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Kitabı oku: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I», sayfa 10

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Perchè la rapacità di Costante aiutava a maraviglia il clero siciliano, pieno di profondissimo odio contro di lui, per essere l'isola devota al Pontefice di Roma, e molto accesa contro i Monoteliti. Costante, in sei anni che soggiornò a Siracusa, fe' sentir la vicinanza dell'augusta persona, con le strabocchevoli gravezze poste su l'isola, e su le vicine terre di Calabria, Sardegna e Affrica: tasse su la proprietà, tasse su la industria, tasse per l'armamento del navilio, che a memoria d'uomo non se n'era sofferto mai tanto cumulo; e confiscati con ciò i vasi sacri, e separati, dice la cronaca, i mariti dalle mogli, i padri dai figliuoli, con che può intendersi l'imprigionamento dei debitori del fisco, o qualche partaggio dei coloni addetti ai poderi del patrimonio imperiale che fosse stato venduto e distratto. I popoli d'Affrica, per minor male, chiamaron di nuovo i Musulmani. Quei delle isole e di Calabria si credeano condotti a inevitabil morte, come troviamo ne' ricordi ecclesiastici; e coloro che scrissero tai parole, al certo ripeteanle a viva voce, e con lunghi comenti, ai disperati sudditi di Costante.

E un dì, entrato il tiranno nel bagno di Dafne, un gentiluomo della sua corte, per nome Andrea figliuolo di Troilo, che il serviva e ungeagli il corpo con sapone, gli versò addosso un'urna d'acqua bollente, e lo finì dandogli dell'urna in sul capo (15 luglio 668). Trovato morto Costante nel bagno, nessuno cercò il come; i soldati altra cura non ebbero che di gridare imperatore un nobil giovane Armeno di nascita, per nome Mizize; e tutta l'isola applaudì175. Il clero partecipò o esultò tanto nel regicidio, che mezzo secolo appresso Gregorio Secondo, minacciandolo Leone Isaurico della medesima sorte di papa Martino, rimbeccavagli si ricordasse egli di Costante e del cortigiano, che, accertandolo i vescovi di Sicilia della eresia dello imperatore, immantinente lo avea trucidato.176

Allato a cotesta spiegazione storica d'un papa si vuol porre quella degli Arabi contemporanei, per mostrar come diversamente si sciogliesse a Roma e in Oriente il noto caso: se lice uccidere re tiranno. Narrata la battaglia delle Colonne e l'abbandono d'Alessandria che ricadde nelle man de' Musulmani, i Romani, dice la tradizione, sforzaron Costante a uscire con l'armata contro il nemico: “Ma Iddio mandò sovr'essi una tempesta che affondava tutte le navi, fuorchè quella di Costante; la quale scampò, trasportandola i venti in Sicilia. Dove interrogato dalla gente e narrati i casi suoi: “Hai svergognato la Cristianità,” replicarongli i Siciliani, “ed hai fatto perire i suoi campioni. Or se ci assaltino gli Arabi, dove troveremo chi ne difenda?” E Costante rispondea: “Quando salpammo, l'armata era forte: che volete se ci scoppiò addosso la tempesta?” Ma i Siciliani, fatto scaldare un bagno vel ficcano per forza, gridando egli invano: “Sciagurati! che il mare inghiottì i vostri prodi, e voi ora ammazzate il re vostro.” “Facciam conto che sia annegato con gli altri,” replicarono; e spacciaronlo: ma lasciarono andare quanti eran venuti con lui su la nave.” Nel quale racconto ognun può scoprire non solamente uno squarcio del vero, ancorchè vestito alla foggia degli Arabi di quei tempi; ma anco un vago cenno d'assalto sopra la Sicilia. E notabil è a tal proposito lo stesso errore d'alcuni cronisti musulmani, che affrettando di quattordici anni la morte di Costante, la pongono l'anno trentuno dell'egira, il quale in parte risponde al secentocinquantadue, data della prima impresa di Sicilia.177

Nè andò guari che i Musulmani riassaltarono l'isola. Parmi priva di fondamento la supposizione moderna che ve li abbia chiamato Mizize, perchè gli Arabi in quel tempo non potean sembrare valido aiuto in un'isola sì lontana dalle provincia loro; nè quivi si vedea cagione di tôrsi in casa il nemico, poichè il nerbo delle armi bizantine stanziava nell'isola, e questa parea sicura al tutto dagli assalti di Costantinopoli. Ma quivi la corte, e gli officiali civili e militari, temendo non rimanesse la sede dell'Impero in Sicilia, arsero di zelo per lo giovinetto Costantino figliuolo di Costante. Dondechè con maravigliosa prestezza e precisione ragunarono tanti brani di forze terrestri e navali di Ravenna, Campania, Sardegna e Affrica; ed ebbero tanto séguito nello esercito di Sicilia, che appresentatosi Costantino a Siracusa in primavera del secentosessantanove, Mizize fu abbandonato da tutti, riconosciuto legittimo imperatore Costantino, e chiamossi ribellione il colpo di Stato fallito. Costantino a capo di pochi mesi tornossene all'antica capitale.178 Probabil è ch'egli sguernisse di soldati la Sicilia, per tor la voglia di crear qualche altro imperatore; e che i Musulmani i quali tenean gli occhi aperti su la nuova sede dell'Impero nemico, cogliessero questa occasione di spogliarla.

Vennero d'Alessandria su dugento navi, condotti da Abd-Allah-ibn-Kais della tribù di Fezâra, arrisicatissimo condottiero che afflisse i Cristiani del Mediterraneo in cinquanta scorrerie navali; e alfine fu ucciso in luogo detto Marca, probabilmente in Italia.179 Abd-Allah irruppe in Siracusa con molta strage; se non che i cittadini rifuggivansi nelle montagne e nelle più munite rôcche dell'isola. Dopo un mese, fatto gran cumulo di preda, prese varie terre o piuttosto battuto il paese qua e là coi cavalli, i Musulmani si rimbarcarono. Portaron via, dicono gli scrittori cristiani, i tesori delle chiese e i bronzi rubati da Costante a Roma. Dicono i Musulmani, come s'è visto sopra nel testo di Beladori, che si trovò nel bottino gran copia d'idoli fabbricati di preziosi metalli e di gemme: e che il califo Mo'âwia li mandò ai mercati degli idolatri d'India, sperando che ne conoscessero e pagassero il pregio. Ma l'universale dei Musulmani fieramente scandalizzossi di un pontefice che rivendeva i lavorii di Satan.180

