Kitabı oku: «Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 3», sayfa 4
Le strade sono affollate, come nelle altre città musulmane di cani vagabondi o smarriti. Sembrano naturalmente divisi in separate tribù o famiglie. Quando un cane ha l'ardire o la disgrazia di passare in un dipartimento o tribù straniera, vi cagiona un rumore infernale, ed il temerario non si salva mai senza essere stato assai maltrattato. Nè minore è il numero de' gatti somiglianti affatto a quelli d'Europa. Sonovi alcune mosche, ma non moscherini, nè insetti di altra specie.
Djedda è priva affatto di carbone, e non vi si abbruciano che poche legna, trasportatevi da luoghi lontanissimi, o gli avanzi dei vecchi navigli ed inservibili. Le farine si tirano dall'Affrica.
Gli abitanti sembraronmi una mescolanza di sangue Arabo, Abissino o negro, e di un poco d'Indiano. Osservai parecchj individui di fisonomia assai prossima a quella de' Chinesi, che non diversifica molto dall'indiana. È così famigliare l'usanza di tenere schiave abissine o negre, che appena arrivato a Djedda, il mio mercadante mi propose prima d'ogni altra cosa l'acquisto di una negra: offerta che io rifiutai benchè non proibita dalla legge, perchè durante il mio pellegrinaggio mi riguardava come in istato di penitenza.
Si ritiene che cento bastimenti all'incirca vengono impiegati nel cabotaggio da Djedda a Suez, ed altrettanti da Djedda a Moca; ma trovandosene sempre molti inservibili può ridursi il numero ad ottanta. A quelli che perdonsi ogni anno sugli scogli del Mar Rosso sottentrano i nuovi che si fabbricano a Suez, a Djedda, a Moca.
Djedda poco prima aveva più ricchezze che all'epoca del mio passaggio; essendole riuscite dannose le guerre de' Wehhabiti, perchè per lungo tempo gli abitanti furono costretti di fare notte e giorno il mestiere del soldato. D'altra parte la guerra d'Europa paralizza il commercio del Levante; le rivoluzioni dell'Egitto, e dell'Arabia impediscono le comunicazioni commerciali della contrada, e quelle di Barbaria rendono assai difficili i pellegrinaggi degli occidentali; tutte circostanze contrarie alla felicità ed alla prosperità di Djedda.
Fuori delle mura della città dalla banda di terra avvi un gran quartiere di baracche assai popolato di famiglie quasi tutte povere, onde non si trovano che mercanti di commestibili, e di cose di poco valore.
Il circondario di Djedda è un vero deserto, ed il suo clima incostantissimo. Da un giorno all'altro io vedeva l'igrometro balzare dall'estrema siccità all'estrema umidità. Il vento settentrionale che attraversa i deserti dell'Arabia vi arriva talmente secco che inaridisce all'istante la pelle, e l'aria è sempre ingombra di polvere. Se sottentra il vento di mezzogiorno, si prova subito l'opposto estremo. L'aria, e tutto ciò che si tocca è zeppo di umidità; ed una subita spossatezza s'impadronisce delle nostre membra. Pure si crede più salutare il vento umido, che il secco5.
Il maggior calore da me osservato fu di 23° di Reaumur. Coi venti di mezzogiorno vidi l'atmosfera carica di una specie di nebbia.
Ebbi una notte la luna al mio zenit, ed un'altra dalla banda di settentrione: era questo effetto della latitudine, trovandomi press'a poco a due gradi al sud del tropico. Dopo il mio arrivo mi venivano presentati ogni giorno piccoli vasi d'acqua del miracoloso pozzo Zemzem della Mecca: io beveva, e pagava.
La vigilia della partenza alla volta della santa città essendo venuto a trovarmi il capitano del bastimento, ruppe il mio igrometro.
CAPITOLO XXXIII
Continuazione del pellegrinaggio. – El Hhadda. – Arrivo alla Mecca. – Ceremonia del pellegrinaggio alla Casa di Dio a Staffa ed a Meroua. – Visita dell'interno della Kaaba, o Casa di Dio. – Presentazione al Sultano Scheriffo. – Purificazione, o lavacro della Kaaba. – Titolo d'onore acquistato d'Ali Bey. – Arrivo dei Wehhabiti.
