Kitabı oku: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II», sayfa 14
Venendo ai monumenti, Ibn-Haukal notava la Moschea giâmi' del Cassaro, una volta tempio cristiano; nella quale serbavansi, al dire dei logici della città, le ossa d'Aristotile; ma ei non si fa mallevadore che d'aver visto il feretro, appeso in alto, e udita la tradizione che gli antichi Greci solessero impetrare miracoli dalle ceneri del filosofo in tempi di siccità, pestilenze o guerra civile. Donde è libero il campo a porre il mito e il monumento innanzi o dopo l'èra cristiana; richiamandoci il nome all'antichità, forse al culto d'Empedocle, ma la qualità ed uso del santuario s'adattan meglio alla pietà cristiana; e la medesima tradizione riferita da Bekri dà, invece d'Aristotile, il nome di Galeno, che da Roma andasse a trovare i Cristiani in Siria, e fosse morto, in viaggio, in Sicilia702. Nè sembra strano che alla dedizione di Palermo si fosse pattuito di lasciare in piè tutta o parte la chiesa; e che quando la fu mutata affatto in moschea, i nuovi padroni, tra credere e non credere, avesser lasciato sì comodo palladio in qualche cantuccio fuor l'edifizio; che esempii v'ha di chiese bipartite tra le due religioni nei primi conquisti; e non meno di superstizioni reciprocamente tolte in prestito non che tollerate, quando si rattiepidì lo zelo703. Il Cassaro, ovale, era tagliato nell'asse maggiore dalla strada dritta ch'oggi ne ritiene il nome, la quale s'appellava Simât diremmo la “Fila:” chè tal era, di fondachi e botteghe, e, raro pregio nel medio evo, tutta selciata. Avea la città vecchia nove porte, delle quali si riconosce il sito;704 ed una era quella che, in grazia d'esotiche lettere intagliate su l'arco e in un minaretto vicino, fu creduta infino al secol passato opera dei fondatori ebrei o caldei di Palermo. Demolita la porta e il minaretto da un vicerè spagnuolo; serbati da dotti del paese i disegni dei caratteri che inghirlandavano il minaretto, ancorchè trasposti e mutili, come s'erano mescolate e perdute in parte le pietre, ognun vi scorge una bella e severa scrittura cufica, e se ne può accozzare la data del quarto secolo dell'egira e tre versetti del Corano, di quei soliti a porre nelle moschee.705 La Khâlisa avea mura senza altre porte che quattro dal lato di terra, a mezzogiorno. Sorgeano fuor le mura, credo del Cassaro, in sul bacino di levante i ribât, come chiamavansi nelle città di confine le stanze dei volontarii spesati su le limosine legali o su lasciti pii, per uscire in guerra contro gli Infedeli; la quale genía, come si allargò e corruppe l'islamismo, somigliava ormai per la disciplina ai ribaldi negli eserciti feudali, e per l'ozio ai frati mendicanti nei paesi che n'han troppi. Molti ribât, dice Ibn-Haukal, sono in Palermo in riva al mare, pieni zeppi di sgherri, scostumati, gente di mal affare: vecchi e giovani, perversi e infingardi, mascherati di devozione per carpir la moneta e intanto svergognar le donne oneste, fare i mezzani e peggior brutture; riparati colà per non aver condizione nè pan nè tetto.