A questa impresa del secentosessantanove, un monaco Benedettino, vivuto cinquecent'anni appresso, innestò sue fole di sanguinosa strage nel monastero dell'Ordine a Messina, e sopratutto di guasto a moltissime città e terre che i Benedettini possedessero in Sicilia. Tal racconto si trova in una serie di leggende apocrife e falsi documenti, con che si fece prova nel duodecimo secolo a gabbare i principi, e carpir qualche pezzo dell'immenso patrimonio che si fingea tolto a que' pii cenobiti. Non senz'arte, si fe' menzione dei poderi da una mano nelle geste dei martiri, dall'altra mano nei supposti diplomi; e tra le une e gli altri, si attribuì ai Benedettini la proprietà di mezza Sicilia: terreni in tutti i luoghi di cui si conoscessero i nomi nella storia antica; e intere città poste sotto la signoria loro fin dal sesto secolo, come potean esserlo nel duodecimo. Ma traditi sempre più dall'ignoranza, gli autori della frode, che mi sembran parecchi, senza escluder l'Abate di Monte Cassino a quel tempo, presero tropp'alto il volo nelle leggende: fecero cominciare gli assalti dei Musulmani un secolo avanti Maometto, e trucidare San Placido, con trenta tra frati e suore che viveano nel suo monastero di Messina, proprio l'anno cinquecentoquarantuno, da un barone agareno che lor piacque di chiamare Mamuca, mandato con l'armata spagnuola da Abdallah, capo di setta saracena in quelle parti, tiranno zelantissimo nel promuovere il culto di Moloch e della stella Lucifero. Ciò tanto o quanto potea passare nel duodecimo secolo; pur la novella non prese allora, nè fruttò. Ma verso la fine del secol decimosesto, per procaccio de' Gesuiti, si rifrustarono quelle memorie; si cercarono a Messina, e, com'è naturale, si trovarono le tombe e le ossa dei martiri, e fino il piombo, che i Barbari infedeli avean loro versato in gola; e il dotto e scaltro Sisto Quinto, in un tempo di tanta gloria letteraria della patria nostra, soscrisse un breve dato il tredici novembre millecinquecento ottentotto, nel quale comandò che si festeggiasse il giorno di quel martirio per tutto l'orbe cattolico; e infelicemente replicò i nomi dei crudelissimi Abdallah e Mamuca, tiranni saraceni, invasori della Sicilia al tempo di San Benedetto e di Giustiniano. Accorati e confusi a tanto sbalzo d'anacronismo, i dotti scrittori ecclesiastici del medesimo secolo decimosesto e dei seguenti, se ne cavarono con accettare il fatto del martirio, e dichiararne apocrifa la sorgente, che eran gli atti di Gordiano: il solo frate scampato, come diceasi, alla barbarie di Mamuca. Ma mentre la falsa leggenda rimanea così in commercio, nessuno ebbe pietà dei documenti usciti dalla stessa fucina. Il Baronio li disse falsi, nè più nè meno; il Pagi rincalzò con pari severità; il Mabillon, Benedettino, sospirando ratificò il giudizio; e il siciliano Di Giovanni li rigettò con meritato disprezzo. Tra quelli appunto si trova una supposta lettera di papa Vitaliano per lo risarcimento dei guasti recati da Musulmani ai poderi benedettini di Sicilia nella scorreria del secentosessantanove. E com'ei pareva opportuno di fare rosseggiare il sangue dei martiri, quantunque volte si trattasse dei beni del monastero, una appendice posta alla leggenda di Mamuca, aggiunse quell'episodio dei martirii al supposto saccheggio del secentosessantanove. Infine la erudizione, la ignoranza e la impudenza, sbrigliaronsi in una seconda appendice che fe' partecipare i Benedettini delle stragi e guasti della notissima impresa di Ibrahîm-ibn-Ahmed nel novecentotrè. Dove lo scrittore, dopo aver detto delle immense possessioni del monastero depredate e degli infiniti monaci uccisi in Sicilia, si ride un po' troppo dei lettori, conchiudendo: “e chi vuol sapere le passioni di tutti quei martiri, vada a cercarle nelle biblioteche di Costantinopoli.”181

CAPITOLO V

Dopo le raccontate scorrerie del secentocinquantadue e secentosessantanove la Sicilia ebbe a sentire il peso dei Musulmani, non più di Levante, ma dell'Affrica, ove la schiatta arabica si rinforzò d'una potente schiatta straniera e insieme con quella divenne sì formidabile in tutte le parti occidentali d'Europa. Però è mestieri toccare alquanto le condizioni di tal nuova provincia musulmana. Il tratto di terreno che serpeggia dai confini dell'Egitto fino allo stretto di Gibilterra tra il mare e la catena dell'Atlante o i deserti, ubbidiva al nome bizantino, o romano, come affettavan chiamarlo tuttavia. Distingueano gli antichi questa regione sotto varii nomi, cominciando dalle due Mauritanie alla estremità di ponente, indi Numidia, Affrica propria che prendea lo Stato odierno di Tunis e la parte occidentale di quel di Tripoli fino al golfo della grande Sirte, e via seguitando, Cirenaica, Marmarica e la provincia Libica che confina con l'Egitto; Paese di vario aspetto; dove orrido e arso, come le più inospite regioni dell'Arabia, dove lieto di vegetazione, temperato di clima e vivificato dalla man dell'uomo. Perchè prima i Cartaginesi e poi i Romani vi avean recato il genio del lavoro, che creava più che la guerra e la barbarie non guastassero; e, pur dopo l'invasione dei Vandali, v'erano rimase importanti città e maggior tra tutte Cartagine, risorta dalle sue rovine; e vi fioriano ancora industrie e lucrosi commerci.