Trovandomi alquanto ristabilito in salute, benchè debole assai, partii per la Mecca il 21 gennajo alle tre dopo mezzogiorno sopra una macchina formata di travicelli, proveduta di un materasso in forma di piccolo soffà, coperta di panni sostenuti con archi, e collocata sopra la schiena di un cammello. Questa macchina chiamasi schevria, ed è abbastanza comoda perchè uno può adagiarvisi come vuole: ma il movimento del cammello che io non aveva prima provato, nello stato di attuale debolezza mi riusciva incomodissimo.
I miei Arabi incominciarono a disputare tra di loro nelle strade della città, facendovi altissime grida: e quando credeva terminata la lite, la vidi ricominciata appena sortito di Djedda, in modo da sospendere il cammino per un'ora e mezzo. Finalmente essendo succeduta alla burrasca la calma, e già caricati i cammelli, ci avviammo alle cinque e mezzo verso levante a traverso di una pianura deserta, terminata in fondo all'orizzonte da gruppi staccati di piccole montagne che rompono alquanto la monotonia del deserto.
Alle otto ore e mezzo della sera eravamo arrivati presso alle montagne, che sono piccoli ammassi di pietre affatto prive di vegetazione.
La serenità del cielo, e la luna che passava sulle nostre teste facevano la strada deliziosa, ed i miei Arabi cantavano e danzavano intorno a me. Ma io non mi trovava troppo bene, non potendo più sopportare il moto del cammello. A fronte di ciò stordito dal romore de' domestici, spossato dalla fatica e dalla debolezza, mi addormentai per due ore. Risvegliandomi sentii rinforzarsi la febbre, e mi venne un poco di sangue della bocca.
Intanto i miei Arabi, essendosi anch'essi addormentati, uscirono di strada. Dopo mezza notte accortisi d'essere su quella di Moca, piegarono a N. E. fra montagne di mezzana altezza qua e là coperte di boschi, finchè essendosi rimessi sulla direzione della Mecca, camminarono all'E. fino alle sei ore del mattino di giovedì 22 gennajo, facendo alto in un dovar di baracche detto el Hhadda, ove trovasi un pozzo d'acqua salmastra.
Io non posso dar conto esatto dello spazio percorso, ma suppongo che ci trovassimo allora lontani circa otto leghe da Djedda. Le baracche di questo dovar sono tutte eguali, affatto rotonde, del diametro di sette in otto piedi, con tetti conici alti da terra alla sommità circa sette piedi. Sono formate da una linea di pali piantati in terra, e coperte di foglie di palme, e di ramuscelli. Arrivando, ciascuno si prende una baracca senza chiederne il permesso a chicchessia.
Il pozzo ha un piede e mezzo in ogni lato del quadrato, e dieci braccia di profondità. Sta appeso alla sua apertura un secchio di cuoio con una corda per servizio de' passeggieri. Esaminando l'interno del pozzo vedesi, che il terreno fino a considerabile profondità è formato di arena sciolta, poichè per impedirne lo smottamento fu palificato dalla cima al fondo.
Le poche piante del circondario non hanno nè fiori nè frutta; e questo luogo è precisamente una valle che va da levante a ponente in mezzo a montagne di porfido d'un rosso più o meno oscuro.
Interessante parvemi il modo in cui in questo luogo si dà a mangiare ai cammelli. Viene prima stesa sul suolo una stuoja, o un pezzo di tela in forma circolare del diametro di cinque in sei piedi, sulla quale si pone un mucchio d'erba spinosa minutamente tagliata: fatti questi preparativi, si conduce un cammello che tranquillamente si adagia vicino a questa tavola, poi un secondo, un terzo, un quarto, che adagiansi nella stessa maniera a distanze eguali dalla tavola; allora cominciano a mangiare con una politezza senza pari, e con bell'ordine, prendendo ognuno l'erba a piccolissimi manipoli; e se taluno abbandona il proprio luogo, il suo vicino lo riprende amichevolmente, e l'indiscreto rientra in dovere; in una parola, la tavola dei cammelli è una fedele copia di quella dei loro padroni.
