Kitabı oku: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II», sayfa 17
Il biasimo ricadrebbe sopra Akhal, se i demanii bastavano alla ristorazione dell'esercito; e, se no, andrebbe diviso tra i Siciliani, che ricusavano il bisognevole, e l'emiro che sel prendea con astuzia e violenza, non iscusate dallo scopo. Ma in questa, come in cento altre vicende di maggior momento e più note e più vicine, la storia non arriva a cogliere in flagrante il primo colpevole. Primi a prendere le armi furono i Siciliani; dei quali par siasi fatto capo un Abu-Hafs,916 fratello d'Akhal, impaziente di torgli il regno, sì come l'avea tentato l'altro fratello Ali, contro Gia'far e lo stesso Akhal, fattolo volontariamente o no: chè i figli del buon Iûsuf rassomiglian forte agli Atridi. Primo a chiedere aiuti stranieri sembra sia stato l'emiro; appo il quale venuto a trattar la pace, dopo il maggio milletrentacinque, Giorgio Probata, “sì destramente condusse il negozio,” scrivono i Bizantini, ch'ei tornò a Costantinopoli col figliuol dell'emiro: ed avanti la fine d'agosto la pace era fermata; Akhal avea accettato dall'impero il titol di Maestro; e, sendo combattuto e incalzato da Abu-Hafs, avea chiesto aiuti al novello padrone, il quale s'apprestava a mandargli Maniace con un esercito.917 Maestro era dignità di corte maggiore del Patrizio ed anco grado militare, come diremmo noi Maresciallo:918 onde veggiamo intitolarsi Maestri dei militi i duchi di Napoli e alcun doge di Venezia,919 capi di stati che dipendean di nome dalla corte bizantina; e veggiam dato da quella onor di patrizio or a dogi amici or a principi longobardi che si piegavano a lei.920 Però il titolo di Akhal non era vana parola. Marchio di vassallaggio; vergogna a Kelbita ed a Musulmano; ottimo pretesto ai sudditi disaffetti, ad un fratello ambizioso e ad un potente vicino.
Le quali pratiche di Akhal e qualche successo della guerra civile sospinsero i ribelli ad imitarlo. Dopo il quattro novembre milletrentacinque, andavano a Moezz-ibn-Bâdîs messaggi dei Siciliani a profferirgli l'isola, s'ei liberassela dagli insopportabili soprusi d'Akhal; e se no, minacciavano di darsi, come uomini disperati, all'impero bizantino. E Moezz mandò loro il figliuolo Abd-Allah, con tremila cavalli e tremila fanti. Il quale in lunga guerra più volte si scontrò con l'emiro, ed aveane l'avvantaggio921 con l'aiuto della parte siciliana e di Abu-Hafs, quando Leone Opo mandato (1034) a capitanare l'esercito d'Italia in luogo d'Oreste, passò il Faro, l'anno milletrentasette, sollecitato da Akhal, che avea l'acqua alla gola. Leone gli fe' largo; ruppe le genti di Moezz: poi temette, o il disse, che i perfidi Musulmani si rappattumassero tra loro per tagliare a pezzi l'esercito battezzato; e tornossene in Calabria, senz'altro frutto che di liberare quindicimila Cristiani prigioni, o piuttosto abitatori di Sicilia cacciati dalla paura di quell'atroce guerra civile.922 Allora prevalsero le armi di Moezz e de' partigiani.923 Akhal non ebbe altro rifugio che le mura della Khâlesa, dove fu assediato e alfine ucciso. Perchè, fatta sperienza per due anni del rimedio attossicato che sono in guerra civile cotesti aiuti stranieri, l'universale dei Musulmani di Sicilia già se ne tediava, già accennava di voler liberare Akhal: quando i principali della rivoluzione li prevennero; fecero assassinare l'emiro nella sua propria fortezza, e presentaron la testa ad Abd-Allah figliuolo di Moezz.924 Abd-Allah era rimaso come padrone della capitale e di tutta isola, quando gli piombò addosso Maniace925.