Teneano l'Affrica settentrionale quattro generazioni d'uomini, diversissime d'origine e di numero. La più moderna era un pugno di gente germanica che alcuni autori arabi chiaman Franchi; e Leone Affricano, Goti: senza dubbio gli avanzi dei Vandali rimasti dopo l'impresa di Belisario.182 Innanzi a loro per numero ed anzianità di soggiorno venian le popolazioni pelasgiche, d'Italia cioè e di Grecia, portate dalla dominazione romana: le quali gli scrittori arabi a lor modo chiamano i Rum. In terzo poteansi noverare gli altri stranieri gittati, direi quasi, dal mare su la costiera, forse in parte discendenti dei Fenicii, miscuglio di tante schiatte simile a quel che oggi dicesi nell'Algeria Mori, o Moreschi, non sapendosi qual altro nome dar loro che uno indefinito e antico; e forse per la medesima ragione gli Arabi li chiamarono Afârik, o Afôrika, ossia Affricani, accorgendosi che non fossero nè Germani nè Pelasgi nè Berberi.183

Ma i Berberi aborigeni, come debbon dirsi non vi essendo memoria di altri abitatori innanzi a loro, vinceane di gran lunga anche per lo numero e per la estensione del territorio tutte le razze intruse. Stendeansi dall'Atlantico ai deserti non esplorati che finiscono a Levante con la valle del Nilo; correano dal Mediterraneo agli altri deserti che arrivano al Tropico e al Sûdan, o vogliam dire paese dei Negri; dimodochè le tribù berbere più o meno sottomesse penetravano per ogni luogo il territorio romano; e le tribù, o meglio diremmo nazioni independenti, lo premeano dalla parte di mezzogiorno e di ponente. La gagliarda e fiera gente berbera, inaccessibile di tutti i tempi alla civiltà, mosse d'Oriente, come il mostra la stampa della schiatta caucasica che ha in volto, e come il portano le sue tradizioni serbateci dagli scrittori romani e dagli arabi. I libri punici in fatti, consultati da Sallustio, li diceano popoli della Media e dell'Armenia venuti in Occidente con Ercole; lo scrittore armeno Moisè di Corene e Procopio li credettero Cananei cacciati di lor terra da Giosuè; degli Arabi, chi li ha fatto Himiariti184 o vogliam dire della schiatta dell'Arabia Meridionale; e chi ha appiccato la genealogia loro anche a Canaan; tradizioni mitiche, come ognun se ne accorge, tra le quali potran decidere i dotti quando si sarà studiata meglio la lingua berbera, e si conosceranno un poco certi altri antichi idiomi dell'Asia anteriore, come sarebbero gli ariani e gli himiariti. Intanto, dalla tradizione, al par che dal linguaggio, parecchie tribù berbere sembrano senza dubbio d'origine semitica; ovvero, se tutta la gente berbera il sia, quelle sembran passate in Occidente in tempi men rimoti, talchè il dialetto loro abbia ritenuto molto più delle voci e forme semitiche. Il nome generico di Berberi par sia stato messo in uso la prima volta dagli Arabi, poichè fino ai tempi del conquisto loro la appellazione generale di coteste schiatta fu Mauri Barbari, come troviamo in Procopio; alla quale gli scrittori europei dei tempi più bassi ne aggiunsero altre, d'Affricani, e, con manifesto errore, di Punici, e fin anco Cartaginesi: oltrechè, ad accrescere la confusione, ricorre sempre negli scritti loro la indeterminata appellazione di Saraceni. Tra coteste false denominazioni etniche de' popoli primitivi dell'Affrica, quella di Mori, ch'è più antica, ci è divenuta anco familiare ne' romanzi, ne' poemi, in architettura e financo nelle storie; ma io preferirò, come assai più determinata, la voce Berberi, alla quale si son attenuti giustamente i dotti. È parso ad alcuni eruditi d'Europa che gli Arabi abbian tolto di peso tal voce dalla latina Barbari; e al contrario gli scrittori arabi traggono la etimologia dal loro vocabolo berber, che significa borbottare, e diconlo anche di parlare in gergo rozzo e straniero. Gli uni e gli altri credo si appongano al vero; poichè gli Arabi conquistatori dell'Affrica settentrionale tanto più agevolmente doveano adottare il nome che trovarono in uso tra i popoli inciviliti del paese, quanto avea significato nel loro proprio linguaggio, e il significato si confaceva appunto al caso. Ma v'ha di più: il valore primitivo di questo vocabolo nell'idioma greco, che lo comunicò a tutti gli altri dell'Europa, è identico a quel che ritenne in arabico il verbo berber. Come notollo il Gibbon, Barbaro nell'Iliade non è detto che di favella rozza e aspra; nè pria de' tempi di Erodoto si vede usata cotesta voce com'appellazione dei popoli non parlanti il greco; donde poi si venne mutando il significato, come ognun sa, fino a quel che ha preso nelle lingue moderne. La stessa voce borbottare, che mi è occorsa testè traducendo il detto verbo arabico, vi consuona tanto e sì a capello ne rende il significato, che potrebbe riferirsi per avventura alla medesima origine185.

Tale essendo la divisione etnologica dell'Affrica Settentrionale, non è mestieri aggiungere che facean base al governo bizantino le schiatte nuove, frequenti nelle parti orientali più che nelle occidentali, industri, snervate e cristiane; anzi sì zelanti nella fede, che la Chiesa Africana ai tempi suoi levò quel grandissimo grido che ognun sa. Al contrario i Berberi, che aveano sì ostinatamente combattuto la dominazione di Cartagine, poi la romana, non lasciavan tranquilla la bizantina; ma non bastavano ad abbatterla per essere sì divisi, nimicantisi tra loro senza perchè; diversi anco di religione, adorando chi le stelle, chi un idolo, chi un altro; e qualche tribù giudea, altra cristiana di nome. Il reggimento bizantino resisteva a così fatti nemici mercè la ordinata amministrazione d'una provincia ricca, la disciplina militare, le molte fortezze, il navilio. E queste forze eran tali, che nei principii del settimo secolo Eraclio governatore dell'Affrica avea occupato il trono di Costantinopoli, e che il patrizio Gregorio, deputato da lui a regger la provincia, levossi in aperta ribellione (646) quando vide fortuneggiare l'impero assalito dagli Arabi.