Qui rinnovammo la cerimonia della purificazione, tal quale l'avevamo già fatta ad Arabah, vale a dire l'abluzione generale ch'io feci con acqua calda, e la preghiera recitata in istato di assoluta nudità, ec., come sopra.
Gli abitanti del dovar vendevano acqua dolce assai buona che prendevano nelle vicine montagne dalla banda di mezzodì.
Partendo dal dovar si venne a chiedermi, ed io diedi una gratificazione per l'alloggio.
Alle tre ore dopo mezzogiorno si riprese la strada nella direzione di levante. Non tardai a scoprire alcuni piccoli boschi; e verso sera si passò in mezzo a montagne vulcaniche coperte di lava nera, e vidi gli avanzi di alcune case rovinate dai Wehhabiti. Poi attraversando molte collinette, alle undici e mezzo della sera ci trovammo in profonde e strette gole, ove la strada tagliata a zig-zag offre una eccellente posizione militare. La sera di giovedì 23 gennajo 1807, 14 del mese doulkaada dell'anno 1221 dell'Egira, giunsi a mezza notte col favore della Divina misericordia alle prime case della santa città della Mecca, quindici mesi dopo sortito da Marocco.
Erano all'ingresso della città molti Mogrebini, o Arabi occidentali, che mi aspettavano con piccoli vasi d'acqua del pozzo di Zemzem, che mi offrirono per bere, pregandomi a non riceverne da altra persona, ed assicurandomi di tenerne approvvigionata la mia casa: mi soggiunsero poi all'orecchio di non bevere giammai di quella che mi offrirebbe il capo del pozzo.
Molti particolari della città che pure mi aspettavano, disputavansi tra di loro l'onore o il vantaggio di alloggiarmi, perchè gli alloggi sono la principale speculazione degli abitanti sui pellegrini: ma le persone che in tempo del mio soggiorno a Diedda eransi incaricate di provvedere a tutti i miei bisogni, posero fine alle dispute, conducendomi in una casa che m'era stata preparata accanto al tempio, e presso al palazzo del Sultano Sceriffo.
I pellegrini devono entrare a piedi nella Mecca, ma in vista della mia malattia restai sul cammello fino alla porta della casa.
Appena entrati, io ed i miei domestici facemmo un'abluzione generale, indi fui condotto in processione al tempio con tutta la mia gente. La persona incaricata di guidarmi recitava camminando varie preghiere ad alta voce; e noi le ripetevamo tutt'insieme collo stesso tuono di voce parola per parola. Io era tuttavia così debole che doveva farmi sostenere da due domestici. Giunsi in tal modo al tempio facendo un giro per la principale strada onde entrarvi pel Beb-el Selèm, ossia porta della salute; lo che tien luogo di felice auspicio. Dopo essermi levati i sandali passai per questa avventurata porta posta presso all'angolo settentrionale del tempio. Già avevamo attraversato il portico o la galleria; già stavamo per mettere il piede nel grande cortile, in cui è posta la casa di Dio, quando la guida arrestò i nostri passi, e tenendo il dito rivolto alla Kaaba, mi disse con enfasi: Schous, schous el-Beït-Allah el Haram; «osservate, osservate la casa di Dio, la proibita». Il numeroso seguito che mi circondava, il portico di colonne a perdita di vista, l'immenso cortile del tempio, la casa di Dio coperta della sua tela nera dall'alto fino al basso e circondata di lampade, il silenzio della notte, e la guida che parlava come un ispirato; tutt'insieme formava un imponente quadro che mai non si cancellerà dalla mia memoria.
Entrammo nella corte per un sentiero diagonale alto un piede, che mette dall'angolo del nord alla Kaaba, che è quasi nel centro del tempio. Prima di giugnervi ci fecero passare sotto un arco isolato come una specie d'arco trionfale, detto Beb-el Selema, come la porta per cui eravamo entrati. Giunti innanzi alla Casa di Dio, facemmo una breve preghiera, si baciò la pietra nera portata dall'Angelo Gabriele, e nominata Stàjera el Ason'ad, ossia pietra celeste: avendo alla testa la nostra guida, schierati nello stesso modo con cui eravamo venuti, e recitando le preghiere in comune, facemmo il primo giro intorno alla Casa di Dio.