A computare il numero degli abitatori, Ibn-Haukal ci dà questo bandolo: che la moschea de' beccai, un dì che v'erano ragunati tutti con lor famiglie e attenenti, racchiudea da settemila persone. La quale arte stando negli odierni censimenti della città a tutta la popolazione come uno a cento, il numero tornerebbe nel decimo secolo a settecentomila; e, fattavi pur grossa tara per le mutate condizioni, non si può ragionar meno di trecento o trecencinquanta mila anime.706 A ciò ben s'adatta l'altro dato delle cinquecento moschee ch'erano in Palermo, delle quali tre quinti nella città vecchia e grosse regioni e due quinti nei sobborghi: moschee tutte acconce e frequentate, tra pubbliche, di corporazioni e di privati. Nè Ibn-Haukal tante ne avea viste mai in cittadi uguali e maggiori; nè sapea trovarne riscontro se non a Cordova, il numero delle cui moschee gli era stato raccontato, ma in Palermo l'avea ritratto con gli occhi suoi proprii e tutti i cittadini gliel confermavano. Cordova in vero, decaduta nel decimoquarto secolo, ebbe da settecento moschee707 e poco meno Costantinopoli fino al decimosettimo secolo.708
Dalla quale sovrabbondanza Ibn-Haukal cava argomento di riprendere i Palermitani che ciascuna famiglia per superbia e vanità volesse la sua cappella particolare, fin due fratelli che abitavan muro a muro. E narra che un Abu-Mohammed oriundo di Cafsa, giurista in materia di contratti,709 arrivò a fabbricare vicino a venti passi alla propria una moschea pel figliuolo, affinchè vi desse lezioni di dritto. Notato poi che più di trecento pedagoghi insegnavan lettere ai giovanetti, v'appicca la chiosa che eleggean tal mestiere per iscusarsi dalla guerra sacra, anche in caso d'irruzione del nemico; ch'e' si vantavano di probità e di religione e facean da testimonii nei giudizii e nei contratti; ma in fondo nulla era in essi di bello nè di buono. Nè era in alcun altro. In fatti, il cadi Othman-ibn-Harrâr, uom timorato di Dio, conosciuti alla prova chi fossero i suoi concittadini, avea ricusato lor testimonianze, grave o leggiero che fosse il caso; onde s'era messo a terminar tutte le liti con accordi; e infermatosi gravemente ammonì chi dovea prendere il magistrato non si fidasse d'anima vivente. Al quale succedette, continua Ibn-Haukal, un Abu-Ibrahim-Ishak-ibn-Mâhili, che fece ridir di sè molte scempiaggini.710 Che più, se non usano la circoncisione, nè osservano le preghiere, nè pagan la limosina legale, nè vanno in pellegrinaggio; e appena avvien che digiunino il ramadhan e che facciano il lavacro in un sol caso! E scaglia la sentenza: non essere in Palermo begli ingegni, nè uomini dotti, nè sagaci, nè religiosi; non vedersi al mondo gente meno svegliata, nè più stravagante; men vaga di lodevoli azioni, nè più bramosa d'apprendere vizii.
Ma si tradisce col filosofare: che la radice di tanto male è il gran mangiar che fanno di cipolle crude, mattina e sera, poveri e ricchi; ond'han guasto il cervello e ammorzato il senso.711 In prova, ecco, bevon dei pozzi anzichè cercar le dolci acque correnti; al ragionar con essi t'accorgi c'han le traveggole; nel guardarli vedi alla cera la complessione intristita. Ghiottoni, che non si sgomentano a puzzo di cibi. Sudici di loro persone, da far parer mondi i Giudei. Allato al negrume di lor case diresti bigio un focolare. Nelle più splendide, vedi correre i polli e sconciare la stanza e fino i guanciali del padrone. Arroge che in Sicilia il frumento non si serba da un anno all'altro; e sovente, sì malvagio è l'aere, inverminisce su l'aia.
Il tempo è passato che scrivendo la storia si prendea battaglia per simili argomenti, e che la carità patria, bamboleggiando, avvampava sol nelle inezie. Pur non debbo ricusare ai miei concittadini musulmani di nove secoli addietro il giusto giudicio, secondo parer mio, come farei pei Medi o i Cinesi. Dico dunque che la storia letteraria della Sicilia dalla metà del decimo alla metà del duodecimo secolo non mostra nè ingegni grossi nè studii negletti; e Ibn-Haukal medesimo cel dà a vedere quando ricorda i logici che favellavano d'Aristotile, i trecento maestri di scuola e le tante moschee, parte delle quali serviva, come ognun sa, agli studii ch'or diciamo universitarii. Certamente, nel secolo che corse da Ibn-Haukal alla guerra normanna la cultura progredì sotto i Kelbiti; ma non poteva giacer sì bassa al suo tempo. Lo stesso penso dell'incivilimento esteriore, che pur era sì notevole nella detta guerra e dopo, come l'attesta qualche poesia d'Ibn-Hamdîs, al par che una geografia anonima,712 e Ibn-Giobair e Ugone Falcando e con essi tutta la storia della dominazione normanna. Quanto alle virtù religiose secondo lor setta, le meno importanti si son viste nelle biografie dei devoti: la primaria, ch'era il genio guerriero, splendè in due nobilissime vittorie riportate, l'una pochi anni innanzi a Rametta sopra l'impero bizantino, l'altra pochi anni appresso in Calabria sopra Otone secondo. Però l'aspra censura è accozzata, come per lo più avviene, d'errori e di verità. Errore fu d'Ibn-Haukal, che, praticando coi mercatanti del paese, ritrasse la nobiltà, i dottori e la plebe con tutte le sembianze che quei lor davano per invidia di classe. Errore, ch'ei condannò come vizii fisici e morali tutte le qualità insolite ch'ei notava in quei Musulmani misti di sangue greco e latino; mezzo stranieri ai lineamenti del volto, alla carnagione, alla pronunzia, agli usi, nè ben domati a tutte pratiche dell'islamismo. Verità era il fermentar dei molti elementi eterogenei di che si componea la popolazione della Sicilia e sopratutto di Palermo: tante schiatte; islamismo e avanzi palesi o latenti di cristianesimo; diritti civili disuguali, ricchezza e miseria, violenza guerriera e industria; torre di Babele, in cui doveano pullulare superbia, rancori, abiezione e infinite piaghe sociali. Se molte n'esagerava nella sua mente il buon mercatante di Bagdad, molte pur ne toccava con mano.