Gli Arabi non prima avean messo piè in Egitto che irruppero in Affrica. A'mr-ibn-A'si occupò Barca, Tripoli e Zuâgha (641-643), gli abitatori della quale si rifuggirono in Sicilia.186 A'mr, levata di quei paesi una grossa taglia, ardea d'andar oltre: quando il califfo Omar gli comandò di ritrarsi; temendo di far troppo grande l'Impero, e come presago del gran sangue che dovea costare l'Affrica. Similmente parecchi compagni del Profeta, pochi anni appresso, dissentivano dall'impresa proposta dal novello capitano d'Egitto al califfo Othman, che gli era fratel di latte; ma questi, sendosela fitta in mente, pose di nuovo il partito nel consiglio, e, vintolo, affrettò i preparamenti in persona; li aiutò coi proprii danari; e avviò da Medina una eletta di guerrieri delle tribù modharite e del Iemen; i quali coi rinforzi presi in Egitto sommarono a ventimila tra cavalli e fanti. Condotti da Abd-Allah-ibn-Sa'd, quel medesimo che pochi anni appresso guadagnò la battaglia navale delle Colonne, mossero, non lungi dalla costiera, infino al golfo di Hammamet, e trovarono l'esercito di Gregorio, dentro terra, tra Sufetula e Cartagine (647). Per certo non combatteano sotto Gregorio centoventimila uomini, come scrissero alcuni cronisti arabi; per certo nè quegli avea promesso la man della figliuola e centomila monete di oro a chi uccidesse Abd-Allah-ibn-Sa'd; nè Abd-Allah-ibn-Zobeir con trenta cavalieri soli andò ad uccider lui nel bel mezzo delle file bizantine, e prendersi la figliuola che pugnava a cavallo con un ombrello di penne di pavone; nè pare probabile che il pregio del bottino montasse a tal somma prodigiosa, che, toltane la quinta, ne toccò tremila dinar ad ogni cavaliere e mille a ogni pedone. Cotesti episodii, ignoti ai più antichi scrittori arabi, messi innanti da quei di tempi più bassi e accettati per necessità dagli storici europei, sono stati distrutti non è guari da un insigne orientalista.187 Ma piacemi di poter dare, in luogo di quelli, alcuni particolari, non pubblicati per anco, e autentici come io credo, ritraendosi da un discorso, che gli Arabi serbavano tra i lor modelli di eloquenza. Abd-Allah-ibn-Zobeir, che fu l'Ulisse di quella impresa, sopraccorso con rapidissimo viaggio a Medina, narrava la vittoria in pubblica concione, permettendolo il califfo: dicea che intimato agli Affricani l'islam o il tributo, e rifiutato l'un e l'altro, i Musulmani, temporeggiarono per due settimane in faccia all'esercito nemico: poi il capitano li esortò a combattere per la causa di Dio e guidolli alla battaglia; la quale aspramente si travagliò il primo giorno con molto sangue d'ambe le parti e avvantaggio di nessuna. “Venne la notte, proseguiva Abd-Allah, e i Musulmani a recitare il Corano, che s'udiva tra loro appena un susurro, come il ronzio delle api; i politeisti a sbevazzare e trastullarsi. La dimane, ripigliata la zuffa, Iddio ci fe' star saldi e ci accordò la vittoria, verso il tramonto del sole. Grandissimo è stato il bottino; la taglia pattuita sì grossa, che il quinto solo torna a cinquecentomila monete: ma forse n'avremo altri due tanti. E così io ho lasciato i Musulmani ricreati e sazii di preda, e son venuto nunzio al principe de' Credenti.”188 Il patto cui si allude era stato chiesto da' vinti, quando videro sparse le gualdane a battere il paese e struggere e rapire ogni cosa. Raccolto quanto tesoro potè, l'esercito musulmano si ritrasse a capo di quindici mesi dal dì che avea passato la frontiera d'Egitto.189 Un diligente scrittore porta che in questo tempo gli abitatori della penisola di Scerik, che guarda la Sicilia, si riparassero nella lor città di Kalibia (Clypea), e di lì a poco nella vicina isola di Pantellaria; ove alzaron fortezze e stettero lunga stagione, finchè non andò a snidarli un'armata musulmana.190 Ma più probabile mi sembra che la fuga in Pantellaria seguisse una ventina d'anni dopo, quando la infestagione si venne a mutare in conquisto.

Perocchè gli Arabi saviamente audaci, non sendo per anco cresciuti di numero con assimilarsi i popoli vinti, tennero nelle prime vittorie uno di questi due modi. Ne' paesi ove parea loro di stanziare, poneano un grosso campo come i Romani, e occupavano qualche città: di che è esempio il disegno di A'mr-ibn-A'si, che si affortificò a Fostat, presso al Cairo d'oggi, e fece d'Alessandria un ribat, o, a modo nostro di dire, una piazza di frontiera; ove lasciò in presidio la quarta parte delle genti da scambiarsi ogni sei mesi con un'altra quarta parte che scorrea la costiera, mentre le altre due quarte rimaneano col capitano.191 Al contrario nelle regioni troppo lontane facean grosse correrie, movendo dalle piazze di frontiera e quivi tornavansene col bottino e le taglie, come abbiam detto di Cipro, della Sicilia e dell'Affrica. Ma sovente accadea che l'agevolezza della vittoria, le occasioni che nasceano, e il rigoglio delle tribù arabe presto ingrossate di clienti stranieri, allettassero ad occupar coteste provincie, come le altre di cui si è detto.