La Kaaba è una torre quadrata posta quasi in mezzo al tempio, coperta d'una immensa tela nera che non lascia di scoperto che lo zoccolo dell'edificio, lo spazio in cui sta murata la pietra nera all'altezza d'un uomo sull'angolo dell'est, ed un altro eguale spazio nell'angolo del sud occupato da un marmo comune. Dalla banda del N. O. sollevasi un parapetto all'altezza d'appoggio, che forma quasi un mezzo cerchio separato dall'edificio, e nominato El-Stajar Ismail, vale a dire pietre d'Ismaele.
Ecco il circostanziato racconto delle successive cerimonie di questo atto religioso, quali le feci io stesso in quest'epoca. Consistono queste in sette giri intorno alla Kaaba. Si comincia ogni giro dalla pietra nera dell'angolo dell'est seguendo la fronte principale della Kaaba ov'è la porta, e di là girando all'ouest ed al sud al di fuori delle pietre d'Ismaele, e giunti all'angolo del sud si stende il braccio destro, e dopo aver passata la mano sopra il marmo angolare (avendo grandissima attenzione che l'inferior parte dell'abito non tocchi lo zoccolo scoperto), si passa la mano sul volto e sulla barba, dicendo: In nome di Dio: Dio grandissimo, sia data lode a Dio. Si prosegue la marcia verso N. E., dicendo: Oh grande Iddio! siate con me: datemi il bene in questo mondo; e datemi il bene nell'altro; ritornato poscia all'angolo dell'est in faccia alla pietra nera, si alzano le mani come in principio della preghiera canonica, gridando: in nome di Dio; Dio grandissimo; ed abbassate le mani si soggiugne, sia data lode a Dio; dopo ciò si bacia la pietra; e così termina il primo giro.
Il secondo giro è affatto simile al primo; ma sono diverse le preghiere dall'angolo della pietra nera fino a quello del sud. La legge tradizionale vuole che si facciano gli ultimi giri con passo frequente, ma atteso lo stato di debolezza in cui mi trovava feci tutti i giri posatamente.
Alla fine del settimo dopo avere baciata la pietra nera viene recitata in comune una breve preghiera stando in piedi in faccia al muro della Kaaba tra la porta e la pietra nera. Si passa dopo in una specie di corridojo, detto Makam Ibrahim, o luogo d'Abramo, che sta tra la Kaaba e l'arco isolato, e colà si recita una preghiera ordinaria. In seguito si va al pozzo Zemzem, dal quale si attingono molti vasi d'acqua, e se ne beve quanta si può berne. Finalmente si esce dal tempio per el-Beb-Sàffa, porta di Saffa, di dove si sale sopra una piccola strada che gli è in faccia, e che forma la collina di Saffa, Diébel Saffa. In fondo alla strada terminata da un portico di tre archi, su cui si sale per alcuni gradini, avvi il luogo sacro detto Sáffa. Quando il pellegrino vi è salito, volge la fronte verso la porta del tempio, e recita stando in piedi una breve preghiera.
Allora si va in processione verso la strada principale, e si attraversa una parte del Dièbel-Méroua, o collina di Meroua, recitando continuamente preghiere: in fondo alla strada che è tagliata da un'alta muraglia, si sale per pochi gradini, col corpo rivolto al tempio, benchè le case intermedie non permettano di vederlo, e si pronuncia sempre in piedi una piccola preghiera. Si fa un secondo viaggio verso Saffa, un terzo verso Méroua; e così di tempo in tempo fino alla settima volta recitando preghiere ad alta voce, e facendo le piccole preghiere ne' due luoghi sacri; lo che forma il settimo viaggio tra le due colline.
Avendo terminato il mio settimo viaggio a Meroua, vidi alcuni barbieri stazionati in questo luogo per radere la testa ai pellegrini: lo che eseguiscono con somma leggerezza, e recitando preghiere ad alta voce che il pellegrino ripete parola per parola. Questa operazione termina le prime cerimonie del pellegrinaggio alla Mecca.