E in Sicilia non solo, ma in Spagna, ma in tutti gli stati musulmani del Mediterraneo. A leggere i suoi scritti lo si direbbe disingannato e dispettoso del non aver trovato in Ponente la virtù civile che mancava a Bagdad; come i mali proprii s'appongon sempre al destino, e gli altrui a chi li patisce. Similmente avviene che giudicando gli stranieri si vegga in molte cose la superficie, si sconoscano le virtù, ma s'imbercin diritto i vizii fondamentali; il che mi par abbia fatto Ibn-Haukal nella descrizione generale del Mediterraneo. Toccando quivi di Cipro e Creta: “Le tennero” ei dice “i Musulmani, i figliuoli dei combattenti della guerra sacra; ma l'invidia e la crudeltà invasaron cotesti popoli, al par che que' dei Confini dell'impero, della Mesopotamia e della Siria; proruppe tra loro il mal costume, la iniquità, l'ingordigia, la discordia, la perfidia, l'odio scambievole; sì che costoro apriron la strada ai nemici e serviranno d'ammonimento a chi ben consideri gli eventi.”713 E pria di terminare il capitolo: “In oggi,” ripiglia, “i Rûm offendono i Musulmani con ogni maniera di scorrerie su le costiere di questo mare, e fan preda di nostre navi d'ogni banda; nè abbiam chi ci aiuti nè ci difenda. Abietti si calano i nostri principi, pieni d'avarizia e di superbia in casa; i dotti non curano nè intendono, ti danno responsi comentando come a lor piace, nè pensano a Dio nè alla vita futura; pessimi i mercatanti, non rifuggon da cosa illecita nè reo guadagno; i devoti balordi, pronti a voltar casacca, fanno cammino in ogni calamità e spiegan la vela ad ogni vento: e però i confini e le isole rimangono in balía dei nemici, e la terra si lagna con Dio della iniquità di cui la tiene.”714
CAPITOLO VI
In questo tempo l'amistà di Moezz con Niceforo par abbia preso quella sembianza di lega che i cronisti occidentali rinfacciano all'impero bizantino. Già da parecchi anni Otone primo, cominciava a colorire i disegni sopra l'Italia meridionale, come accennammo; profferiva da sovrano feudale aiuti a Pandolfo Capo di ferro principe di Capua e Benevento contro Niceforo rivolto al racquisto della Puglia; tentava senza frutto di tirare a sè il principe di Salerno; d'ottobre del sessantotto correa con incendii e rapine i confini di Calabria e dello stato salernitano; accattava forze navali dai Pisani che poco appresso si veggono combattere in Calabria;715 di marzo del sessantanove incalzava l'assedio di Bari tenuta dai Bizantini; e in quel torno inviava aiuti a Pandolfo, che fu vincitore e poi vinto a Bovino.716 La pratica del matrimonio del figliuolo con la principessa greca Teofano, anzichè comporre, rinvelenì gli animi (giugno ad ottobre 968) per la perfidia che v'odorò la corte bizantina, la ingiuria che incontrò a Costantinopoli l'ambasciatore Liutprando, e il vero o supposto tradimento dei Bizantini che dettero addosso in Calabria alle genti di Otone quando liete veniano a ricever la sposa (969). Seguirono dunque in Puglia tra le armi de' due imperi parecchi scontri che non occorre divisar qui.717 Nell'un dei quali forse il novecensessantotto due Landolfi, fratello e figliuolo di Pandolfo Capo di ferro, combatteano in Ordona contro i Greci e i Musulmani uniti insieme e metteanli in fuga; ma il giovane Landolfo vi toccò una ferita.718 Atto figliuol del marchese Trasimondo di Spoleto, del novecensettantadue, ruppe un capitan musulmano Bucoboli, e inseguillo infino a Taranto:719 forse ausiliare mandato da Moezz pria della morte di Niceforo Foca; forse capitan di ventura ai soldi del principe di Salerno, o della repubblica di Napoli, la quale era stata poc'anzi (970) assalita da Otone.