CAPITOLO X
L'ultimo e men tristo sforzo dell'impero greco sopra la Sicilia, fu ordinato da un frate eunuco, per nome Giovanni, il quale pervenuto era al comando per magagna senza esempio: messo innanzi un garzonaccio fratel suo, che se ne invaghisse Zoe, vicina ai cinquant'anni; fattole avvelenare Romano Argirio, e, mentre spirava, gridar imperatore il drudo, sposarlo la dimane dinanzi il patriarca di Costantinopoli che benedisse le nozze. Michele Paflagone, salito al trono per tal via, mezzo scimunito e mezzo pentito, dava il nome; Zoe stava come prigione, e Giovanni reggea lo stato con fortezza, diligenza ed astuzia. Ritratto lo scompiglio ch'era in Sicilia, il monaco ministro adescò Akhal; deliberò l'impresa; ne fe' capitano Giorgio Maniace, il quale nelle guerre di Siria avea dato prove (1030, 1034) di grandissimo valore e pronto consiglio. Ma Giovanni, tra nipotismo e diffidenza, prepose al navilio uno Stefano, marito della sorella, nè uom di mare, nè di guerra, nè di alcuna virtù. Chiamato Maniace dai confini dell'Armenia,926 passaron due anni tra andirivieni e preparamenti e ridurre a disciplina, quanto si potesse, il nuovo esercito. Il quale ridondò al solito di stranieri: Russi,927 Scandinavi,928 Italiani di Puglia e Calabria e con essi una compagnia di ventura, di qualche cinquecento cavalli, mescolati Italiani e Normanni, la quale s'era condotta ai soldi del principe di Salerno e recavagli or comodo ed or molestia, sì ch'ei volentieri la diè in prestito a Maniace.929
Le geste dei guerrieri scandinavi del Baltico e di lor colonia di Normandia, ci sono pervenute per due maniere di tradizione molto diverse. Gli Scaldi di Norvegia e d'Islanda, in lor saghe non raccomandate alla scrittura innanzi il duodecimo secolo, raccontavano le vicende di casa loro in guisa da raffigurarsi la cronica in mezzo al rustico fogliame rettorico; ma, quanto ai fasti di lor gente in paesi lontani, ne prendeano il tema e lo foggiavano in romanzo poco o punto storico. Sbrigliavansi tanto più nell'immaginare, quanto le saghe, dettate nel proprio idioma, si recitavano per diletto delle brigate e vi s'incastravan qua e là frammenti ritmici. I cronisti normanni, all'incontro, cresciuti in Francia sotto il giogo della letteratura latina, favoleggiavano con minore licenza entro que' che parean limiti conceduti dalla storia classica; se non che il romanzo francese di cavalleria, testè venuto in voga, li allettava ad aggiugnere qualche bel colpo di lancia. Tennero lo stesso metro i monaci italiani che vissero sotto i principi normanni; sì per mal vezzo e adulazione, e sì per non avere il più delle volte altri testimonii che quei principi e que' guerrieri: massimamente nelle prime imprese di ventura in Italia, scritte settanta o novanta anni dopo, su ricordi orali passati per due generazioni. Però è da far tara diversa alle tradizioni scandinave, ed alle normanne. Ed a ciò avremo riguardo or che ci occorrono per la prima volta le autorità settentrionali; studiandoci a cavarne il vero e addentellarlo nei ricordi greci e latini.
Giorgio Maniace e il patrizio Michele Doceano soprannominato “il Fusaiolo,”930 ch'avea dato lo scambio a Leone Opo, ragunate le genti a Reggio, passavano il Faro l'anno milletrentotto.931 Narrano gli scrittori di parte normanna come l'esercito posto a terra non lungi da Messina, lentamente marciò in ordinanza vêr la città; donde impetuosi uscirono i Musulmani, nulla curando il numero dei nemici. Allo scontro balenavano i Greci, quando Guglielmo di Hauteville soprannominato Braccio di ferro, condottiero d'uno squadrone normanno, confortati i suoi con maschie parole, fece sonar la carica: e spronano stretti a schiera, spezzano i nemici, li volgono in fuga, li inseguono fino ai ripari; altri aggiugne che occupassero una porta. La città tantosto s'arrese a Maniace.932 Ma questa fazione, nella quale non abbiam cagione di ricusare la virtù normanna, sembra mero combattimento di vanguardia. I Musulmani in lor guerre di Sicilia non fecero mai assegnamento sopra Messina, città cristiana; nè mai l'afforzarono; nè tennervi presidio di momento.