È noto che quasi tutti i Musulmani si lasciano crescere in mezzo alla testa una ciocca di capelli; ma perchè il riformatore Abdoul-wehhab dichiarò che la conservazione di questa ciocca è un peccato, e che i Wehhabiti, dominano nel paese, tutti si radono interamente la testa. Fui dunque anch'io forzato di lasciar cadere la mia lunga ciocca sotto le mani dell'inesorabile barbiere.
Già si avvicinava il giorno quando si terminava di soddisfare a questi primi doveri: allora mi si disse, che poteva ritirarmi per prendere un poco di riposo; ma perchè non era lontana l'ora della preghiera del mattino, scelsi di tornare al tempio, malgrado la mia debolezza e la sostenuta fatica, ed andai a casa solamente alle sei ore.
Al mezzodì dello stesso giorno tornai al tempio per la preghiera pubblica del venerdì, dopo aver fatta un'altra volta i sette giri della Kaaba, recitata una preghiera particolare, e bevuto largamente dell'acqua dello Zemzem.
All'indomani sabato 24 gennajo 1807, 15 del mese Doulkaada l'anno 1221 dell'Egira, si aprì la porta della Kaaba; ciò che si fa soltanto tre volte all'anno in tre diversi giorni. La prima volta affinchè tutti gli uomini che sono alla Mecca possano fare le loro preghiere nell'interno; la seconda, che ha luogo il giorno dopo, per le donne; e la terza, passati altri cinque giorni, è destinata a lavare e purificare la casa di Dio. Per questa ragione i pellegrini che non si trattengono alla Mecca che otto o dieci giorni all'epoca del pellegrinaggio di Aàrafat, partono senz'aver veduto l'interno del tempio.
La porta della Kaaba è nella faccia del N. E. a breve distanza dalla pietra nera, ed è alta circa sei piedi sopra il livello del gran cortile del tempio. Per entrarvi vien collocata al di fuori una bella scala di legno portata da sei ruote di bronzo.
In questo giorno fui condotto al tempio, e perchè la gente vi era affollata, mi fecero sedere in una specie di ricinto ove sta la guardia della Kaaba in faccia alla pietra nera. Questa guardia è composta di eunuchi negri. Essendosi scemata alquanto la gente, alcune guardie e la mia guida mi condussero nella casa di Dio; e si presero essi la cura di farmi mettere il piè destro sul primo gradino della scala. Entrato nella Kaaba fui direttamente condotto nell'angolo che guarda al sud, ove stando in piedi col corpo, e col volto possibilmente appoggiati contro la muraglia, recitai ad alta voce una preghiera; e quindi feci la preghiera ordinaria in faccia all'angolo del sud. Passai subito all'angolo che guarda all'O., e quindi all'angolo del N. facendo in ambedue ciò che fatto aveva nell'angolo del S. Di là essendo venuto all'angolo dell'E., ove non feci che una breve preghiera in piedi, baciai la chiave d'argento della Kaaba, che un fanciullo dello Sceriffo seduto sopra un soffà teneva a quest'oggetto in mano. Uscii scortato dai Negri che a forza di pugni mi facevano far largo. Appena fui fuori della Kaaba baciai la pietra nera, e feci di nuovo i sette giri della casa di Dio; entrai poscia entro una piccola fossa a piè della Kaaba, ed accanto alla porta, ove recitai la preghiera consueta, e dopo aver bevuta l'acqua del pozzo Zemzem ritornai al mio alloggio. Al mezzo giorno ebbi avviso di tenermi preparato ad essere presentato al sultano Sceriffo.
Il Nikeb-el-Ascharaf, o capo degli Sceriffi, venne a prendermi, e mi condusse al palazzo. Egli mi precedette, ed io rimasi alla porta aspettando l'ordine d'entrare. Un istante dopo il capo del pozzo di Zemzem, ch'era di già mio amico, scese per cercarmi. Montammo la scala, a metà della quale evvi una porta che ne chiude il passaggio. Il mio conduttore picchiò a questa porta, che fu aperta da due domestici, e noi continuammo a salire: attraversammo in seguito un corritojo oscuro, e dopo aver lasciate le pappuzze in questo luogo, entrammo in una bella sala, ov'era il sultano Sceriffo, detto Sceriffo Ghàleb, seduto presso ad una finestra, e circondato da sei personaggi che stavano in piedi. Poichè l'ebbi salutato mi fece le seguenti interrogazioni.
