel monastero vi sono celle, ed abitazioni pei viaggiatori.
L'estensione di Nicosia, capitale dell'isola, la renderebbe capace di centomil'abitanti; ma è spopolata affatto: vi si vedono in vece di case molti orti assai vasti, e molti tratti di terreno ingombrati di ruine. Mi fu detto che attualmente non aveva più di mille famiglie turche, ed altrettante greche.
Questa città, posta sopra un rialto di alcuni piedi in mezzo ad un vasto piano, gode di un'aria purissima e di una amena vista. Scoscesa è la circonferenza del rialto, che serve di muro alla città con parapetto di pietre tagliate, e mezze lune ad angoli salienti e rientranti, di modo che è suscettibile di regolare difesa, ciò che gli dà un'importante aspetto. Ha tre porte dette di Pafo, di Chirigna, di Famagosta. L'ultima è magnifica essendo formata di una volta cilindrica che copre tutta la salita dall'inferior piano della campagna fino al superiore ov'è posta la città. A metà della salita v'è una cupola compressa, o segmento di sfera, nel centro della quale trovasi una fenestrella circolare per ricevere la luce. Questo monumento tutto formato di pietre tagliate, e di marmo comune rammenta l'eccellenza della greca architettura. La parte di città abitata dai greci non è affatto priva di belle strade; ma tutte le altre sono anguste affatto, ed inoltre sucide. e non selciate. Vedonsi alcune case molto belle, ed alcune ancora assai grandi. Quella in cui io alloggiai, e che apparteneva al dragomano di Cipro primo impiegato della nazione greca nell'isola può dirsi un vero palazzo, ed è vagamente ornata di colonne, di giardini, di fontane.
Qui gli edifici sono costrutti affatto diversamente da quelli di Barberia: colà non ricevono luce che dalla porta, qui per lo contrario non vedesi muro interno od esterno che non abbia due ranghi di finestre poste le une sopra le altre, ed in tanto numero, che nella camera da me più frequentata, la quale aveva 24 piedi in lunghezza sopra dodici di larghezza, se ne contavano quattordici oltre la porta. Il superiore ordine di finestre è chiuso da una griglia esterna, ed internamente di vetri: le inferiori hanno griglie, vetri ed imposte. Questa disposizione produce un buon effetto in case che hanno il tetto assai alto; e non devo dimenticar di dire che anche i muri di separazione, hanno le loro finestre come gli esterni. I corritoi o gallerie sono egualmente provvedute di griglie.
Il tetto ed una parte della scala sono fatti di legno; di marmo i pavimenti di tutte le camere, come pure i pilastri delle porte e delle finestre, ed il primo filare delle case: il rimanente delle muraglie è fatto di sassi comuni, di mattoni malcotti, e di calce. Il coperto non è di tegole, è piano, ed assai pesante: ed è forse a questa dannosa pratica che si deve imputare la distruzione di tutti gli antichi edificj, de' quali non altro rimane al presente che il palazzo, il quale vien chiamato Scraya, ossia Serraglio, monumento vasto e mal distribuito ove dimora il governatore generale dell'isola.
L'antica cattedrale d'Aïa Sophia (Santa Sofia), grandioso fabbricato gotico, fu ridotto in moschea di turchi, che coprirono le colonne con un grosso strato di calce, onde sembrano mostruosi cilindri: vi aggiunsero due torri assai ben fatte, ma discordanti affatto dal totale della fabbrica.
Perchè la legge ordina di pregare volgendosi verso la Mecca, non essendo questo tempio stato fatto pel culto mussulmano, si dovette nell'interno del medesimo alzare delle facciate o frontispicj di legno, posti obliquamente nella direzione della linea della Mecca, onde poter pregare nella situazione prescritta.
Tutti i Vescovi dell'isola erano venuti a Nicosia per ricevervi il nuovo governatore generale; e vi si trovavano egualmente molti de' più distinti personaggi dell'isola.
All'indomani del mio arrivo venne a trovarmi il Vescovo di Lamarca accompagnato da numerosa comitiva. Lo conobbi uomo di buon senso, di molto giudizio, ed assai istruito.
Il susseguente giorno accolsi la visita del Vescovo di Pafo, che quantunque giovane, mi parve assai destro, l'altro Vescovo di Chiriga, era gravemente indisposto.
L'Arcivescovo ritenuto dall'estrema sua vecchiaja, e dai dolori della gotta, mi mandò il suo Vescovo in partibus che ne fa le veci; il quale venne a trovarmi accompagnato dall'archimandrita, dall'economo, e da altri cinquanta preti. I tre dignitarj mi fecero mille scuse in nome dell'Arcivescovo, che malgrado il suo stato, voleva assolutamente farsi trasportare, se non n'era impedito.
Tra le molte riguardevoli persone, che mi frequentavano, distinsi in particolar maniera il sig. Nicolao Nicolidi, incaricato della dragomania di Cipro in assenza del Dragomano. Egli parla con tanta eloquenza anche improvvisamente, ch'io gli diedi il soprannome di moderno Demostene.
Il terzo giorno andai a visitare il governatore generale, che mi ricevette in grande cerimonia, circondato da molti ufficiali, soldati, e domestici armati fino ai denti. Alla porta della sala eravi una sentinella in piedi con una scure in ispalla.