Il nodo della guerra era a Rametta, dove sopraccorso, com'e' pare, il grosso dell'esercito affricano, stava in sul collo a Maniace da vietargli di dare un passo nell'isola. Ond'egli andatili a trovare tra lor gole e precipizii, lor mostrò sè non essere Manuele Foca, nè alcun sito potersi dir forte senza la virtù degli uomini. Ruppeli con tanta strage che gli annalisti v'appiccicano l'antica metafora del campo dilagato dai rivi del sangue.933 Pur la vittoria poco approdò, difendendosi ostinatamente gli Arabi Siciliani in lor cittadi e castella; sì che Maniace non ne occupò più di tredici in due anni.934 Della qual guerra spicciolata, non ci avanzano ricordi storici; ma dette argomento lì su le rive del Baltico a millanterie di veterani, invenzioni di scaldi e aggiunte di chi venne dopo. Dico dell'Eneide a lor modo che intesson le saghe con le imprese giovanili di Aroldo il Severo che poi fu re di Norvegia. Rimondata delle favole, la tradizione torna a questo: che Aroldo capitanò la squadra dei Varangi nell'esercito di Maniace; che a lungo combattè in Sicilia contro Arabi del paese e Berberi; che andò in nave a qualche fazione su la costiera, che prese qualche terra per impeto d'armi e stratagemmi; e sopratutto che fece fardello di ricco bottino, mandollo a serbare a corte di Russia e di lì portosselo a casa. E forse ne rimane qualche briciolo ne' musei di Copenhagen, Cristiania e Pietroburgo, tra le monete musulmane d'oro trovate intorno il Baltico, avanzo dei peculii che raccoglieano quegli svizzeri dell'impero bizantino.935
A lungo si travagliò l'assedio di Siracusa, del quale ci si narra il solo episodio che un condottiero ferocissimo uscito della città quando appresentossi l'oste di Maniace, fea strazio dei Greci e dei Longobardi, sì come il lupo suol delle pecore. Mosso a pietà dei fratelli cristiani, Guglielmo Braccio di ferro cerca nella mischia l'Ettore musulmano; prende del campo e lo passa fuor fuora con la lancia; al qual colpo allibbiti que' del presidio, si rifuggono entro le mura, amando meglio a scagliar sassi e frecce dall'alto, che venire alle strette coi guerrieri del Nord.936 Che che ne sia della prova del Braccio di ferro, Siracusa resistè tanto che i Musulmani rifecero l'esercito e minacciarono gli assedianti.
Con rinforzi d'Affrica Abd-Allah mise insieme parecchie migliaia, dicon sessanta, di soldati, bene o male armati;937 coi quali si accampò nelle pianure di Traina a settentrione dell'Etna; donde potea correre per la valle dell'Alcantara a Taormina o per quella del Simeto a Catania e Siracusa. Fanti la più parte; poichè, venendo a giornata, Abd-Allah s'affidava nei triboli di ferro seminati a man piene in fronte dell'ordinanza, non sapendo che i cavalli nemici, ferrati a larghe piastre, poco o nulla ne sarebbero offesi.938 Maniace ch'avea dinanzi la forte e munita Siracusa, nè signoreggiava dell'isola se non che la costiera orientale,939 fu costretto tornare addietro per levarsi dalle spalle il nemico. Pose il campo ad una quindicina di miglia a levante di Traina, là dove furono nel duodecimo secolo una terra e un'abbadia addimandate da lui, e il nome vi dura finoggi.940 Spartito l'esercito in tre schiere, gagliardamente ferì, aiutato da un vento che dava nel volto ai nemici, o secondo altri dall'impeto della compagnia normanna, talchè al primo scontro le turbe dei Musulmani sbaragliaronsi; furono orribilmente mietute dai vincitori. Abd-Allah campava a mala pena con pochi seguaci. Seguì questa battaglia nella primavera o nella state del millequaranta.941