E così appunto seguì in Affrica dopo quattro novelle guerre o scorrerie, che s'avvicendarono dal secentocinquantaquattro al secentosettanta,192 una delle quali fu ordinata dal califo Mo'âwia a chiesta di popolazioni cristiane dell'Affrica, cui la tirannide di Costante avea mosso a ribellione. Il pensier del conquisto si dee riferire ad O'kba-ibn-Nafi', il quale in gioventù avea capitanato i primi cavalli arabi passati d'Egitto a infestar la terra d'Affrica, e, più maturo, comprese che la si potea tenere facendosi strumento delle popolazioni berbere. Mo'âwia il secondò con dargli comando independente dal governatore dell'Egitto, l'anno cinquanta dell'egira (670); ed ei poneasi con diecimila cavalli a Barca, ove fe' opera ad attirarsi i Berberi dei contorni. Risoluto poi andò a piantare in mezzo all'Affrica propria un alloggiamento che fu chiamato il Kairewân,193 ove l'esercito musulmano stesse sicuro con le famiglie e lo avere. Elesse il sito dentro terra, a una giornata di cammino dal porto di Susa, in terreno boschivo e sano, ove sorgea un picciol castello romano, che gli Arabi chiamano Kamunia. Della scelta si disputò a lungo tra il capitano e i principali dell'oste, con ragioni non da Barbari. Volean gli altri tirarsi verso le spiagge per stare più pronti alle offese; O'kba rispondea che era meglio assicurar la capitale da' subiti assalti delle armate bizantine. Temeano quelli da una vicina palude tristi esalazioni nella state e umidità nell'inverno; ma egli mostrò ch'era forza incontrare que' disagi, poichè la palude difendea un terreno da tenere in pascolo i cameli che servono a trasportare l'esercito nostro, diceva il capitano, e i Berberi e i Greci la prima cosa che farebbero, sarebbe di venirceli ad ammazzare alle porte proprio della città, con improvvisa scorreria.194 Vinto così il partito e condotte le genti là dove ei pensava fondare Kairewan, O'kba solennemente n'espulse gli antichi ospiti. “Belve e serpenti,” gridò “noi siamo i compagni dell'Apostol di Dio; partitevi di qui o sarete sterminati.” E le bestie a sgombrare quetamente portando seco i lor nati, e i Berberi a convertirsi, dicon le croniche, nè v'ha ostacolo a crederlo. Con un'altra scena troncò le dubbiezze degli Arabi, che, messisi a fabbricar la Moschea, andavan cercando la dirittura della Mecca, la kibla, com'essi dicono, alla quale il Musulmano dee guardare quand'ei fa le preci. Mentre gli altri osservavan le stelle il meglio che poteano, egli ebbe un sogno; diè di piglio alla bandiera; seguì una voce sovrumana; e, dove quella gli disse “resta,” fisse in terra l'asta e fe' innalzar la Moschea cattedrale. Costruirono anche il palagio del governo, le case dei grandi, gli abituri della minor gente: di argilla la moschea, di canne le case, dice un antico scrittore;195 nè pensarono per lungo tempo a mutare in lor uso gli avanzi d'architettura romana che offriva il luogo.196 Oltre a ciò posero alberghi, o com'essi dicono menzil, pei viandanti, a giuste distanze lungo le strade della provincia.

In cinque anni questi ordinamenti progrediano, e O'kba portava le armi sempre più verso ponente tra le tribù berbere; quando il califo il depose; unì di nuovo l'Affrica all'Egitto, e un novello capitano, per nome Abu-Mohâgir, imprigionò O'kba e smantellò il Kairewân: pensando forse che invano si sarebbe prodigato il sangue dei Musulmani nell'indomabile provincia, e che piuttosto era da pigliare i Berberi con le buone. In fatti egli avea tirato a professare l'islamismo un potente lor capo per nome Koseila, quando, salito al trono Iezîd, e tornato O'kba in credito a corte e resogli il governo d'Affrica (681-2), ristorò la sua città, ripigliò con tanto più ardore i suoi disegni e alla sua volta mise in catene Abu-Mohâgir. Con ciò fe' nuovi miracoli e nuove imprese: scaturir fontane quando l'esercito era per morir di sete; debellare eserciti bizantini e orde di Berberi; e altre ne convertì, com'ei credeva, e vittorioso trascorse infino a Tanger e Sus dell'Atlantico, ove, spinto il cavallo nelle acque, levando la mano verso il cielo, profferì que' noti detti che il mare solo rattenealo dal portare il culto del vero Iddio sino agli ultimi confini del mondo.

Pur le gonfie parole accompagnan sì raro i savii fatti, che O'kba, pria d'andare a guazzare il cavallo nell'Oceano, non pensò a' Bizantini che stanziavano a Cartagine e nelle altre città del Mediterraneo troppo dure a intaccare; ma, scansandole, era ito per la regione a mezzodì dell'Aurès, donde passò a settentrione, forse nella provincia d'Algeri o d'Orano. Peggio fece a trattar come vinti quei Berberi, che cominciavano a parteggiare per lui dopo essere stati sgarati in battaglia, ma non voleano ingozzare gli oltraggi ch'ei facea loro per superbia, o sol perchè Abu-Mohâgir aveva usato umanamente con essi. Narrasi, tra gli altri fatti, ch'ei richiedesse Koseila di scannare e scorticare un montone; per la cucina, dicono i cronisti; probabilmente in sagrifizio per mangiarne e dispensarne ai poveri, com'è uso appo i Musulmani; il che ad O'kba dovea parere atto di carità e religione, e al principe convertito, servigio da beccaio. Rispose non mancargli servi che il facessero. Ma il capitan arabo persistè, minacciò e volle essere ubbidito per forza. Koseila ubbidì: quand'ebbe finito, senza fiatare, si astergea le insanguinate mani sulla barba, e, domandatogli il perchè, rispondea melenso: “fa bene al pelo.” Vi fu chi comprese la muta rabbia di quell'atto e ne ragguagliò O'kba; ma il fiero vecchio se ne rise. Koseila intanto, indettatosi coi Bizantini, si levò improvviso in arme; e corsogli addosso O'kba impetuosamente con le poche forze che avea intorno, finse di fuggire finchè tirò gli Arabi a Tahuda a piè dei fatali monti Aurès, ove circondolli con infinita moltitudine di Berberi e aiuti bizantini. Già gli Arabi sentian suonar l'ora estrema. Era tra loro Abu-Mohâgir che O'kba traeasi dietro incatenato sospettandolo di tradimento o infingendosene; il quale proruppe a recitar due versi d'antico poeta, che avea pianto d'avere i ferri mentre i suoi s'apparecchiavano alla battaglia. O'kba, all'intenderlo, scorda le offese; lo fa sciorre; gli dice che salvisi con la fuga poichè non è tenuto a combattere: e Abu-Mohâgir risponde non bramar altro che di morire coi Musulmani; e s'arma, e ponsi al fianco del capitano. Spezzarono i foderi delle spade, imitandoli gli altri guerrieri: e avventatisi tra i Berberi virtuosamente caddero; campando pochissimi dalla strage (683). Koseila tra non guari s'insignorì di Kairewân; le reliquie degli Arabi si ritrassero di nuovo a Barca. Questo fine ebbe la prima prova di occupazione permanente dell'Affrica. O'kba seppe meglio imaginarla che mandarla ad effetto: uomo di costante proponimento, e prodigioso valore in guerra; ma poco atto a maneggiar le fila di un gran disegno, e meno a raffrenare le proprie passioni; troppo uso a fidarsi in quel piglio tra di fanatico e di commediante che ha accresciuto la sua fama appo i posteri.197

Così mossi i Berberi a guerra nazionale contro gli invasori, cui da principio avean creduto nemici dei soli Romani, il contrasto si fe' ostinato, sanguinosissimo; ebbe fasi diverse: sospeso talvolta per stanchezza; ripigliato per novelle cagioni che si sviluppavano dalla conquista; continuato fin quando le due schiatte si unirono sotto una stessa fede e uno stesso vessillo di guerra; acceso anche in Spagna e in Sicilia; durato sei secoli: nè finì che quando gli Arabi di dominatori divennero soggetti. Nè l'impero dei califi, nel fior della sua potenza, incontrò in alcun'altra provincia popoli che più disperatamente gli resistessero: costretto suo malgrado al conquisto dell'Affrica; ove mandò cinque eserciti a far vendetta l'uno dell'altro e ad incontrar la medesima sorte.