Ma Zimisce, ucciso Niceforo (11 dicembre 969) e salito sul trono, fermò la pace con Otone e le nozze di Teofano col figliuolo;720 talchè mancava una ragione dell'accordo tra Costantinopoli e i Fatemiti. Svanì l'altra ragione per le vittorie di Zimisce in Siria e di Moezz sopra i Karmati; donde tolti via i nimici comuni, cominciarono l'un contro l'altro a digrignare.721 Morirono poi entrambi entro due settimane (24 dicembre 975, 7 gennaio 976); e ricaduto l'impero bizantino in gare di corte e guerre civili, non seguirono altri effetti contro i Fatemiti, ma non si rappiccò nè anco la pace. In Puglia intanto eran già venuti alle armi. Del novecensettantacinque uno Zaccaria, che par greco al nome, avea preso Bitonto, ucciso prima Ismaele, musulmano al nome, condottier ausiliare o di ventura.722
L'ardimento di sbarcar non guari dopo a Messina, mostra che i Bizantini andassero co' nuovi contro i vecchi amici. Tornano a questo tempo i preparamenti navali di Niceforo, maestro, come s'intitolò, di Calabria, il quale, secondo legge bizantina, fece armare salandre a spese delle città per difender le costiere e assaltare la Sicilia; e tanto aggravò quei di Rossano, ch'arser le navi e ammazzarono i protocarebi; e il governatore, dopo molte minacce, perdonò loro a intercessione di San Nilo il giovane, o perchè non era agevol cosa a punire.723 Sembra che coi Bizantini si siano accozzati i Pisani, testè venuti in Calabria ai servigi dell'Impero, e che abbian fatto l'impresa con forze navali soltanto. Occupavan Messina alla prima. Sopracorreavi Abu-l-Kâsem con l'esercito siciliano e gran compagnia di dotti e virtuosi cittadini, scrive Ibn-el-Athîr, quasi a smentire Ibn-Haukal. Del mese di ramadhan del trecensessantacinque (mag. 976) entrava nella città, dove i nemici non l'aspettarono. Inseguendoli pertanto di là dallo stretto, risalì con le genti fino a Cosenza; la quale assediò parecchi giorni; e chiestogli l'accordo per danaro, assentì; e andò a porre la taglia nella stessa guisa alla rôcca di Cellara, indi ad altre terre. Mandava intanto il fratello Kâsem con l'armata su le costiere di Puglia,724 commettendogli di spingere le gualdane giù per la Calabria ov'ei guerreggiava col grosso delle genti.725 I Musulmani assaliron Gravina in Puglia, che fu indarno, al dir d'una cronica latina; al dir d'un'altra la presero: ma forse s'appongono entrambe al vero, se finì con pagare la taglia.726 Sparso molto sangue, fatto gran bottino e copia di prigioni, l'emiro e il fratello tornavano in Sicilia.727
Dove Abu-l-Kâsem, non dimenticato l'assalto di Messina, ristorava la forte rôcca di Rametta, l'anno trecensessantasei (29 agosto 976, 17 agosto 977), e vi ponea presidio capitanato da un suo schiavo negro.728 Ripassò poscia in Terraferma, investì Sant'Agata, quella forse che s'addimanda di Reggio; tantochè i cittadini ne uscirono per accordo, consegnatagli la rôcca e quanta roba v'era.729 Così Ibn-el-Athîr: un altro cronista arabico dice sbarcato Abu-l-Kâsem alle “Torri” (Abrâgia), dove messosi l'esercito a rapire pecore e buoi e traendosene dietro una infinità che impediva il cammino, il capitano li fece sgozzar tutti in un luogo, al quale indi rimase infino ai dì del cronista il nome di Monakh-el-bakar o diremmo noi la “Posata del bestiame.”730 Appressandosi i Musulmani a Taranto, i cittadini sguisciaron via, chiuse le porte in atteggiamento di difesa, per intrattenere il nemico: e questi saliva le mura, credendo dar battaglia; se non che, accortosi della burla, pose fuoco alla città e distrussene a suo potere. Giunse Abu-l-Kâsem ad Otranto; corse altre città delle quali non ci si dicono i nomi;731 ma sappiam che Oria in Terra d'Otranto e Bovino in Capitanata, furon arse entrambe, e il popol minuto d'Oria condotto prigione in Sicilia.732 Assalita per ultimo una città che mi par da leggere Gallipoli,733 e presone la taglia, l'esercito si riduceva in Sicilia, con torme di prigioni, salmerie di ricche spoglie, e vanto, che parea gloria, d'aver dato il guasto a sì vasto tratto di paese che fa in oggi mezzo il reame di Napoli.734 I cronisti noverano due altre imprese d'Abu-l-Kâsem in Terraferma tra il settantotto e l'ottantuno, senza narrarne i particolari.735