Poi s'intese nel campo un bisbiglio che mosse forse a riso i soldati. La compagnia normanna ubbidiva ad Ardoino lombardo, valvassoro dell'arcivescovo di Milano, nobil uomo,942 grande d'intelletto e di cuore; il quale soggiornando poc'anzi in Puglia, vedendo la gente che parlava il suo medesimo linguaggio calpestata e mal soffrente il giogo e trovandosi allato milizia sì valorosa, tra carità ed ambizione, andava meditando novità contro i Bizantini aborriti e spregiati.943 Al par di lui amava i Bizantini la compagnia, la quale in questa guerra era stata lodata sempre in parole da Maniace e messa innanzi nei pericoli, ma lasciata addietro nei guiderdoni. Fattole torto nello spartir la preda dopo la battaglia di Traina, Ardoino andò a querelarsene appo il capitano, con aspre parole; e quegli che nulla soffriva nè temeva al mondo, risposegli con brutali fatti: comandò di spogliarlo ignudo e frustarlo per gli alloggiamenti con corregge di cuoio. Patì l'ignominia Ardoino; tornossene alle stanze della compagnia; e rattenne chi volea sciupar la vendetta pigliando l'arme immantinenti contro tutta l'oste greca. Al contrario, s'infinge rassegnato, ma ch'ei non può rimanere nello esercito dopo tal onta; e così impetra da un segretario di Maniace la licenza di tornarsi, egli solo in Terraferma. Avuto in mano lo scritto, cavalca con tutta la gente; fa diligenza nel cammino; arriva a Messina; passa lo Stretto, mostrando l'ordine di Maniace;, va a trovare gli altri condottieri normanni ch'erano rimasi in Terraferma; grida libertà ai popoli; e attacca il fuoco ch'arse come stoppie la dominazione bizantina in Italia.944
Intanto era surta un'altra discordia. Per mala guardia del navilio bizantino, Abd-Allah imbarcatosi a Caronia o Cefalù avea riparato in Palermo, donde potea ricominciare la guerra.945 Maniace ne salì in tanta collera che venutogli tra i piè l'ammiraglio, il chiamò poltrone, vigliacco, traditor dell'impero; gli diè in sul capo due e tre volte d'un suo bastone. E Stefano se n'andò a comporre lettere all'eunuco Giovanni: questo piglio di principe assoluto, questa violenza contro i proprii parenti dell'imperatore, mostrar chiaro l'animo ribelle di Maniace: badasseci o sel vedrebbe piombare a Costantinopoli con l'esercito pronto a seguirlo in ogni attentato.946
Era già caduta Siracusa, dove par che Maniace desse opera a ristorare le fortificazioni, il culto e gli ordini pubblici; rimanendo fin oggi il suo nome al castello della punta estrema di Ortigia.947 Si narra inoltre ch'ei mandasse in un'arca d'argento a Costantinopoli il corpo di santa Lucia, additatogli da un vecchio cristiano; disseppellito in presenza della compagnia normanna; e trovato intero e fresco dopo settecent'anni: come raccontava a capo d'un altro mezzo secolo qualche veterano normanno a' monaci di Monte Cassino, o almen quei lo scrissero.948 Similmente nelle altre città occupate, Maniace ordinò castella con forti presidii, per cavar la voglia ai terrazzani di scuotere il giogo. Gli acquisti si rassodavano; poco avanzava ormai perchè tutta l'isola tornasse all'impero e al cristianesimo. Ma repente per segreto comando della corte, il capitano vincitore fu preso, imbarcato per Costantinopoli, gittato in fondo d'un carcere; e commesso di ultimare la guerra a quel medesimo Stefano ed all'eunuco Basilio Pediadite.949
Mancò Maniace all'esercito nel fortunoso momento, che Ardoino e i Normanni levarono l'insegna della ribellione in Puglia; donde il catapano Michele Doceano fu necessitato ripassarvi con parte dell'esercito nell'autunno del millequaranta.950 I Musulmani di Palermo, che non era stata mai occupata,951 ripigliarono allora gli assalti. Stefano e l'eunuco, inetti entrambi e ladri, nè seppero combattere alla campagna, nè mantenere i presidii ordinati da Maniace; e il catapano, toccate dai Normanni due sanguinose sconfitte (17 marzo e 4 maggio 1041), richiamò di Sicilia, com'ultima speranza, i Calabresi, i Macedoni e i Pauliciani.952 Pertanto dei presidii bizantini qual non fu cacciato se ne andò dassè.953 Crebbe il disordine per la mutazione di stato e incertezza di consigli a Costantinopoli, dove, morto Michele Paflagone (dicembre 1041), era salito al trono un altro giovinastro che sol pensava a disfarsi di Zoe e dei ministri del predecessore: e così Stefano e il Pediadite furono richiamati e mandato senza forze a ristorar la guerra in Sicilia Doceano che l'avea sì infelicemente governata in Terraferma;954 il quale fece quel si doveva aspettare da lui. All'entrar del millequarantadue, l'impero avea riperduto l'isola, da Messina in fuori.