Dirò di questa lotta assai brevemente, astenendomi dai particolari il più che potrò. Entro pochi anni, gli Arabi vendicarono la strage di Tahuda; ruppero gli eserciti collegati de' Berberi e Bizantini e ammazzaron Koseila; ma intanto un'armata, allestita in Sicilia, occupò Barca, rimasa vota di difensori (688-9); e il capitano arabo vittorioso, Zoheir-ibn-Kais, affrettandosi alla riscossa con una picciola schiera, non guadagnò che l'onore di entrare nella città e morirvi con la spada alla mano.198 Cinque anni appresso, escita appena la casa Omeiade dalla guerra civile di Abd-Allah-ibn-Zobeir, il califo comandava al capitan d'Egitto Hassân-ibn-No'mân di pigliare tutte le entrate della provincia, tutta la gente e attrezzi da guerra, e andare a far dell'Affrica ciò che gli paresse. Il quale, messi insieme quarantamila uomini, tirò dritto a Cartagine (693-4); ruppe i terrazzani e il presidio usciti a combattere; e pose tale spavento nella città, che i principali cittadini se ne fuggirono su le navi, chi in Sicilia e chi in Spagna; ed egli, facilmente sforzati que' che rimaneano, saccheggiò, fe' prigioni, diè opera a tagliare li aquidotti e diroccare frettolosamente quanto si potea; e non tardò a tornare dentro terra contro i Berberi dell'Aurès. Tra i quali, come avvien sovente nei moti nazionali, correndo le eccitate imaginazioni alla superstizione, era surta una novella Zenobia, regina della tribù di Gerâwa, per nome Dihâ, più nota sotto l'appellazione di Kâhina che le dettero gli Arabi, che è a dire indovina; alla cui voce profetica e bizzarro furore, congeniale alla schiatta loro, s'erano unite le altre tribù. Scontratasi con l'esercito di Hassân su le rive del fiume Nini presso Bagaia, ch'oggi va nella provincia di Costantina, la Kâhina ruppe gli Arabi con memorabile strage: e di lì a poco un patrizio Giovanni, venuto con le forze navali di Costantinopoli e di Sicilia, ripigliò Cartagine; Hassân con le reliquie dell'esercito fu ricacciato di nuovo a Barca. La profetessa poi sciupò la vittoria. Da una mano rimandò liberi i prigioni arabi, fuorchè un solo che adottò per figliuolo, il quale la tradì mandando avvisi ad Hassân. Dall'altra mano scatenò i suoi a guastar le città e i colti dell'Affrica propria, per annichilare, diceva ella, que' futili beni che attiravano il nemico. Ma fe' contrario effetto, perchè le popolazioni industri delle altre schiatte, parte emigrarono in Spagna e nelle isole, parte mandarono a profferire aiuto agli Arabi, i quali s'apprestavano a nuovo sforzo di guerra.

