Kitabı oku: «Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 3», sayfa 3
CAPITOLO XXXII
Viaggio a Suez. – Navigli Arabi. – Tragitto del mar Rosso. – Pericolo della Nave. – Arrivo a Diedda. – Vertenza col governatore. – Diedda.
Agli 11 di dicembre, essendo terminato il Ramadan, feci le necessarie disposizioni per proseguire il viaggio della Mecca. Varj miei amici scrissero ai loro corrispondenti di Suez, di Diedda, e della Mecca, per prepararmi alloggio e protezione in tutti i luoghi in cui doveva trattenermi; ed il lunedì 15 dicembre 1806 uscii dal Cairo accompagnato da molti scheik. A non molta distanza dalla città presi congedo da questi buoni amici, cui non poteva permettere d'avanzarsi più oltre nel deserto, e due o tre ore dopo, feci alto ad Ahsas lontano mezza lega al Nord di Mafarieh3.
Ad Ahsas attesi due giorni sotto la tenda la riunione d'una numerosa carovana. In questo frattempo alcuni amici del Cairo sì musulmani che cristiani vennero a trovarmi, e tra questi il console francese accompagnato da molte persone, e da cinque Mamelucchi rinnegati Francesi al servizio di Mehemed Ali. Interpellai costoro se fossero contenti del presente loro stato, e seppi che dopo aver fatto parte dell'armata francese, avevano preso il turbante, e che trovavansi vantaggiosamente stabiliti in Egitto colle loro famiglie. Hanno una piastra spagnuola al giorno, ed essendo quasi sempre in commissione ne' villaggi per riscuotere le contribuzioni e per altri oggetti, ne ritraggono considerabili vantaggi. Hanno inoltre bellissimi cavalli, e sono riccamente equipaggiati.
Il segno della partenza fu dato il Giovedì 18 a mezzogiorno, e subito si videro arrivare da tutte le bande lunghe file di cammelli che uscivano dai rispettivi accampamenti per riunirsi agli altri, che tutti si posero in cammino a traverso il deserto dirigendosi a levante.
Io non conduceva meco che quattordici cammelli, avendo lasciati in Egitto la maggior parte de' miei effetti ed alcuni domestici. La carovana conteneva cinquemila cammelli, e due in trecento cavalli, ed era composta di musulmani d'ogni nazione che facevano il pellegrinaggio della Mecca. I cammelli camminano in lunga fila, e con un passo eguale come quello di un pendulo. Si passò parte della notte accampati in mezzo al deserto.
Venerdì 19 dicembre
Siccome la carovana camminava lentamente, tenendo sempre la medesima direzione io la sopravanzava, accompagnato da due domestici, i quali tendevano un piccolo tappeto ed un cuscino presso la strada, e su questo restava seduto più di tre quarti d'ora che richiedevansi pel passaggio della carovana; ed allora rimontando a cavallo ripeteva la stessa operazione tre o quattro volte al giorno, ingannando in tal modo il tedio di quel lento viaggio.
Tutto questo deserto è composto di colline di arena affatto sciolta, e priva di qualunque essere vegetabile o animale; non un insetto, non un uccello. Scopresi a destra in molta distanza una diramazione del Djebèl Mokkattàm, ossia montagna tagliata del Cairo, che si prolunga fin presso a Suez.
Sabato 20
Si riprese il cammino in sul far del giorno; e giunto sulla sommità d'una collina vidi in molta distanza la città di Suez. Allora tutti quelli ch'erano a cavallo, e gli Arabi armati, sui cammelli o sui dromedarj, si posero in sul davanti della carovana formando come una linea di battaglia, e proseguirono la marcia così ordinati. Non molto dopo scoprimmo un branco di gente a cavallo che sortiva da Suez per venirci incontro. Già ci preparavamo a difenderci, quando si riconobbero per soldati Arnauti, ed abitanti di Suez: la gioja sottentrò al timore, e riunitisi insieme i due corpi si rinnovarono le allegrezze.