Inaspettatamente qui viene un'agiografia greca ad attestare il gentil animo dell'emir di Sicilia. Ma principieremo da più alto, poichè i costumi del popolo assalito, e un po' anco degli assalitori, per tutto il decimo secolo son come l'ordito di cotesto scritto, con trama sì discreta di soprannaturale, da non far impedimento alla vista. Diciamo della Vita di San Nilo da Rossano, dettata da un compagno e discepol suo alla fine del decimo a principio dell'undecimo secolo. Nacque San Nilo verso il novecentotrè; morì verso il novantotto. Studiò i santi padri, cioè Antonio Saba, e Ilarione, scrive il discepolo; quantunque non gli mancassero libri nè ingegno da apprendere negromanzia, se l'avesse voluto.736 Una febbre lo fe' pensare alla morte, giovane di trent'anni; perilchè abbandonati i beni ed una figliuola naturale ch'avea, si tonsurò nel monastero di San Mercurio e corse a cercare asilo in quel di San Nazario,737 dove non arrivassero le branche del governatore bizantino, il quale lo volea sfratare e tornare al duro giogo di decurione. Fuggendo dunque solo e a piè in riva al mare, ecco saltargli addosso dalle fratte un barbaro saraceno, seguito da Etiopi con occhi di bragia che avean lì tirata loro barca. E il barbaro a interrogarlo; e, inteso che andasse a fare i voti monastici, si messe umanamente a persuaderlo d'aspettar la vecchiaia a lasciare il mondo. Vistolo risoluto, l'accomiatò che tremava da capo a piè; ma pensato meglio, li corse dietro gridando: “Fratello, aspetta aspetta;” e volle provvederlo per lo viaggio di pani finissimi, scusandosi che non avesse in pronto altro da mangiare. Fu costrutta poi in miracolo tal ordinaria carità musulmana a povero viandante: fu creduto il demonio in carne e in ossa un gentiluomo, il quale cavalcando presso San Nazario, intendendo il proponimento del giovane, lo chiamò pazzo, poichè se volea salvar l'anima potea far penitenza in casa senza ficcarsi tra i frati, “avari,” dicea, “pieni di vanagloria, dati tutti alla crapula; che un caldaio di lor cucine capirebbe me ritto in piedi e mezzo questo mio cavallo.” Preso l'abito, tornato a San Mercurio dopo un pezzo, Nilo si segnalò per obbedienza monastica, flagellarsi, pregare, vestir ciliccio che mutava una volta ogni anno, pazienza dello schifo e disagio; ed anche assiduità allo studio, belle massime di carità cristiana, e mondana sagacità e prudenza.738
Donde salì in fama di santità: riverito dai magistrati; andaron vescovi, arcivescovi, ciambellani di Costantinopoli e i governatori stessi di Calabria a richiederlo di vaticinii e consigli;739 fondò il monastero di Grottaferrata presso Roma; vinse l'antipatia della schiatta italica e oltramontana a sua favella e greca profusione di capelli e barba;740 fu onorato in sua vecchiezza a Monte Cassino, a corte dei principi di Capua, dall'imperatore Otone terzo e da Gregorio quinto, dai quali impetrò grazia all'antipapa Filargato.741 Pria di pervenire a tanta altezza, avea patrocinato rei minori, come i sollevati di Rossano di cui dicemmo, ed un giovane di Bisignano che svaligiò ed uccise un giudeo, ed i magistrati lo volean dare in mano alla comunità israelita.742 San Nilo gareggiò a suo modo nell'arte salutare col medico giudeo Sciabtai Donolo, uom di molta sapienza a quel tempo in Calabria.743 E come ci vengon visti nella vita del Donolo,744 così anco in quella di San Nilo i Musulmani di Sicilia, ch'erano per fermo il flagello principale delle Calabrie, dopo i governatori bizantini. In una spaventevole incursione, quella, come parmi, d'Hasan del novecencinquantuno o del cinquantadue, i monaci di San Mercurio si rifuggivan qua e là per le castella; San Nilo rimanea nel romitaggio d'una spelonca vicina, donde vide la polvere dei cavalli nemici; e, campato su nella montagna, tornando, trovò che gli avean rubato fino un sacco di cilicio, e