175.Theophanes, Chronographia, p. 525, seg., il quale dice positivamente a p. 532, che Costante si fosse deliberato a trasferire la sede dell'Impero a Siracusa; Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. III, p. 141; Johannes Diaconus, Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte II, p. 305. Paulus Diaconus, lib. V, cap. 5.
176.Questa è la significativa frase del papa, e vi si legge: πλησοφοσηθεὶς, assicurato, fatto pienamente certo. Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 19, 20; e Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, N. 272. L'epistola è data del 726, o del 730. Il Gibbon perciò avea piena ragione di dire che Costante fu vittima “di una tradigione domestica, e forse vescovile,” cap. 48. Lo zelo del clero siciliano contro i Monoteliti si vede dal gran numero di vescovi dell'isola che assistettero al concilio di Laterano del 649, e da una epistola di San Massimo presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, N. 258.
177.Ibn-Abd-el-Hakem, MSS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 258, e Ancien Fonds 785, fog. 120 recto. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fog. 186 verso, e 228 verso, narrando il fatto due volte sotto due anni diversi, 31 e 35, nota il disparere dei cronisti intorno la data, e cita il Tabari come colui che ponea la morte di Costante nel 35. Veggasi anche Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fog. 180 verso. Ibn-Abd-el-Hakem, al par che Ibn-el-Athîr, dà a Costante il nome di Costantino e lo dice figliuolo di Eraclio.
178.Theophanes, Chronographia, tom. I, 558, seg. Veggasi anche Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXI, § 1, con le note del Saint-Martin, che crede si debba pronunziare Megegi il luogo di Mizize.
179.Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Ar., 742 quinquies, tomo II, fog. 181 recto, fa menzione di coteste scorrerie e della morte di Abd-Allah “nella costiera di Marka, terra di Rûm;” cioè Italia o Grecia. Ancorchè quelle che or chiamiamo le Marche non fossero intese allora sotto questo nome, il vocabolo Marca appartiene piuttosto all'Italia che alla Grecia.
180.Paulus Diaconus, lib. V, cap. 13, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte I, p. 481; Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. III, p. 141; Johannes Diaconus, Chronicon, etc., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte II, p. 305. La seconda impresa dei Musulmani, in Affrica è raccontata da Paolo dopo questa di Sicilia nel lib. VI, cap. 10. Da coteste autorità cristiane, o per dir meglio dall'unica tradizione che ripetono questi e altri cronisti, si sa che l'armata musulmana venisse d'Alessandria, dopo la partenza di Costantino Pogonato da Siracusa, che tornerebbe alla state o autunno del 669.
  Le autorità musulmane sono citate di sopra (p. 84, nota 4, e p. 85, nota 1). Tra quelle il solo Baiân assegna una data a questa scorreria, e la fa supporre mossa d'Affrica, per comando di Mo'âwia-ibn-Hodeig che guerreggiasse in quella provincia. La data è del 46 (666-7), nè si deve esitare a correggerla secondo i Cristiani; poichè que' preziosi simulacri ci fan fede della identità della impresa. Replico che il diligentissimo Ibn-el-Athîr non fa molto di que' primi assalti sopra la Sicilia. Trovo soltanto ne' suoi annali, MS. C, tom. III, fog. 42 verso, sotto l'anno 49 (8 febb. 669, a 27 gennaio 670): “Quest'anno seguì la fazione marittima d'inverno alla quale andò O'kba-ibn-Nafi' con la gente d'Egitto.”
  Debbo qui avvertire che il Rampoldi, Annali musulmani, tom. III, sotto il 668 porta la impresa di Abd-Allah-ibn-Kais, citando Nowairi, e aggiugnendo di capo suo che i Musulmani sbarcassero al capo Pachino. Poi sotto il 673, e come per lo più gli avviene senza citare alcuna autorità, narra il saccheggio delle campagne di Siracusa “per una divisione della gran flotta di Mohammed Ibn Abdallah,” ch'ei nell'anno precedente avea detto uscita “di Siria e d'Egitto” a far preda sul mare Egeo. Suppongo che il Rampoldi abbia veduto questo fatto in qualche moderna compilazione, come credo, persiana, chè non suole egli attingere ad altre sorgenti che a queste o a libri stampati in Europa; e forte sospetto che si tratti della medesima scorreria del 669, portata quattr'anni appresso per errore di cronologia. Han seguíto il Rampoldi, Martorana, Notizie storiche ec., tom. I, p. 29, citandolo, e Wenrich, Commentarii etc., lib. I, cap. 2, § 42, senza citare nè l'uno nè l'altro; e peggio, mettendo insieme questa impresa con una seguíta mezzo secolo appresso, e gittandole entrambe su le spalle del Nowairi, che parla soltanto della seconda.
181.Della leggenda di San Placido vi ha due compilazioni, fatte entrambe nel XII secolo sotto gli auspicii dell'Abate di Monte Cassino. L'una va sotto il nome del prete Stefano Aniciese, il quale finse di tradurre un testo greco, che, com'è naturale, non si trova; recato, diceasi, da Costantinopoli da un vecchio centenario che capitò a Salerno il 1115, e su le prime fu ributtato dai monaci Cassinesi, o ne fecero le viste. L'altra è di Pietro Diacono, monaco Cassinese, continuatore, come ognun sa, della cronica di Leone d'Ostia, compilatore delle vite degli illustri Cassinesi, e uomo erudito, che fu il principale autore o strumento della impostura di cui trattiamo. Costui dice che per comando dell'Abate ei si fe' a ripulire e racconciare la narrazione, e in fatto v'aggiunse i due episodii del 669 e 905. Leggonsi le due compilazioni presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, p. 172 a 184, con le Animadversiones, p. 145 a 157, dove a p. 157 si trova per tenore il breve di Sisto V. Lo scrittore del breve tradisce un po' il segreto, noverando il rinvenimento delle reliquie di San Placido e Compagni tra le grazie di Dio, quæ his calamitosis et truculentis temporibus christiano populo in dies largitur. Il Gaetani e altri han cercato di rattoppare i casi di San Placido e di Mamuca, dicendo che i corsari sbarcati a Messina forse erano Vandali, Goti, Avari ec. Resterebbe a provare come il principe di questi Barbari germanici o finnici si chiamasse in purissimo linguaggio arabo Abd-Allah.
  I supposti documenti si trovano presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 374, seg., sotto i numeri 11 a 20 e 22, 23, 26, 27, dei diplomi posti in appendice come dubbii o falsi. Il giudizio del Di Giovanni si vegga nelle note ai detti documenti, e segnatamente a p. 378; que' del Baronio e del Pagi negli Annales Ecclesiastici del primo, anno 541, § 27, 28, 29, e § 8 della Critica, an. 669, § 4; quello del Mabillon negli Annales Ordinis Sancti Benedicti, lib. XV, § 73.
182.Veggasi qui pag. 121, nota 1.
183.Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fol. 180 recto, dicendo della vera o supposta migrazione delle tribù berbere in Affrica ove dominavano i Romani, e come gli Afârik divennero tributarii dei Berberi, aggiugne “Gli Afârik erano come servitorame e preda dei Romani.” Da ciò si comprende appunto quale popolazione gli Arabi designassero col nome Afârik o Afârika. Il fatto che mutando padroni fossero divenuti vassalli dei Berberi, fu vero in molti luoghi duranti le lotte dei Berberi contro i Romani e i Bizantini. Veggasi anche Ibn-Abd-el-Hakem presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 301, in appendice; Bekri, Notices et extraits des MSS. etc., tom. XII, p. 511; e il Baiân, p. 23.