S. Parlate voi l'arabo6?
A. Sì, Sire.
S. Ed il turco?
A. No, Sire.
S. L'arabo solamente?
A. Sì, Sire.
S. Parlate voi le lingue dei Cristiani?
A. Alcune.
S. Qual è il vostro paese?
A. Aleppo.
S. Siete voi uscito assai giovane della vostra patria?
A. Sì, Sire.
S. Ove foste durante la vostra assenza?
Gli raccontai la mia storia. Allora lo Sceriffo disse a quello che gli stava a sinistra: parla assai bene l'arabo; il suo accento è veramente arabo; e volgendomi di nuovo la parola, dissemi alzando la voce, avvicinatevi. Mi appressai un poco, ed egli ripetè, avvicinatevi; ed allora mi avanzai fino a lui. Sedetevi, mi disse, ed essendomi affrettato di ubbidirlo, fece pure sedere il personaggio che gli stava a sinistra.
Voi avrete senza dubbio notizie del paese de' cristiani, ripigliò lo Sceriffo: ditemi le ultime che aveste. Gli feci un breve quadro dello stato attuale d'Europa. Mi domandò: sapete voi leggere e scrivere il francese? Un poco, Sire. – Soltanto un poco, o bene? Un poco, e non più, Sire. Quali sono le lingue che parlate e scrivete meglio? L'italiano e lo spagnuolo. Così continuammo a conversare più di un'ora. In appresso dopo avergli presentato il mio regalo, ed il firmano del Capitano pascià, mi ritirai accompagnato dal capo dello Zemzem, che mi condusse fino a casa.
Prima di passar oltre voglio dare contezza di questo importante personaggio, ch'erasi fatto mio amico. Era questi un giovane di ventidue in ventiquattr'anni, di una bellissima figura, occhi vivaci, ben vestito, assai gentile, d'un'aria dolce e seducente, e fornito di tutte le esteriori qualità che rendono amabile una persona. Depositario della intera confidenza dello Sceriffo, occupa il più importante impiego. È l'avvelenatore in titolo… Rassicurati, lettore; nè questo nome ti faccia tremare per me. Quest'uomo pericoloso mi era noto anche avanti. Dopo la prima volta che fui al Zemzem, egli mi faceva assiduamente la corte; aveva già da lui ricevuto un magnifico pranzo; ogni giorno mandavami due bottiglie d'acqua del pozzo miracoloso: spiava i momenti in cui mi recava al tempio, e si affrettava di venire a presentarmi coi più dilicati modi una tazza colma d'acqua miracolosa, che io beveva senza timore fino all'ultima goccia. Questo scellerato tiene gli stessi modi verso tutti i Pascià, e personaggi d'importanza, che recansi alla Mecca. Dietro il più leggiero sospetto, e per capriccio, lo Sceriffo ordina, e lo sventurato straniero ha ben tosto cessato di esistere. Siccome sarebbe un'empietà il rifiutare l'acqua sacra presentata dal Capo del pozzo, quest'uomo con tal mezzo è padrone della vita di tutti i pellegrini; ed ha già sacrificato molte vittime. Da tempo immemorabile i sultani Sceriffi della Mecca tengono un avvelenatore alla loro corte; ed è cosa notabile che non si curino di tenere celato l'arcano, poichè si conosce in Egitto ed a Costantinopoli a segno, che il Divano ha più volte mandati alla Mecca Pascià, ed altri personaggi per isbarazzarsene in tal maniera. Ecco la ragione per cui i Mogrebini, e gli Arabi d'occidente erano solleciti di prevenirmi di stare in guardia al mio arrivo in questa città. I miei domestici non sapevano soffrire il traditore, ed io gli dava i meno equivoci segni di confidenza, affrontava le sue acque, ed i suoi pranzi con una serenità imperturbabile; e soltanto ebbi la precauzione di tener sempre in tasca tre prese di zinco vitriolato, vomitivo assai più efficace del tartaro emetico, e che opera all'istante, onde usarne tostochè avessi il più piccolo indizio di tradimento.