Noi marciavamo collo stess'ordine sopra una lunga linea, mentre alcuni Arabi staccandosi qua e là a destra ed a sinistra, si sfidavano l'un l'altro e divertivansi correndo, e tirando delle fucilate parallelamente alla nostra linea, talchè sentivasi il fischio delle palle che ci passavano assai dappresso; lo che riusciva sommamente piacevole alla carovana. Ed a dir vero è uno straordinario colpo d'occhio il vedere questi Arabi staccarsi dalla linea, correre a briglia sciolta, montati sopra cavalli o dromedarj, colla lancia in resta in una direzione parallela alla linea, e tanto vicini che la punta della lancia passava lontana quattro dita dal naso dei nostri cavalli. Figurisi la specie di movimento che dovevano dare ai loro cavalli per non toccare la linea che andava avanzando: era duopo che i loro cavalli corressero con passo obliquo e veloce come il lampo: che cavalli sono mai gli arabi!
Finalmente verso mezzogiorno in mezzo al romore delle fucilate ed ai gridi di gioja la carovana entrò in Suez, ove io fui alloggiato nella casa che mi era stata preparata alcuni giorni avanti.
Suez è una piccola città che cade in ruina, abitata da circa cinquecento musulmani e trenta cristiani. Attesa la sua posizione all'estremità del mar Rosso, da questo lato è la chiave del basso Egitto, tanto più che non avvi alcun altro punto d'appoggio in tutta l'estensione del deserto.
Il suo porto è così cattivo che i bastimenti del mar Rosso, detti Dao, non possono entrarvi che durante l'alta marea, e dopo avere sbarcato il loro carico. Ma il vero porto di Suez trovasi al sud in distanza di mezza lega sulla costa d'Affrica, ed è praticabile anche dalle grandi fregate.
In faccia a Suez il mar Rosso non ha più di due miglia di larghezza in tempo dell'alta marea, e circa due terzi di miglio nella bassa. Lo sbarco è comodo assai; le strade della città di fondo arenoso sono regolari, ma non selciate; e le case, e le moschee vanno quasi tutte in ruina. Variabilissimo è il clima del paese. Il pubblico mercato è sufficientemente provveduto di alcuni articoli: riceve i viveri per mare delle due coste dell'Arabia e dell'Affrica; ed il monte Sinai somministra buone frutta e buone verdure. Il pane è mal fabbricato, i pesci e le carni scarseggiano, e talvolta queste mancano affatto. Il concorso dei convogli marittimi e delle carovane fanno circolare molto danaro tra quegli attivi abitanti, che tutti, niuno eccettuato, sono mercanti o facchini.
Le acque più vicine a Suez sono i pozzi di El-Bir-Suez lontano una lega ed un quarto sulla strada del Cairo, e le El-Aayon-Moussa, o fontane di Mosè sono ancora più lontane; ma le prime sono salmastre, le seconde puzzolenti. La sola acqua buona è quella che si porta dalle montagne dell'est; e questa è carissima, ed in così piccola quantità, che talvolta conviene incontrare dispute e battersi per un otre di acqua. Il terreno che circonda Suez è così arido che non vi si vede un albero, nè un filo d'erba.
I cristiani Greci di Suez vi hanno una chiesa ed un passo.
La città è circondata di cattive mura, di alcune trincee, e di poche altre opere erette dai Francesi; ma tutti questi ripari non sono armati che di due o tre pezzi di cannone di due libbre di palla. Un negro schiavo d'un particolare del Cairo governava in allora Suez col titolo di Agà, ed aveva sotto i suoi ordini una trentina di Arnauti. Il suo kiàja, o luogotenente governatore disimpegnava pure le incombenze di giudice civile. Tutti questi soldati ed i loro capi guadagnano assai con i continui contrabbandi. In Suez non si esercita arte veruna fuorchè quella di calafattiere.
Due soli giorni dimorai in questa città essendomi imbarcato il martedì 23 dicembre 1806 sopra un Dao per passare sul mar Rosso a Diedda.
Il Dao è il naviglio arabo di maggior portata che veleggi su questo mare. Singolare affatto n'è la sua costruzione, l'altezza è un terzo al più della lunghezza del corpo del naviglio, e questa lunghezza viene inoltre accresciuta nella parte superiore da una lunga proiezione a prora ed a poppa in sull'andamento delle antiche galee Trojane.