il monastero desolato, e mancava un fedel suo compagno. Cui volendo riavere o rimaner prigione con essolui, si poneva all'aperto in mezzo alla strada; vedea venir dieci cavalieri vestiti, armati e cinti le teste di fazzoletti745 alla foggia dei Saraceni; quand'eccoli smontare, inginocchiarsi: ed erano gli abitatori d'un castello, che così travestiti scorreano, se per far bene o male non so, i quali lo accertarono essere salvo il compagno.746 Posate poscia le armi musulmane, seguíto il tumulto di Rossano che narrammo, San Nilo presagì la novella tempesta. Tornò allora a Rossano l'arcivescovo Vlatto, con molti prigioni riscattati in Affrica, per credito della sorella ch'era moglie, come diceano, del re dei Saraceni: qualche schiava favorita del Mehdi o di Kâim. Dondechè proponendosi Vlatto di andar nuovamente in Affrica a liberar altri Calabresi, San Nilo lo ammonì non si arrischiasse in quella tana di vipere che alla fin fine l'avrebbero morso: e in fatti, andato, mai più non tornò.747 In quel medesimo tempo si raccendea la guerra musulmana in Calabria; vaticinava San Nilo che la non finirebbe di corto, e distogliea lo stratego Basilio dal fabbricare una chiesa, chè gli Infedeli, dicea, la demolirebbero immantinente occupando il paese.748 Nella guerra, forse del novecentosettantasette, riparatosi San Nilo nel castello di Rossano, rimasero nel cenobio tre frati, che furon menati prigioni in Sicilia.749
A riscattarli ei vendea delle canove del monastero il valsente di cento bizantini d'oro,750 e con un frate fidato e un giumento donatogli da Basilio stratego, li mandò in Palermo, con lettere per quel principe, dice la cronica, cui chiamano Amira, e altre ad un segretario,751 brav'uomo e cristianissimo. Il quale tradotta l'epistola all'emiro, quei la lodava di dottrina e prudenza, e vi raffigurava lo stile d'un amico752 di Dio: onde onorato molto il messaggiero e regalatolo, mandava a San Nilo un presente di pelli di cervi e aggiugneavi questa lettera: “Colpa tua, ch'ebbero dispiacere i tuoi frati; poichè se me n'avessi richiesto, ti avrei spacciato una cifera753 che bastava affissarla in su la piazza, e niuno avrebbe molestato, il monastero, nè sarebbe occorso fuggirtene via. Adesso, se non temi di venirne appo di me, potrai soggiornare liberamente nel paese che m'obbedisce, dove sarai rispettato ed onorato da tutti.”754 Del quale scritto mi par genuino il senso, e fin direi il tenore.
Morto intanto Otone primo (973), Otone secondo, che meritò esser detto dai Romani il Sanguinario, ritentava l'impresa dell'Italia meridionale; parendogli quivi men salda che mai l'autorità dei fratelli della moglie, regnanti a Costantinopoli con poca riputazione e impedimento di nuove guerre. Allo scorcio dell'ottantuno, calato a Benevento dando voce del passaggio contro gli Infedeli, espugnata Salerno che gli ricusava l'omaggio e gli aiuti, Otone si apparecchiò al conquisto delle Calabrie.755 Le quali, scrive Ditmar, uom sassone d'alto legnaggio, vescovo e contemporaneo, eran gravemente afflitte dai Greci e dai Saraceni.756 Un altro cronista tedesco di quell'età, afferma che gli imperatori bizantini, non potendo stogliere Otone da cotesta impresa, condussero a soldo i Saraceni di Sicilia e altre isole, e fin d'Affrica e d'Egitto, per lanciarglieli addosso.757 Gli annali musulmani, che maravigliosamente accordansi con Ditmar in molti particolari, notan solo che Abu-l-Kâsem bandì la guerra sacra, poichè il re dei Franchi movea contro la Sicilia.758 Manifesto egli è dunque che i Bizantini e i Musulmani di Sicilia, rinnovandosi il comun pericolo, rifacessero la lega come al tempo di Niceforo e di Moezz.759 Lo stratego di Calabria assoldò forse qualche compagnia musulmana, che stanziò in quelle parti e militò con essolui. Ma l'esercito siciliano non operò mai insieme coi Greci: che gli uni e gli altri combattessero contro Otone sul medesimo campo di battaglia, è falso supposto di moderni scrittori, i quali si fidarono alle compilazioni, mettendo da parte le croniche originali.