Tenea Messina un protospatario Catacalone, soprannominato l'Arsiccio,955 con trecento cavalli e cinquecento pedoni del tema d'Armenia; quando venne ad osteggiarlo (1042 marzo?) una massa di Musulmani levata popolarmente in tutta la Sicilia, condotta, a quel ch'e' pare, da un principe kelbita, forse Simsâm.956 L'Arsiccio si serrò per tre dì nelle mura, senza dar segno di vita, lasciando il nemico a predare e gavazzare all'intorno e persuadersi ch'egli avesse paura. Al quarto dì, occorrendo una festa,957 raguna il presidio in chiesa; fa esortarlo dal pulpito a combattere fortemente per la fede e l'impero; fa celebrar la messa; si comunica con tutti i suoi, ed in su l'ora di pranzo, apponendosi che gli Infedeli stessero a mala guardia, schiuse le porte, li assaltò. Soprappresi non poterono dar di piglio alle armi, non che ordinarsi: Catacalone li sbaragliò, ne fe' macello, saccheggiò l'accampamento; e tornò glorioso in città, mentre gli avanzi degli assedianti fuggivano a precipizio verso Palermo.958
La quale vittoria giovò soltanto a differir di qualche anno, o di qualche mese, chè l'appunto non si sa, la perdita di Messina e con quella d'ogni speranza su la Sicilia. Perchè la rivoluzione dei popoli e la compagnia di ventura ingrossata ogni dì più che l'altro di Normanni e d'Italiani dell'Italia di sopra,959 irresistibilmente scacciavano i Bizantini dalla Terraferma. Maniace stesso, liberato di prigione in un lucido intervallo della corte e rimandato in Italia (aprile 1042) segnalossi per prudente valore in guerra, s'infamò per crudeltà efferate contro i terrazzani, ripigliò qualche città, ma non arrivò a vincere i Normanni. In questo, un terzo marito di Zoe lo provocò o piuttosto sforzò a ribellarsi; tantochè fattosi gridar imperatore, passò con l'esercito in Grecia (febbraio 1043), azzuffossi con le genti di Costantino Monomaco, e le avea messe in rotta, quando un colpo tirato a caso lo freddò in sul cavallo. Pochi dì appresso Costantinopoli applaudiva ai codardi che portavano in giro, confitta a una lancia, la testa di Maniace.960
CAPITOLO XI
Ai miseri Cristiani di Sicilia parve risorgere a vita nuova quando fu innalberata in lor cittadi e castella la insegna della croce col motto di: “Cristo vince.” San Filareto, il quale si trovò forse a Traina la dimane della battaglia,961 solea narrar che rendettero grazie solenni nelle chiese; che spezzarono i ceppi messi ai piè a lor fratelli prigioni; che caduto il terrore di quel fier tiranno affricano, respirarono in libertà.962 La qual voce sappiam che significhi quando due religioni contendon tra loro. Alla santa esultanza del riscatto si mescolò la vendetta, l'ingiuria; nè andò guari che costrette le armi bizantine a sgombrare di Sicilia, molti abitatori cristiani emigrarono in Terraferma,963 aspettandosi la pariglia dai Musulmani. Il grosso della popolazione battezzata, com'avvien sempre per amore della patria, necessità o tiepidezza d'animo, restò lì dov'era. E così al conquisto normanno il Valdemone si trovò pien di Cristiani,964 e sminuzzoli anche se ne contavano per le valli di Noto e di Mazara, in Siracusa,965 Palermo,966 Vicari,967 Petralia,968 ed altri luoghi.969 Le vicende della guerra normanna nelle quali bastarono due anni ad occupare il Valdemone e ce ne vollero trenta a soggiogar le altre due valli, provano similmente che nella prima regione fossero pochi presidii musulmani nelle principali città e fortezze in mezzo a popolazioni cristiane timide ma nemiche; e nel rimanente dell'isola, al contrario, pochissimi Cristiani soffocati tra le turbe dei circoncisi.
Nè mutossi la condizione legale dei Cristiani; sol è da supporre aggravati i soprusi tra il millequarantatrè e il millesessantuno; dapprima per la vendetta dei Musulmani che tornavan su; poscia per la divisione loro in piccoli principati, tanto più molesti e rapaci. Caduti gli ultimi comuni tributarii tra il novecensessantadue e il sessantacinque,970 da indi in poi non ne abbiamo ricordi; nè possiamo immaginare qual necessità o caso li avrebbe fatto risorgere. I Cristiani che sottomettonsi al conte Ruggiero ed a Roberto Guiscardo nei principii della guerra, son veri dsimmi971 paganti tributo, agricoltori o borghesi, ed i primi parte possessori e parte servi della gleba;972 le quali popolazioni avean di certo lor magistrati municipali, ma non formavan corpo politico. Di schiavi cristiani posseduti da Musulmani non abbiamo memoria, ond'e' par non siane rimaso tanto numero da farsi sentir tra le vicende del conquisto. Forse la più parte, per migliorar loro condizione,973 fatti Musulmani, e chi manomesso, chi no, andavano confusi nella società dei vincitori.
Se le schiatte antiche non si sbarbicano di leggieri, i Cristiani dell'isola eran tuttavia mescolati Greci ed Italici. A ciò par abbian posto mente i Normanni, nelle cui croniche le genti battezzate che abitavano la Sicilia al principio della guerra, son chiamate dove Greci o Greci Cristiani, e dove a dirittura Cristiani; e si distinguono i primi con l'attributo di perfidi, come portavano le idee occidentali.974 Un altro barlume ci dà lo scrittor della vita di San Filareto, notando tra i pregi della Sicilia la carnagione bianca e vermiglia e le belle e aperte fattezze di molti abitatori, le quali non somigliano al sembiante del greco San Filareto, e vi si potrebbe per avventura raffigurar il tipo italiano.975 Della medesima schiatta sembrano i frati di San Filippo d'Argira in Sicilia i quali nella seconda metà del decimo secolo andavano a Roma: insolito viaggio a gente greca in quell'età.976 Come i due linguaggi, che è a dir le due schiatte, durarono insieme nel medio evo nelle parti della penisola ch'aveano avuto colonie greche nell'antichità, così anche rimasero in Sicilia; se non che la lingua greca prevalea nell'undecimo secolo.977 E la cagione parmi, che i Cristiani di sangue italico e punico della Sicilia occidentale, avean rinnegato la più parte sotto la dominazione musulmana, per essere stati più tosto domi; se pur non si lasciaron domare più tosto per antagonismo contro il sangue greco e il dominio bizantino. La religione loro, fors'anco la lingua, si dileguò nella società musulmana. La religione si mantenne insieme con la lingua nella Sicilia orientale, sede primaria delle antiche colonie greche.