Parvemi che lo Sceriffo fosse dell'età di trenta in quarant'anni: la sua carnagione è alquanto bruna; ha grandi e begli occhi, e barba regolare; è grasso, e non pertanto assai vivace. Il suo abito consiste in un benisch, caftan esteriore, un caftan interiore con uno sciallo di cachemiro, ed un cachemiro, ed altro sciallo della stessa qualità per turbante. Aveva dietro di lui un gran cuscino, un altro a lato, ed un terzo più piccolo avanti, sul quale si appoggiava frequentemente. Nella sala non vidi altri arredi nè ornamenti fuorchè un gran tappeto che copriva tutto il suolo. In tempo della mia visita il sultano Sceriffo fumava una pipa persiana, o nerguilè, ch'era posta in una altra camera, e la di cui canna di cuojo per mezzo d'un foro fatto nel muro terminavasi alla sua bocca. Il riformatore Abdoulwehhàb avendo dichiarato che l'uso del tabacco è peccaminoso, ed i suoi segretarj che dominano l'Arabia essendo generalmente temuti, non si fuma che con molta circospezione, e quasi di furto.
All'indomani, domenica 25 gennajo, resi la visita al Nekih-el-Ascharaf, o capo degli sceriffi, e gli feci un piccolo regalo. Mi diede tutti i segni di distinzione e d'amicizia, che io poteva desiderare. Era il secondo giorno dell'apertura della Kaaba, come si disse poc'anzi, ma era il giorno esclusivamente destinato per le donne. Esse vi entrarono in folla per recitarvi le loro preghiere, e come gli uomini esse fanno i sette giri intorno.
Il lunedì 29 gennajo, 20 del mese doulkaada, si lavò e purificò la Kaaba colle seguenti cerimonie. Due ore dopo il levar del sole il sultano Sceriffo venne al tempio accompagnato da circa trenta persone, e da dodici guardie parte Negri e parte Arabi. La porta della Kaaba era già aperta e circondata da immenso popolo, ma non eravi ancora la scala. Il sultano Sceriffo montato sopra le spalle degli uni, e su la testa degli altri entrò nella Kaaba cogli Scheih principali delle tribù; gli altri volevano fare lo stesso, ma le guardie negre ne vietavano l'ingresso a colpi di pugni e di canne. Io stava lontano dalla porta per evitare la folla, quando per ordine dello Sceriffo il capo di Zemzem mi fece segno colla mano di avanzare; ma come farmi avanti a traverso di più di mille persone ch'erano tra me e la Kaaba?
Tutti i portatori d'acqua della Mecca appressavansi coi loro otri pieni, ch'essi facevano avanzare di mano in mano fino alle guardie negre della porta, come pure un gran numero di piccole scope di foglie di palma.
I Negri cominciarono a gettar acqua sul suolo della sala che è lastricata di marmo, e vi si gettò ancora acqua di rose. Quest'acqua scolando per un foro posto sotto la soglia della porta, era avidamente raccolta dai fedeli; ma perchè non era proporzionata ai loro desiderj, e che i più lontani ne chiedevano ad alta voce per bevere e per bagnarsi, le guardie negre colle tazze e colle mani la gettavano con profusione sul popolo. Ebbero l'attenzione di farmene passare un piccol vaso, ed una tazza, colla quale ne bevei quanto mi fu possibile, e sparsi il rimanente sul mio corpo; imperciocchè quest'acqua, quantunque salsa alquanto, porta seco la benedizione di Dio, ed altronde è bene aromatizzata dall'acqua di rose.
Feci allora uno sforzo per avvicinarmi; molte persone mi sollevarono sopra la folla, e camminando sopra le teste giunsi finalmente alla porta, ove le guardie negre mi ajutarono ad entrare. Io era preparato a tale operazione, non avendo in dosso che la camicia, un caschaba, o camicia di lana bianca senza maniche, il turbante, ed il hhaik che mi avviluppava.