In primavera dell'ottantadue, Otone venne sopra Taranto, e in breve la espugnò, mal difesa dai Greci.760 Nella poderosa oste militavano Sassoni, Bavari e altri Tedeschi, Italiani delle province di sopra e dei principati longobardi; condotti dai grandi vassalli dell'Impero laici ed ecclesiastici, dal fior della nobiltà di Germania e d'Italia.761 Scarseggiando di forze navali, Otone s'acconciò coi protocarebi di due salandre, mandate fin dai tempi di Niceforo Foca a raccogliere le tasse di Calabria; i quali gli prometteano d'ardere il navilio musulmano: ch'era doppio tradimento, o quei tentennavano nella fede del signor loro, e si disponeano a seguir Otone vincitore, e vinto abbandonarlo. Erano navi, scrive Ditmar, di mirabile lunghezza e celerità, con doppia fila di remi e cencinquanta uomini ciascuna; armate di quel fuoco cui nulla spegne se non l'aceto. Due gualdane di Musulmani furon sopraffatte dall'esercito d'Otone;762 una delle quali, o una terza che fosse, si difese in una città, credo io Rossano, poi si dette alla fuga.763
Abu-l-Kâsem, partito con l'esercito del mese di ramadhan trecentosettantuno (27 aprile a 26 maggio 982), saliva lungo la costiera orientale di Calabria, dove ebbe più certi avvisi delle forze del nemico accampato a Rossano.764 Perchè non si fidando d'assalirlo, adunati i capitani che voleano andare innanzi, risolutamente ordinò la ritirata: e mandavala ad effetto con l'esercito e il navilio, quando i legni nemici che stavano alla vedetta, addandosene, mandarono spacci ad Otone che corresse sopra i Musulmani sbigottiti.765 Ei lascia addietro gli impedimenti e col fior dei suoi fa tate diligenza che sopraggiugne i Siciliani il quindici luglio766 su la marina di Stilo.767 Vistili da lungi sparuti di numero, sclama che sono masnadieri, non soldati, e, incontanente comanda di dar dentro.768 Abu-l-Kâsem, facendo alto, s'era già messo in ordine di battaglia.769
Dopo aspro menar di mani avvenne che uno squadrone imperiale caricando il centro de' Siciliani lo ruppe e volse in fuga. Trapassando nell'impeto fino alle bandiere difese da Abu-l-Kâsem con un forte nodo di nobili e prodi cavalieri, tennero il fermo; furon tutti mietuti e l'emiro ucciso d'un colpo al sommo della testa:770 ma immolandosi strapparon la vittoria di mano all'imperatore tedesco. Chè a quel respitto li sbaragliati si rannodano, precipitano alla riscossa, scrive Ibn-el-Athîr, deliberati a morire; i vincitori, scrive Ditmar, dopo breve scontro sono soverchiati e tagliati a pezzi:771 nè fa maraviglia tal subito scambio di sorti quando il centro de' Siciliani sconfitto rifacea testa più addietro, e le ali rimase intere si chiudevano su le spalle del nemico. Il rimanente dell'esercito otoniano si dileguò fuggendo. Lasciò sul campo quattromila morti e grande numero di ottimati prigioni.772 Tra questi noverossi il vescovo di Vercelli mandato ad Alessandria d'Egitto e riscattatosi dopo lunghi anni, al par che tanti altri chierici e laici, i quali a poco a poco si vedean tornar in Germania.773 Degli uccisi, le croniche italiane ricordano Landolfo principe di Capua, Atenolfo suo fratello e i nipoti Ingulfo, Vadiperto e Guido di Sessa;774 le tedesche, Arrigo vescovo d'Augsburg, Wernher abate di Fulda, e molti altri prelati;775 e dei gran baroni un Richar, un duca Odone, i conti Ditmar, Becelino, Gevehardo, Guntero, Bertoldo, Eccelino e un altro Becelino fratel suo, con Burchardo, Dedone, Corrado, Irmfrido, Arnoldo, e altri che Iddio solo conosce, scrive Ditmar, il quale vi perdè uno zio della madre.776