Proporzioni del Dao da me montato

Le corde sono di corteccia di palma, e le vele di grosso cotone. Porta tre vele di ricambio di diversa grandezza, e due piccole vele latine; ma non se ne spiega mai più d'una grande o piccola a seconda del bisogno. Il Dao da me montato non aveva altro carico che alcuni gruppi d'argento monetato, chiusi in sacchi suggellati dai negozianti di Suez o del Cairo, diretti ai loro corrispondenti di Diedda. Aveva noleggiata la camera per me solo; ed i miei domestici rimanevano nel corpo del bastimento con altri cinquanta pellegrini all'incirca. Il capitano era di Mokha, ed i quindici marinaj dell'equipaggio erano piccoli e neri come scimie. Dopo essere rimasto tre giorni all'ancora si mise alla vela in sull'avvicinarsi della sera del 26.
Sabato 27
Avendo navigato tutta la notte e tutto il giorno del 27, si gettò l'ancora alle quattro della sera in un porto della costa d'Arabia chiamato El-Hamman-Piràoun, ossia bagni di Faraone. Dietro le mie osservazioni la longitudine di questo luogo è di 30° 43′ 25″ dell'osservatorio di Parigi alla punta del Capo Almarhha.
Domenica 28
All'entrare della notte si gettò l'ancora in vicinanza della città di Tor sulla costa d'Arabia.
Lunedì 29
La mattina il nostro Dao entrò nel porto di Tor, ove restò all'ancora tutto il giorno. Le mie osservazioni mi diedero la longitudine di 31° 12′ 55″.
Martedì 30
Si tenne il mare tutto il giorno, e passammo innanzi al Capo Ras-Aboumohhammed sulla costa medesima.
Mercoledì 31 dicembre 1806
Dopo aver navigato tutta la notte per attraversare il braccio di mare che si avanza entro l'Arabia, chiamato Bahàr el-Akkaba, il nostro capitano fece gettar l'ancora avanti sera in un piccolo porto chiuso, posto in una delle isole Naàman, ossia degli struzzi.
Giovedì 1.º gennajo 1807
Si veleggiò tutto il giorno, e verso sera si diede fondo sulla costa d'Arabia.
Venerdì 2
La stessa manovra del precedente giorno.
La navigazione del mar Rosso è spaventosa. Si viaggia quasi sempre in mezzo a scogli ed a rupi a fior d'acqua; di modo che per dirigere il bastimento conviene tener sempre quattro o cinque uomini sulla prora che osservino attentamente la strada, ed avvisino colle loro grida il timoniere di piegare a dritta o a sinistra: ma se essi s'ingannano, se scoprono lo scoglio troppo tardi, se il timoniere che non vede gli scogli non se ne scosta abbastanza, o scostandosi troppo porti il naviglio sopra uno scoglio vicino non osservato, se intende a rovescio il grido, come suole talvolta accadere, se nel breve intervallo della scoperta dello scoglio sott'acqua e dell'avanzarsi del bastimento al luogo del pericolo, il vento o la corrente si oppongono al cambiamento di direzione: quanti istanti si cammina tra la vita e la morte in così pericolose acque! Perciò contansi tutti gli anni molti naufragj su questo mare, che sembra vendicarsi dell'audacia dei naviganti: ma che è mai il timore della morte contro l'allettamento del guadagno? I navigli Arabi che portano i preziosi prodotti dell'India, della Persia, e delle Arabie solcano continuamente questo mare avido di vittime.
Per mettere alcun riparo a tanti inconvenienti i Dao hanno al disotto una falsa carena, che quando si tocca ammorza alquanto il colpo, e salva il naviglio, se la scossa non è troppo violenta. D'altra parte l'immensa vela di cotone quasi grossa un dito, la sua cattiva forma che richiede la stessa manovra d'una vela latina, dovendosi per cambiar rombo staccare la vela che allora volteggia come un immenso stendardo, e dà scossa terribili; le corde grossolane di corteccia che ubbidiscono a stento: tutti questi inconvenienti rendono la manovra così pesante e tarda, che io stesso sono sorpreso come i naufragj non siano molto più frequenti. In un naviglio quindici uomini d'equipaggio non bastavano ogni volta per manovrare la vela, e rendevasi necessario l'ajuto de' passeggieri.