184.Prova anche questa opinione una favola che leggiamo nel Riadh-en-nofûs, MS., fol. 2 recto, cioè che un Abd-Allah-ibn-Ziâdh-ibn-An'am asseriva aver visto a Cartagine un sepolcro sul quale era scritto in caratteri himiariti: “Io fui Abd-Allah-ibn-Arâsci inviato dall'apostolo di Dio Sâlih al popolo di questa città per chiamarlo alla vera fede: chè io loro arrecava la luce; essi iniquamente mi uccisero; e appartiene a Dio la vendetta.”
185.Su la origine dei Berberi e del nome loro mi riferisco alle testimonianze degli autori dell'antichità e arabi, e alle opinioni moderne che si ritraggono dai seguenti libri: Ibn-abi-Dinâr (detto nella versione francese el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, p. 22, 28, con le pregevoli note di M. Pelletier; Leone Africano, presso Ramusio, Navigatione et Viaggi, p. 2; De Guignes, nella raccolta Notices et extraits des MSS., tom. II, p. 152; Pococke, Specimen historiæ Arabum, p. 56; Gibbon, Decline and fall, cap. LI, nota 162; Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, pag. 2, 3, 243; Castiglione, Mémoire géographique et numismatique sur l'Afrikia, p. 83, e 94 e seg.; De Slane, Ibn Khallikan's Biographical Dictionary, tom. I, p. 35; Ibn-Khaldûn, estratti nel Journal Asiatique, série II, tom. II (1828), p. 117, seg., e lo stesso autore nel racconto del primo conquisto di Affrica, MSS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, tom. II, fog. 180 recto; Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes, tom. I, p. 21, 67, 68; Saint-Martin, note a Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. XI, § 29. Si ricordino oltre a ciò i Barbaricini di Sardegna ai tempi di San Gregorio, dei quali si è fatto parola nel cap. I, p. 18, nota 1.
186.L'occupazione di Zuâgha, ch'è forse l'antica Sabratha, si ritrae da Tigiani, Journal Asiatique, février-mars 1853, p. 125, con la nota dell'erudito traduttore M. Alphonse Rousseau.
187.Il barone Mac-Guckin De Slane, Journal Asiatique, série IV, tom. IV (1844), p. 329, seg. Le autorità da cui si ritraggono le varie narrazioni son citate da lui. Veggansi ancora Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. II, fog. 170 recto a 172 verso; Baiân, p. 3, seg., dalle narrazioni dei quali mi persuado che M. De Slane abbia accusato a torto il solo Nowairi ed abbia troppo scemato il merito che torna ad Abd-Allah-ibn-Zobeir.
188.Ibn-Abd-Rabbih, MS. di Parigi, tom. II, fol. 161 recto, seg., dà il tenor di questa orazione o Khotba, come la chiamano gli Arabi, in una raccolta di così fatti componimenti; nè veggo alcuna ragione di metterne in forse l'autenticità. Ho aggiunto la vaga parola moneta al numero che scrive l'autore, senza dir se fosse di dirhem, ovvero dinar. Nel primo caso, la taglia posta da' vincitori sarebbe appena arrivata a un milione e mezzo di franchi o lire italiane ragionando il dirhem a 0,60, poichè la somma totale del dividendo torna a 2,500,000. Se poi si trattasse di dinar, contando questa moneta a lire ital. o fr. 14,50 secondo il valore intrinseco dei dinar ben conservati e supposti di oro puro, la somma sarebbe montata a 36 milioni circa. Leggo per conghiettura in questo non buono MS. la parola che ho tradotto “due tanti.” La somma di danaro menzionata nel discorso di Abd-Allah-ibn-Zobeir, sia che si ragioni in dirhem, sia anco in dinar, messa a ragguaglio con le cifre che si danno nel racconto ordinario, presterebbe nuovi argomenti a distrugger ciò che dicono i moderni cronisti. Uno squarcio della detta orazione si legge anche nel Riadh-en-nofûs, MS., fol. 3 verso; ma non arriva che alle parole “fino al tramonto del sole.”
189.Nowairi presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 323 in appendice. I quindici mesi debbono contarsi come principiati nell'anno 26, e terminati nel 27 dell'egira, e però comprendono tutto il 647 dell'era volgare. Ibn-el-Athîr pone il principio dell'impresa nel 26.
190.Bekri, nella raccolta Notices et extraits des MSS., tom. XII, p. 500; Tigiani, Journal Asiatique, août-septembre 1852, p. 80.
191.Ibn-Abd-el-Hakem, MS. A, p. 258, narra cotesto ordinamento di Alessandria.
192.Ibn-Abd-el-Hakem, op. cit., p. 263, 264. L'autore distingue quattro imprese negli anni 34 (654-5), 40 (660-1), 46 (666-7), e 50 (670), delle quali la penultima capitanata da O'kba-ibn-Nafi', e le altre da Mo'âwia-ibn-Hodeig. Lo stesso si ricava dal Riadh-en-nofûs, MS., fog. 3 verso, e 4 recto, e 9 recto. Quelle date e nomi son confusi negli altri cronisti, cioè Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, p. 43 verso, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 5 e 12; Baiân, p. 8 a 11; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 327, seg.
193.È la notissima voce caravana. I lessicografi arabi la credono di origine persiana e che voglia dire comitiva di viandanti ed esercito. Secondo un rinomato filologo arabo di Sicilia, Ibn-Kattâ', citato da Ibn-Khallikân (Biographical Dictionary, tom. I, p. 35), Kairewân ha il primo di questi significati e Kairuwân il secondo. Ma Beladori e Ibn-Abd-el-Hakem, de' quali ho già parlato, lo adoperano evidentemente nel senso di campo permanente, come è stato notato dal barone De Slane (Journal Asiatique, Série IV, tom. IV, p. 354, 361). Donde pare evidente che tal vocabolo dal nono secolo, quando scrissero que' due cronisti, all'undecimo, quando visse Ibn-Kattâ', era andato in disuso nel significato di alloggiamento e riteneva l'altro soltanto. Forse anco alcune tribù gli davano quel senso e altre no.
194.Riadh-en-nofûs, MS., fog. 2 recto.
195.Ibn-Koteiba presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain, by Al-Makkari, tom. I, appendice, p. LVI.
196.Il Riadh-en-nofûs, MS., fol. 4 recto, parla di due colonne rosse che rimasero nella chiesa di Kamunia fino al tempo di Zladet-Allah (817-838) che le trasportò nella sua novella moschea cattedrale.
197.Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, fog. 43 verso, seg. e 76 recto, seg., sotto gli anni 50 e 62; Riadh-en-nofûs, MS., fog. 4 recto a 5 verso; Baiân, p. 12 segg.; Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn Khaldoun, tom. I, p. 327, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 10, seg.
  I quattro primi danno a un dipresso il medesimo racconto; l'ultimo lo scorcia. Ibn-el-Athîr nota che Wâkidi, Tabari e gli scrittori Maghrebini, o vogliam dire Arabi d'Affrica, discordavano intorno le date dei due governi di O'kba; ed ei s'appiglia ai Maghrebini, com'anch'io ho fatto. La gloriosa morte di O'kba che Ibn-el-Athîr narra il 62 (681-2), avvenne il 63, come s'argomenta dal Riadh-en-nofûs, MS., fog. 5 recto, che dice come fuggiti gli Arabi di Kairewân, ch'era stata occupata dal vittorioso Koseila, arrivarono a Damasco il 64, dopo la morte del califo Iezîd.
198.Si confrontino: Riadh-en-nofûs, MS., fog. 5 recto e verso, che porta l'impresa nel 69; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, fog. 77 recto, sotto l'anno 69 (688-9); Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 23, che porta la data del 67 (686-7); Baiân, p. 18; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 337-338. Il Rampoldi, Annali Musulmani, tom. II, p. 105, sotto l'anno 685, porta l'assalto dell'armata di Sicilia non a Barca ma a Cartagine, confondendo così due imprese ben distinte.
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28 eylül 2017
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