Il governatore si alzò per ricevermi, e mi fece sedere al suo fianco sopra un magnifico sofà. Lo trovai uomo di spirito, pieno di fuoco, e mi fu detto ch'era assai colto. La conferenza che fu molto lunga, s'aggirò specialmente intorno ad oggetti politici. I signori Nicolidi e Francondi, che mi avevano accompagnato, mi servirono da interpreti, perchè il governatore non parlava l'arabo, nè alcuna lingua europea, ed io non intendeva la turca. Il governatore riccamente vestito, aveva una superba pelliccia. Gli fu recata la sua pipa persiana, che presentò a me, ed io rifiutai per non essere avvezzo a fumare. Sei paggi dell'età di quindici anni, di bella e vantaggiosa statura, doviziosamente vestiti di raso, e di finissimi scialli cachemiri servivano di caffè; ed in appresso mi profumarono e mi spruzzarono d'acqua di rose. Partendo, il governatore volle accompagnarmi fino alla porta dell'appartamento.
Passai in seguito nella camera d'un suo fratello, che è un buon vecchio: ci fece anch'egli servire di caffè, e si accese d'entusiasmo per me quando seppe ch'io mi disponeva a fare il viaggio della Mecca, ov'egli era stato più volte. Mi diede alcuni consigli, e ci separammo egualmente contenti l'uno dall'altro.
Terminata la visita al serraglio passai al palazzo dell'Arcivescovo. Trovai alla porta l'archimandrita e l'economo, con venti in trenta domestici per ricevermi. A piè della scala fui preso da molti preti, e portato fino alla prima galleria, ove mi ricevette il Vescovo in partibus, con molti altri preti. Nella seconda galleria trovai l'Arcivescovo. Questo venerabile vecchio quantunque avesse le gambe straordinariamente enfiate, erasi fatto colà trasportare dal Vescovo di Pafo, e da cinque o sei altre persone, per venirmi incontro. Gli feci degli amichevoli rimproveri per essersi presa tanta pena, e presolo per mano lo seguii nella sua camera.
Il dottor Brunoni medico italiano domiciliato a Nicosia, il quale aveva tutte adottate le usanze, i costumi, e le greche maniere, mi servì d'interprete. È questi un uomo di bell'umore, accorto assai, e senza verun pregiudizio.
Il venerabile Arcivescovo mi fece il racconto delle violenti vessazioni sofferte nel precedente anno dai turchi ribelli dell'isola; ed io procurai di consolare questo cuore ancora esulcerato dalle recenti ingiurie. Si parlò assai intorno a ciò, e dopo i consueti onori del caffè, de' profumi, e dell'acqua nanfa, ci separammo presi da vicendevole affetto.
Visitai in appresso nelle loro abitazioni l'economo e l'archimandrita, ove trovai pure il Vescovo di Pafo, ed il Vescovo in partibus. Ma quale non fu la mia sorpresa, allorchè sortendo vidi ancora il venerabile Arcivescovo nella galleria, ov'erasi fatto condurre per darmi un'ultimo addio! Non saprei dire quanto mi toccasse questo tratto del venerando vecchio. Volli fargliene un dolce rimprovero, ma la parola si spense sulle mie labra.
L'Arcivescovo di Cipro patriarca indipendente in seno della chiesa greca, è inoltre il principe, o capo supremo spirituale e temporale della nazione greca nell'isola. Egli risponde verso il Gran Signore delle imposte e della condotta de' Ciprioti greci. Per non entrare nelle particolarità degli affari criminosi, e per iscaricarsi di una parte del governo temporale, ha delegati i suoi poteri al dragomano di Cipro, il quale in forza di tale delegazione è diventato la primaria autorità civile: egli trovasi per il rango e per le attribuzioni eguale ad un principe della nazione, perchè il governatore non può far nulla contro un greco senza la partecipazione e l'intromissione del dragomano, che trovasi pure incaricato di portare a' piè del trono del Gran Signore i voti della nazione.
Eravi stata l'anno avanti nell'isola una gagliarda sommossa de' turchi contro il dragomano. Essendosi costoro impadroniti di Nicosia vi commisero infinite atrocità contro l'Arcivescovo e contro gli altri greci, uccidendo coloro che rifiutavansi di dar loro del danaro. Il dragomano fuggì a Costantinopoli, ove non solo vinse la causa in favore dei greci, ma ottenne ancora l'ordine di far marciare un pascià con truppe della Caramania, contro i ribelli ch'eransi chiusi in Nicosia.
In così difficile situazione l'economo fu l'angelo tutelare della nazione, essendo riuscito coi suoi talenti a calmare alquanto il furore dei faziosi.
Dopo varj combattimenti questi entrarono in trattative col pascià, il quale per l'intromissione di alcuni consoli europei, promise di non castigarli. A tale condizione i ribelli aprirono le porte della città: ma senza aver riguardo alla data fede, il pascià appena entratovi ne fece decapitar molti.
Questo avvenimento umiliò i turchi dell'isola, ed incoraggiò i greci che affettano una certa qual'aria d'indipendenza. Il dragomano trattenevasi tuttavia a Costantinopoli; ma se io non potei conoscerlo personalmente, le sue opere da me vedute lo fanno conoscere per un uomo dotato di spirito e di talento.
Ho di già fatto osservare che in ciò che spetta allo spirituale l'Arcivescovo di Cipro è patriarca indipendente: e perciò egli non ha veruna relazione col patriarca di Costantinopoli, ma bensì con quello di Gerusalemme per rispetto ai luoghi santi, i di cui sacerdoti possedono alcune proprietà nell'isola.
L'Arcivescovo conferisce i vescovadi e le altre dignità, ed impieghi ecclesiastici dietro la presentazione del popolo; ed accorda le dispense matrimoniali ne' gradi proibiti.
L'Arcivescovo, i Vescovi, e gli altri grandi dignitarj non possono ammogliarsi: ma viene permesso d'aver moglie ai semplici sacerdoti secolari, i quali la sposarono avanti di diventar preti: e se questa muore non possono passare a seconde nozze. L'attuale Arcivescovo è vedovo, ed ha un figlio. I monaci sono a perpetuità obbligati al celibato.