Sabbato 3
Passammo in mezzo al gruppo delle molte isole Hamara, e si gettò l'ancora presso una di loro.
Domenica 4
Si diede fondo in sul far della notte presso un'isola in mezzo agli scogli.
Lunedì 5
Giorno terribile. Dopo la mezza notte si levò una furiosa burrasca. Il vento rinfrescò talmente che alle due ore del mattino i colpi d'uragano succedevansi incessantemente con maggior violenza, onde in pochi minuti le gomene delle quattro ancore furono spezzate.
Il naviglio in preda al furore del vento e delle onde fu spinto sopra uno scoglio, contro il quale incominciava a dare colpi terribili. L'equipaggio credendosi perduto gettava grida disperate. Tra questi clamori io distingueva la voce d'un uomo che singhiozzava e piangeva come un fanciullo; ed avendo chiesto chi fosse, mi fu risposto essere il capitano. Feci, ma inutilmente, cercare il piloto; onde vedendo la cosa disperata perchè il naviglio, abbandonato alla sua ventura, continuava a dar colpi orribili, non volli aspettare che si aprisse contro gli scogli: grido ai miei domestici: la scialuppa; ed essi se ne rendono all'istante padroni. Allora tutti vi si vogliono precipitare; mi si dà la mano, e salto nella scialuppa sopra la testa de' passeggieri, ed ordino che si allontani dal naviglio: ma un uomo che aveva il padre a bordo la riteneva con una corda del bastimento che aveva in mano, gridando Abouya! Abouya! oh mio padre! oh mio padre! Io rispettai un momento questo slancio d'amore filiale; ma vedendo un gruppo di gente disposta a saltare nella scialuppa, grido a questo buon figliuolo di lasciar la corda; ma ostinandosi a chiamare il padre, glie la faccio abbandonare con un pugno datogli sulla mano, e nell'istante medesimo la scialuppa vien portata dugento tese lontana dal Dao. Questa scena non durò un minuto; brevi momenti, ma spaventosi… Invece della dolce luce della luna che doveva rischiarare il nostro cammino, un denso velo di nere nuvole ci teneva in una profonda oscurità. Eravamo quasi nudi: i colpi di mare riempivano tratto tratto la scialuppa di acqua, e ad intervalli cadeva l'acqua a torrenti. Nasce una disputa; gli uni vogliono andare alla dritta; gli altri a sinistra, quasi fosse possibile di conoscere in mezzo alle tenebre la nostra direzione. La disputa facendosi più calda, io la feci cessare impadronendomi del timone, e loro dicendo con voce risoluta: io ne so più degli altri, e prendo il timone della scialuppa; guai a chi tentasse di riprendermelo.
Aveva avanti sera assai bene osservata la posizione della terra, ma non sapeva qual direzione mi prendessi. In mezzo alle tenebre non potendo orizzontarmi, cercava, per quanto lo poteva, di conservare la mia posizione rispetto al bastimento che io vedeva ancora. Per colmo di sventura mi trovava attaccato da frequenti vomiti di bile: pure non abbandonai il timone.
Ordinai di remare, ma i miei compagni non sapevano remare: assegno ad ognuno il suo posto, e dopo aver distribuiti i remi, ne insegno loro la manovra, e mi faccio a cantare sull'andamento de' marinai del mar Rosso per dar loro la misura, onde il movimento fosse uniforme. Quale spettacolo! Io mi trovava quasi nudo esposto ai colpi del mare, alla pioggia, alla grandine, colle mani attaccate al timone senza saper ove andare, molestato da violenti accessi di vomito, eppure obbligato di cantare per regolare la manovra. Talvolta la scialuppa, nostra ultima speranza, urtava nello scoglio, e ci faceva gelare il sangue. Finalmente dopo una lunga ora di così tormentosa angoscia, le nuvole si allargarono alquanto, ed un raggio di luce avendomi dato modo di orizzontarmi, e fatta rinascere nel mio cuore la speranza, gridai: siamo salvi. Allora drizzai la scialuppa verso la costa dell'Arabia, quantunque non fosse ancora visibile; e dopo tre ore d'immense fatiche, ci trovammo presso terra allo spuntar del giorno.