Ci mancò nella prima metà del decimo secolo ogni memoria d'incivilimento appo i cristiani di Sicilia;978 ma nei cent'anni che seguono ne ricomparisce qualche vestigio. Della fine del decimo secolo abbiamo un'agiografia, scritta, com'ei sembra, da un Greco siciliano.979 Verso il milletrenta ci si parla di preti cristiani che insegnavan lettere ai giovanetti a Castronovo in Val di Mazara;980 fors'anco a Demona.981 Nella seconda metà dell'undecimo secolo un ricco cristiano del paese, faccendiere dei Normanni e poi monaco, avea dato opera a raccogliere libri e dipinture in Messina.982 I quali indizii fan piena prova, quando la storia politica mostra che dovea necessariamente avvenire così. Del novecentodue passò sul Valdemone la sanguinosa falce d'Ibrahim-ibn-Ahmed; poi su tutta l'isola la falce della fame; e sul Val di Mazara quella di Khalîl-ibn-Ishak: ma la guerra civile dei vincitori, fece respirare i Cristiani del Valdemone. Cioè la popolazione rurale, i cui tugurii non avea potuto frugare Ibrahim, e qualche cittadino spatriato che dopo la tempesta tornava ai diletti luoghi, povero e feroce. Quei che ristorarono Taormina, quei che meritarono tanta fama a Rametta, ebber sì le mani pronte a combattere e rabberciare lor mura; la mente fitta a difender sè ed ammazzare i Musulmani, ma non si curavano, credo, di dipinture, nè di libri, nè dell'alfabeto: e facean bene. Sopraffatta alfine quella virtù dalle armi kelbite, i Cristiani s'ebbero a contentare degli umili compensi che concede il servaggio. Assestandosi appo i Musulmani l'azienda pubblica, repressa la rapacità delle milizie, favoriti i commerci con la Terraferma, prosperanti le regioni occidentali dell'isola e venuti i padroni a stanziare nella region di levante, si rinfrancò la industria degli abitatori cristiani. Rifatti alquanto di sostanze e di numero, risalirono a quel grado d'incivilimento dei lor fratelli di Calabria. Chi voglia conoscere in volto i Cristiani del Valdemone di questa età, legga in Malaterra il racconto di quei che s'appresentavano l'anno mille sessantuno a Ruggiero nella prima scorreria grossa a che si rischiò dentro terra. Tutti lieti gli recavano vittuaglie e altri doni; e tosto correvano a scusarsi coi Musulmani: averlo fatto per forza, per salvar le persone e la roba da codesti predoni.983 Alla quarta generazione gli eroi di Rametta eran fatti, come or si direbbe, onesti e pacifici cittadini.
I quali in punto di religione sembrano tiepidi anzi che no. Dopo l'impresa d'Ibrahim-ibn-Ahmed (902), si sbaragliò il clero siciliano. Gli imperatori bizantini, egli è vero, promulgando la lista delle sedi soggette a lor patriarca, proseguono infino al secol decimoterzo a noverar quelle di Sicilia quali sapeansi nell'ottavo secolo, salvo qualche errore di copia; ma dimenticano che l'isola è stata tolta allo impero dai Musulmani ed a costoro dai Normanni; che le sedi sono state distrutte dai primi, rifatte dai secondi a lor modo, e rese al pontefice romano.984 Però quei ruoli di cancellaria non attestano condizioni contemporanee, più che nol faccian oggi i titoli di vescovi d'Eraclea, d'Adana e altri largiti dal papa. Appunto come cotesti, sembrano vescovi in partibus quel di Catania e l'Arcivescovo di Sicilia, dei quali abbiamo le soscrizioni in carte del decimo e dell'undecimo secolo.985 Al contrario par abbia esercitata, quando che fosse, la dignità vescovile quel Leone che poi soggiornò in Calabria e venne in Sicilia (925) da statico.986 Esercitolla per fermo Nicodemo che i Normanni (1072) trovarono arcivescovo in Palermo.987 Egli è verosimile che nel decimo secolo, rimaso in tutta la Sicilia un sol vescovo, abbia mutato e titolo988 e sede, ponendosi nella capitale allato alla corte degli emiri per mantenere più efficacemente i dritti spirituali e temporali del povero suo gregge; come il patriarca giacobita d'Alessandria e il primate nestoriano di Seleucia s'eran tramutati, l'uno al Cairo, l'altro a Bagdad. Palermo fatta capitale dai Musulmani, lor debbe dunque, strana vicenda della sorte, la dignità di chiesa metropolitana; la quale non fu conceduta da Roma, nol sembra da Costantinopoli; e niuno la sognava innanzi il decimo secolo, ma alla metà dell'undecimo niuno la mise in forse. È chiaro che la assunse l'eletto dei Fedeli confermato dagli emiri: pastor d'una provincia che avea avuto sedici diocesi tra vescovili e arcivescovili, e d'una città ch'era seconda solo a Costantinopoli e Bagdad.