Il sultano Sceriffo scopava egli medesimo la sala. Appena entrato, le guardie mi levarono il hhaik, e presentaronmi un fascio di piccole scope, delle quali ne presi alcune in ogni mano. All'istante gettarono molta acqua sul pavimento, ed io incominciai a scopare a due mani con un'ardente fede, quantunque il suolo fosse di già pulito come uno specchio. Durante questa operazione, lo Sceriffo che avea finito di scopare e di profumare la sala, stava orando.
Mi venne in appresso presentata una tazza d'argento piena d'una pasta fatta con raschiatura di sandalo, legno assai aromatico, e bagnato con essenza di rose; stesi questa pasta sulla parte inferiore della parete incrostata di marmo al disotto della tappezzeria che copre la parte superiore ed il palco. Mi fu poi dato un pezzo di legno d'aloè che feci abbruciare in una grande bragiera per profumare la sala.
Allora il sultano Sceriffo mi proclamò Hhaddem-Bèit-Allah-el-Haram, vale a dire servitore della casa di Dio la proibita; e ricevetti le congratulazioni di tutti gli assistenti. Dopo recitai le mie preghiere nei tre lati della sala, come la prima volta, lo che pose termine ai miei doveri. Mentre mi occupava di quest'atto di pietà, il sultano Sceriffo erasi ritirato.
Un gran numero di donne che stavano nel cortile riunite in corpo a qualche distanza dalla porta della Kaaba, gettavano di quando in quando acute grida di gioja.
Mi fu data un poco di pasta di sandalo con due piccole scope che io custodii religiosamente siccome preziose reliquie. Le guardie ajutaronmi a scendere sopra il popolo, che mi prese, e mi pose in terra felicitandomi dell'avvenimento. Passai di là al Makam-Hibrahim per farvi una preghiera, vi fui ricoperto del mio hhaik, ed entrai in casa mia tutto bagnato.
Altri impiegati del tempio mi portarono successivamente acqua del lavacro, ed un vaso me ne mandò il figlio dello Sceriffo che aveva la chiave della Kaaba, aggiugnendovi un cartoccio ripieno di raschiatura di sandalo ridotta in pasta con acqua di rose, un altro cartoccio di altri aromi, un cero, e due piccole scope. Dovetti corrispondere a tanti favori nel miglior modo possibile.
Il martedì 3 febbrajo, 25 del mese doulkaada, la grande tela nera che copre l'esteriore della Kaaba fu tagliata un poco sopra alla porta, e tutto all'intorno dell'edificio; cosicchè rimase scoperto nella parte inferiore; lo che compie la cerimonia detta Yaharmo-el-Bèit-Allah, cioè purificazione della casa di Dio.
In questa operazione tutti gl'impiegati del tempio procurano di ottenere qualche pezzo della tela, che dividono in minutissimi pezzetti per farne certe reliquie, che regalano poi ai pellegrini, obbligati di corrispondere a questo favore con qualche gratificazione. Io ne ricevetti tante che… Dio sia lodato!
In questo giorno medesimo un corpo d'armata de' Wehhabiti entrò nella Mecca per soddisfare ai doveri del pellegrinaggio, e per impadronirsi della santa città. Io li vidi entrare per accidente. Mi trovava alle nove ore nella strada principale, quando vidi venire una folla di uomini strettamente serrati gli uni contro gli altri, non avendo altra veste che un panno intorno alle reni, ed alcuni una salvietta posta sulla spalla sinistra, e sotto l'ascella destra; del resto affatto nudi ed armati di fucili a miccia con un cangiar, o grande coltello curvo appeso alla cintura. Alla vista di questo torrente d'uomini nudi ed armati tutta la gente sgombrò la strada. Io rimasi al mio luogo, salendo sopra un mucchio di rottami onde meglio osservarli. Vidi avanzare una colonna che parvemi numerosa di cinque in sei mila uomini talmente serrati su tutta la larghezza della strada, che non avrebbero potuto movere una mano. La colonna era preceduta da tre o quattro uomini a cavallo armati di una lancia lunga due piedi, e seguita da altri quindici o venti montati sopra cavalli, cammelli, e dromedarj colla lancia alla mano come i primi; ma non avevano nè stendardi, nè tamburri, nè verun altro stromento, o trofeo militare. Marciando altri mettevano grida di santa allegrezza, altri confusamente recitavano preghiere ad alta voce; ognuno a modo suo.