Sbarcammo tutti quasi nudi o in camicia: eravamo quindici. Il nostro primo atto fu quello di abbracciarci a vicenda, felicitandoci della nostra salvezza; i miei compagni sopra tutto non potevano saziarsi di attestarmi la loro sorpresa per così buona riuscita; chiedevanmi come aveva potuto sapere malgrado tanta oscurità, che la terra era là… e per uno spontaneo movimento di riconoscenza, spogliaronsi di parte delle loro vesti per ricoprirmi; e per tal modo mi trovai ben tosto vestito, grottescamente è vero, ma riparato dal vento che soffiava freddissimo.
Ci rimaneva a sapere a qual terra eravamo approdati. Mandai a riconoscerla quattro uomini; ed il loro rapporto mi persuase essere scesi in un'isola deserta, che altro non era che un piano di arena mobile senz'acqua, senza rupe, e senza vegetazione. Ben si vedeva la gran terra poche leghe lontana, ma come avventurarsi ancora nella scialuppa sopra un mare sempre burrascoso? e se la burrasca durasse alcuni giorni come potevamo durarla senza mangiare e senza bere? Il cielo che s'andava rischiarando, mi permise di vedere il nostro bastimento all'orizzonte accompagnato da un altro Dao. Quale non fu la nostra gioja nel rivederlo quando credevasi già perduto… Di dove veniva mai l'altro bastimento?
Il tempo tornò ad imperversare: la pioggia cadeva a torrenti, ed un vento gelato ne toglieva quasi il sentimento. Ci tenevamo strettamente serrati gli uni contro gli altri, ed il solo cappotto che avevamo fu steso sopra le nostre teste; difendendoci in tal modo dalla pioggia e dal vento, e riscaldandoci alquanto. Verso mezzo giorno il tempo si calmò un poco, e la scialuppa dell'altro bastimento che andava in traccia di noi vivi o morti, si avanzò abbastanza per conoscere i segni che andavamo facendo con una camicia in cima di un remo. Bentosto si avvicinò; ed i marinai ci assicurarono che il Dao erasi salvato senza aver sofferte considerabili avarie, perchè era fortissimo, ed era quasi senza carico. Perchè aveva perdute tutte le ancore fu fortunatamente soccorso dall'altro, che arrivandogli sopra accidentalmente nell'istante del maggior pericolo, gli somministrò un'ancora e corde.
Ci rimbarcammo sopra le due scialuppe, e tornammo al bastimento. Qual tenera scena fu quella del nostro amico a bordo! Tutti lieti di vedermi salvo gettavanmisi ai piedi piangendo d'allegrezza, mi abbracciavano, e non sapevano come significarmi la loro gioja, perchè ci avevano creduti inghiottiti dalle onde, come noi credevamo il bastimento spezzato contro lo scoglio. Il mio cuore non potè resistere a così tenera scena; e profondamente commosso da questa spontanea testimonianza del loro affetto, mi trovai gli occhi umidi di pianto.
Nel terribile istante in cui abbandonai il bastimento, un uomo volendo saltare nella scialuppa era caduto in mare; e questa fu la sola vittima della tempesta. Si rimase questo e l'altro giorno all'ancora, per dar tempo di rimettere tutto in ordine nel bastimento, onde partire all'indomani.
Mercoledì 6
Dopo avere navigato tutto il giorno, passata l'isola di Diebel-Hazen, ci ponemmo all'ancora sulla costa d'Arabia in sul cominciare della sera.
Giovedì 7
Si entrò avanti notte nel porto di Jemboa, città abbastanza considerabile, e dopo Diedda la più importante della costa arabica.
Venerdì 8
Il capitano volle trattenersi quel giorno a Jemboa per fare acquisto di ancore e di altri oggetti che gli mancavano, e per far raddobbare il bastimento.
Sabato 9
Questo giorno si passò il tropico, e si gettò l'ancora ad Algiar. Feci colà alcune curiose osservazioni, che in seguito ho perdute.