Passando al clero inferiore, basterà dir che i monasteri nei quali tutto si racchiudea, sì fiorenti dopo san Gregorio, ormai sembrano poco men che distrutti. Quel di San Filippo d'Argira, di regola basiliana, scomparisce verso il novecensessanta, quando le colonie musulmane trapassavano in Valdemone.989 I Normanni trovano in Val di Mazara il monastero di Santa Maria a Vicari, pregante per la vittoria dei Cristiani, possedente un po' di servi, bestiame e terreni, ma negletto ed oscuro.990 Trovano molte ruine di monasteri in Valdemone,991 e di due soli abbiam certezza che rimanessero in piè: quel di Sant'Angelo di Lisico, presso Brolo, i cui frati s'affrettavano a far confermar dal conte Ruggiero la proprietà dei monti, colline, acque; terreni e mobili che diceano aver tenuto sotto gli empii Saraceni;992 e quel di San Filippo in Demona, un frate del quale, vivuto fino al millecento e cinque, affermava aver patito nel santo luogo gli oltraggi degli Infedeli.993 Poco o nulla s'è perduto dei documenti di tal fatta, gelosamente custoditi e rinnovati dall'ecclesiastica prudenza: donde si può argomentare che alla metà dell'undecimo secolo, appena rimanesse una mezza dozzina di monasteri con frati e di che vivere.
Nè era comando di legge, nè effetto di costumanza generale dei Musulmani, sotto il cui dominio durarono e durano tante sedi vescovili e grossi monasteri in Egitto, in Siria, nelle regioni tra l'Eufrate e il Tigri. Ma le ondate di Arabi che irruppero in Occidente sembran più cupide e quelle popolazioni cristiane men tenaci nella fede e disciplina ecclesiastica; e il monachismo, pianta esotica appo noi, non resse alle intemperie sì come in Oriente. A coteste tre cagioni unite mi par da apporre il subito decadimento del Cristianesimo in Sicilia, al par che in Affrica e Spagna, direi quasi al primo tocco dell'islam. Presi i beni ecclesiastici e sconfortato il clero, menomarono le sedi vescovili, crebbe l'erba nei conventi; e la credenza delle popolazioni, non riscaldata dalla voce del sacerdozio nè dalla assiduità del culto, calò a poco a poco. Ma è mestieri pur che quella massa per propria natura mal ritenesse il calore; poichè lo zelo dei Fedeli, chierici e laici, avrebbe alla sua volta vivificata la gerarchia a dispetto dei governanti e della povertà, come, per esempio, avvenne in Siria, appo i Maroniti.
Il fervore religioso non si ridestò nell'ultima lotta delle popolazioni cristiane di Sicilia (913-964), quando la povertà e i pericoli allettavan poco i dignitarii ecclesiastici a tornar dalla Calabria;994 e il popolo, venuto alle prese con la morte, chiedea miracoli troppo biblici. Pertanto la riputazione di santità tornò tutta ai romiti profetizzanti, clero rivoluzionario da non sbigottir tra quelle tempeste. Tale il Prassinachio, del quale dicemmo, e gli altri di cui non è maraviglia se ignoriamo i nomi,995 poichè le agiografie si scriveano nei monasteri, non per le celle dei romiti, quando pur sapeano scrivere. Posate in Sicilia le armi e mancati i monasteri, il clero mal si rifornì: quei che ne sentiano vocazione, passavano in Calabria dove si parlava la stessa lingua, si trovavano spesso i concittadini; e la dominazione greca apria largo campo alla modesta pietà, alle fantasie riscaldate ed alle ambizioni monacali. A legger le vite dei santi di Calabria in questo tempo, ognun vede che si pasceano, come tutta la chiesa greca, delle leggende degli antichi padri della Tebaide e di Siria; se non che la natura occidentale rifuggiva da quelle orrende penitenze, dalla perpetua solitudine, dalla oziosa contemplazione che non si diffondesse in altrui. E però i romiti si associavano tra loro; procacciavano seguito nelle cose mondane. L'apice della virtù religiosa era la fondazione d'uno, anzi di parecchi monasteri, di cui uom divenisse abate in vita e santo tutelare dopo la morte. Ed a questo aspirò e pervenne alcun rifuggito siciliano.