Otone il Sanguinario, fuggendo a briglia sciolta col cugino duca di Baviera, avvistò le due salandre greche presso la spiaggia, e si tenne salvo.777 Ma arrestatoglisi il destriero, un giudeo suo fidato che lo seguiva gli grida: “Prendi il mio e dà pane ai miei figli s'io ci muoio,” onde Otone montato in sella778 spinse il cavallo in mare; gridò e fe' cenno al nocchiero; e quei tirò dritto. Tornato a proda, trova il giudeo, Calonimo il suo nome, che l'attendeva ansioso di lui non di sè stesso: il cugino era ito, chè già si vedean venire a spron battuto i Musulmani. “E che farò?” sclamava Otone. “Ma sì ho ancora un amico!” e lanciossi di nuovo nell'onda col cavallo del giudeo.779 Questi fu ucciso.780 Ricettò l'imperatore l'altra salandra che passava, conoscendolo un ofiziale schiavone.781 Fatto posare dal protocarebo sul proprio letto e interrogato, accertò sè essere Otone: lo pregò d'accostarsi a Rossano, tanto che prendesse seco la moglie e i tesori; ch'ei non voleva rimetter piè su l'infausta terra, ma andare a Costantinopoli, ove i pii imperatori renderebbero merito a chi avesse tolto a sicura morte il cognato. Il Greco assentì: navigando dì e notte giunsero a Rossano.782 Otone mandava lo Schiavone a terra, e non guari dopo fu vista scendere alla marina la imperatrice con Thierry vescovo di Metz ed una fila di giumenti che recavano, come diceasi, il tesoro; a che il capitan greco gittò l'áncora. S'accosta con barchette il vescovo; monta su la nave egli e pochi; parla ad Otone; e questi, per accogliere onorevolmente la imperatrice, indossa abiti di gala, arriva passeggiando al bordo: e giù in mare d'un salto. Un della ciurma che lo volle ritenere, fu trafitto; gli altri ricacciati indietro dagli altri famigliari saliti con l'arme alle mani; e Otone intanto afferrava la spiaggia: talchè i Danai truffatori d'ogni gente furono burlati, conchiude soddisfatto Ditmar.783 Nel cui racconto io non veggo nulla che rassomigli a favola. Altri recò il caso un po' diverso, come l'andava ritraendo la fama;784 chi venne appresso v'aggiunse e tolse quanto gli parve;785 falsarii moderni lo ricomposero a lor modo:786 e in fine i critici nauseati sono stati lì lì per rigettar tutti gli episodii in un fascio.787 I ricordi arabici convengono con Ditmar, sì nei primi accidenti della fuga e sì nel successo, dicendo che Otone si ridusse allo accampamento ov'era la moglie; e con lei tornossi a Roma.788
Linea 3. Trecento, – Tychsen; aggiugnendo con dubbio trentuno. Mi parrebbe più tosto, ma non lo affermo, sessanta.
Linea 4. (Corano, sur. XXIV, v. 36.) in edifizii [i quali] permesse Dio che fossero innalzati.
Linee 5, 6, 7, 8, 9: e che si ricordasse in quelli il suo nome, lodan lui mattino e sera (v. 37) uomini [cui] non distoglie traffico nè vendita dal ricordare Dio, far la preghiera e pagar la limosina; tementi quel giorno in cui saranno confusi i cuori e le viste. – Reinaud.
Linea 12. (Sur. II, v. 256.) Non [v'ha] Dio se non Lui, il Vivente, il Sempiterno. – Tychsen.
Varie parole delle linee 4, 6, 7, 8, di Martinez rispondono alle linee 6, 7, 8, 9 di Fazzello; e mostrano viemeglio quanto i disegni di questo storico sieno più esatti che quelli del Martinez.
Marco Dobelio Citerone nella versione di Scehab-ed-dîn-'Omari, o alcuni degli eruditi siciliani che la stamparono, lessero in vece di Cosenza, Catania; e in vece di Gelwa, Avola. Indi il Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. XV, § 131, a supporre una rivoluzione in Catania ed Avola di Sicilia. Ma nè il testo di Abulfeda copiato da Scehad-ed-dîn, nè il complesso dei fatti permettono questo supposto, tanto meno perdonabile quanto il Martorana, tomo I, p. 225, nota 155, avea mostrato la dritta strada.