10, 11 e 12
Si navigò di giorno, e si stette all'ancora la notte sulle coste dell'Arabia, ma le note da me prese si perdettero. Incominciai allora a sentire un leggiero ma continuato dolore al basso ventre, ed una notabile infiammazione nella parte inferiore: lo che mi fece credere di avere una rottura. Era senza dubbio cagionata dallo sforzo violento ch'io feci saltando nella scialuppa la notte della burrasca. Ciò mi rattristò assai, perchè temeva di rendermi incapace d'ogni fatica, ed anche di montare a cavallo nell'istante in cui aveva maggior bisogno di tutte le mie forze. E come era questi un accidente che non avevo preveduto, e di cui non ne aveva nelle mie note mediche fatta menzione, non sapeva come medicarmi. Guidato dal semplice raziocinio feci uso delle fasce, e mi posi a giacere nella più favorevole posizione.
Giugnemmo uno di questi giorni verso le dieci ore del mattino ad Aràboh, che trovasi al confine settentrionale di Beled-elaharam, o terra santa; il bastimento incagliò da prora nella sabbia, onde facilitare ai pellegrini la pratica delle prime cerimonie del pellegrinaggio detto Jahàrmo. Per soddisfare a questo preliminare, conviene buttarsi in mare, bagnarsi, fare un lavacro generale con acqua dolce e sabbia, in seguito recitare le preghiere affatto nudo, avvolgersi i lombi, e fino alle ginocchia con una salvietta senza cucitura che chiamasi l'Ihràm, camminare alcuni passi verso la Mecca pronunciando la seguente invocazione:
Li Bèïk; Allàhummma li Bèïk.
Li Bèïk; la Scharika laka li Bèïk.
Inna Alhàmda, oua maamàta làka,
Ouèl Moulkou, la schaùka lèïk.
Poi formansi colle mani alcuni monticelli di sabbia, e si rimonta a bordo così coperti ripetendo le stesse preghiere nel rimanente del viaggio.
Trovandomi ammalato non mi gettai in mare, ma feci la mia abluzione colla sabbia; i miei domestici mi formarono una cintura con drappi del letto e dei hhaïc per tenermi riparato dal vento mentre faceva l'abluzione, le preghiere, le invocazioni, ed i monticelli di sabbia, siccome prescrive il rito, senza mancare alla circostanza che esige, che tutto ciò si faccia a cielo scoperto. Tornai a bordo com'era venuto, appoggiato alle loro braccia.
Da qualunque parte il pellegrino arrivi al Bèled-el-Hayam è obbligato di fare le stesse cerimonie, risguardate qual preludio indispensabile del pellegrinaggio; diversificano per altro esse alcun poco ne' quattro riti ortodossi della legge.
Da quest'istante non si può più radersi il capo finchè non siansi fatti i sette giri alla casa di Dio, che siasi baciata la pietra nera, bevuta l'acqua del pozzo sacro, detto Zemzem, e fatti i sette viaggi tra le sacre colline di Saafa e di Mèroua.
Mercoledì 15
Si gettò felicemente l'ancora nella rada di Diedda, meta di questo tragitto di mare.
Spedii subito a terra uno de' miei domestici con lettere pel negoziante Sidi Mehemed Nas, incaricato de' miei affari.
Poco dopo mezzogiorno vennero a prendermi con un battello, che mi portò a terra ove sbarcai alle tre ore circa. Fui ben accolto in un appartamento ammobigliato con tutto il lusso orientale, e fui all'istante ristorato con un ottimo pranzo.
Verso il tramontare del sole il Dao entrò in porto: ed all'indomani mattina avanti di sbarcare i miei domestici, ed i miei effetti, andai ad alloggiare in una casa che occupai io solo colle mie genti.
Continuava a trovarmi indisposto e debole a segno di non potermi più movere. Ne' primi quattro giorni dopo sbarcato fui travagliato dalla febbre, malgrado la quale il venerdì non mancai di andare alla Moschea, ov'ebbi un leggiero disgusto.
All'indomani del mio arrivo il governatore o Visir, che è un negro schiavo del Sultano sceriffo della Mecca, mi aveva fatto dire, che sapeva aver io alcune selle, e che desiderava di vederle. Non era difficile ad intendere che sotto questa inchiesta si voleva averne almeno una in dono; ma non avendo da costui ricevuto alcun contrassegno di distinzione, e non avendo di lui bisogno nè timore, ordinai al mio scudiere di portargli le cinque selle che aveva meco, ma soltanto per fargliele vedere.
Avendole il governatore osservate, si lasciò in presenza del mio domestico uscir di bocca alcune inconsiderate espressioni: questi mostrò di non intendere, ed a seconda dei miei ordini riportò le cinque selle. Conviene dire che questo procedere offendesse l'orgoglio del governatore, che per vendicarsene cercò di darmi qualche pubblico dispiacere.
In qualunque luogo mi condussero i miei viaggi io era avvezzo per fare alla moschea la mia preghiera del venerdì, di mandare avanti alcuni domestici a prepararmi un tappeto presso all'Imam, custodendolo fino al mio arrivo. Vi prendeva allora posto, e per quanto grande fosse la folla, il mio tappeto fu sempre rispettato.
Avendomi anche in questo venerdì preceduti i miei domestici alla moschea, collocarono il tappeto secondo la pratica, ed io vi feci la mia prima preghiera. Arrivò ben tosto il governatore coi suoi ufficiali negri come lui, ed alcuni soldati che fecero ritirare coloro ch'erano presso di me, e posero il tappeto del governatore in modo che copriva in parte il mio, ma non ebbero il coraggio di dirmi nulla.
Il governatore si pose sul suo tappeto, ed il suo primo ufficiale dopo essere rimasto un momento titubante ardì perfino di battermi dolcemente la spalla, e di farmi segno onde mi ritirassi, ciò ch'eseguii subito per non dar motivo di scandalo; ed egli si pose sul mio tappeto a fare la preghiera.
Tutti erano impazienti di vedere il fine di questa scena, e cosa risolvessi. Io sceriffo, figlio di Osman-Bey-el-Abbassi, avrei potuto sopportare l'insulto d'uno schiavo!.. Ma egli aveva la forza in mano, e cercava di provocarmi, onde, nel caso che io non mi fossi saputo contenere, abusare con apparente giustizia della sua autorità; mi appigliai quindi ad un altro espediente.
Appena terminata la preghiera, prima che niuno si alzasse, dissi con voce ferma ai miei domestici «Levate questo tappeto; portatelo all'Imam, e ditegli che glielo dono per servizio della moschea. Io non potrei mai più far la mia preghiera sopra questo tappeto, levatelo». I miei domestici lo levarono bruscamente, e lo consegnarono all'Imam, che fu assai contento di questo dono. Tutti applaudirono, ed il governatore ed i suoi ufficiali rimasero come di sasso. Lasciai alcune elemosine alla moschea ed ai poveri; ed accompagnato da molte persone tornai a casa per mettermi a letto, essendo tormentato dalla febbre.
Questi ufficiali negri fanno pompa di un lusso orientale il più raffinato, portando ricchissimi sciali di cachemire, bellissime tele dell'India, armi magnifiche, squisiti profumi.
Malgrado il cattivo stato di mia salute feci pure alcune osservazioni astronomiche, che mi diedero la longitudine per distanze lunari di 36° 32′ 37″ E. dell'osservatorio di Parigi4; la latitudine per i passaggi del sole 21° 33′ 14″ N.; e la declinazione magnetica 10° 4′ 53″ O.
Djedda è una gentile città con belle strade regolari, e con piacevoli case a due o tre piani, tutte fatte di pietra, non però con troppa solidità, avendo molte e grandissime finestre, ed il tetto piano. Vi sono cinque moschee che non meritano la minima attenzione.
La città è circondata da vaghe mura con torri irregolari, ed in distanza di dieci passi da una fossa affatto inutile, perchè senza alcuna opera che la sostenga. In vece di un ponte levatojo in faccia alla porta della città si è riempiuta la fossa di terra.
I pubblici mercati sono ben provveduti, ma le derrate sono assai care. Un pollo costa una piastra spagnuola, e gli erbaggi provengono da luoghi assai lontani, non essendovi nelle vicinanze per mancanza di sorgenti nè giardini nè orti. Non vi si beve che acqua di pioggia, ma assai buona perchè conservata in ottime cisterne. Il pane non mi sembrò troppo bianco. Vi si respira un'aria fragrante perchè in ogni angolo vi sono venditori d'acqua da bevere i quali abbruciano continuamente incensi o altri aromi. Lo stesso metodo si pratica nei caffè, nelle botteghe, nelle case, ed in ogni luogo.
Contansi a Djedda circa cinquemila abitanti; e questa città può riguardarsi come centro della circolazione del commercio interiore del mar Rosso. I bastimenti di Moca vi portano il caffè e le derrate dell'India e di tutto il Levante, ed in Djedda si ricaricano sopra altre navi per Suez, Iemboa, e per tutti gli altri porti delle coste d'Arabia e d'Affrica.
Se gli Arabi conoscessero meglio la navigazione, Moca potrebbe spedire direttamente i suoi carichi a Suez senza accrescerne il prezzo col fare scala a Diedda: ma ciò è quasi impossibile con bastimenti senza ponte, mal costrutti, e mal capitanati.
Inoltre l'interesse degli Arabi deve opporsi a qualunque innovazione su questo particolare, poichè adesso le derrate di transito lasciano nella loro patria il prodotto degl'interessi, delle commissioni, de' trasporti, delle gabelle ec.; il che tutto sarebbe perduto perfezionandosi la navigazione: ed in questo caso Djedda cesserebbe di essere uno scalo di tanta importanza. I negozianti di Djedda acquistano a Moca, o a dir meglio i negozianti di Moca spediscono a Djedda le mercanzie, che i negozianti del Cairo, per mezzo dei commissionati di Suez, acquistano a Djedda. Trasportansi a Djedda per lo scalo di Suez drappi ed altre manifatture d'Europa; ma queste non bastano per pagare i prodotti dell'India, ed il caffè dell'Iemen. Vi si supplisce con piastre Spagnuole, e grossi scudi di Germania, che sono a Djedda ricercatissimi, perchè guadagnano assai nell'Iemen ed a Moca.
Parvemi che il negoziante incaricato de' miei affari a Djedda avesse un commercio assai esteso; ma che scarseggiasse di numerario, perchè difficilmente poteva averne quando gliene chiedeva.
Vidi molto lusso negli abiti e negli appartamenti delle persone agiate, ma tra il basso popolo incontransi molte persone quasi affatto nude ed estremamente miserabili.
La guarnigione è composta di dugento soldati Turchi o Arabi, che non fanno il più piccolo servizio, riducendosi ogni loro incombenza a stare seduti in un caffè giuocando agli scacchi, fumando, e prendendo caffè.
Non trovasi in Djedda verun cristiano Europeo; ed alcuni Cristiani Cofti vivono confinati in una casa o caserma vicina allo sbarco.
Il principale personaggio, ed il più ricco negoziante chiamasi Sïdi Alarbi Djilani; uomo di non comuni talenti, ed attaccato agl'Inglesi, coi quali fa quasi tutto il suo commercio. In questo tempo gli abitanti di Djedda erano crucciati coi Francesi, perchè nel precedente anno questi ultimi eransi impadroniti di un ricco bastimento del Sultano Sceriffo, e di altre navi Arabe; pure non chiedevano vendetta, nè dichiaravano odio alla nazione Francese; anzi bramavano un ravvicinamento, ma non sapevano come incominciarne le trattative. Io suppongo che incominciassero ad amare realmente i Francesi dopo aver veduta la loro condotta in Egitto.
Ingannato dalla fama de' cavalli Arabi avevo da Suez rimandati i miei al Cairo; ma ebbi cagione di esserne pentito, non trovandosi a Djedda che pochi cavalli di proprietà de' più ricchi negozianti che non volevano privarsene. Non vidi alcun mulo; ma bensì asini alti e ben fatti, sebbene però non superiori a quelli d'Egitto. Sonovi moltissimi cammelli, le sole bestie da soma che si adoperino in questo paese.