I fasti di Aroldo il Severo (Harald Haardraade) si leggono nella raccolta delle Saghe intitolata: Scripta Historica Islandorum, tomo VI, (Copenhagen, 1835, in 8º), p. 119 a 161, e nell'opera di Snorro Sturleson, autore islandese della fine del XII e principio del XIII secolo, intitolata: Heimskringla or Chronicle of the Kings of Norway, versione inglese di Samuele Laing, Londra 1844, in 8º, tomo III, pag. 1 a 16, saga IX, cap. I a XV. Aroldo, fratello uterino di Olaf il Santo re di Norvegia, combattè con valore, giovanetto di 15 anni, nella battaglia di Stiklestad (1030), ove il re fu morto ed egli gravemente ferito. Nascoso da fedeli partigiani, andò a corte di Iaroslaw 1º principe di Russia, dal quale umanamente accolto, militò con lode su i confini di Polonia. Chiesta in isposa Elisabetta figliuola del re, Iaroslaw gli fece intendere che forse gliela darebbe quand'avesse acquistato terreno e danaro. Aroldo pertanto andossene a cercar ventura con la spada. (Tuttociò sembra di buon conio. S'allega l'autorità d'Aroldo stesso e de' contemporanei; un dei quali dicea averlo visto giovanetto con un bel saio rosso, sembiante regio e marziale, volto pallido, folte sopracciglia, gesti un po' violenti ma rattenuti.)
Andò a combattere in Polonia, Germania, Francia e Italia; donde passò a Costantinopoli con una compagnia di ventura, sotto il mentito nome di Nordbrikt; perchè gli imperatori non volean tra i Varangi uomini di sangue reale. (Autorità vaghe o non citate. La peregrinazione da venturiere in Germania, Francia e Italia sembra favolosa.)
Regnavano a Costantinopoli Zoe e Michele Catalacto (volean dire Calafato e si dee correggere Paflagone, senza che vi sarebbe anacronismo), dai quali fu mandato a combattere nel mar di Grecia. (Forse il 1035 contro gli Affricani e Siciliani che infestavano l'Arcipelago; ma non si può affermare.)
Aroldo indi fu fatto capo dei Varangi (non generale in capo che s'intitolava Acolutho, ma della divisione mandata in Italia), e partì con Girgir (Giorgio Maniace) il quale girava le isole greche: e sovente combattè coi corsali. (Maniace non v'era per certo.) Sta per venire alle mani con Girgir perchè facendo alto l'esercito una notte, Aroldo si era attendato sur una collina evitando i luoghi bassi insalubri in quel paese, e Girgir volea mettersi nel medesimo sito. Finisce che si tira a sorte il luogo ed Aroldo per scaltrezza o frode resta dov'è. (Fatto verosimile, forse vero, incorniciato di favole.)
Aroldo guerreggiando insieme coi Greci non fa mai dar dentro i Varangi; ma quand'è solo, combatte disperatamente, e sempre riporta la vittoria. Girgir biasimato del non guadagnar mai nulla, scarica la colpa su i Varangi; alfine l'esercito si separa in due: Girgir coi Greci ed Aroldo coi Varangi e i Latini; questi riporta infinite vittorie, e quegli se ne torna scornato a Costantinopoli, abbandonato anche dai giovani greci che vogliono rimaner con Aroldo. (La prima parte si riscontra un po' con le memorie normanne. Le altre son favole intessute su la disgrazia di Maniace.)
Aroldo allora passa con l'armata in Affrica, detta la terra dei Saraceni; ove conquista ottanta città o castella; vince in campo il re d'Affrica; guerreggia parecchi anni; fa gran bottino d'oro, gioielli e altre cose preziose, e il manda in Russia, com'abbiam detto; poi assalta la costiera meridionale di Sicilia. (Citati varii squarci di poesie. La immaginaria impresa in Affrica è tolta dal combattere in Sicilia contro gli Affricani. Gli ottanta castelli son la più parte in aria; il re d'Affrica può dinotare Abd-Allah figliuolo di Moezz, alla battaglia di Traina.)
In una battaglia navale guadagnata da Aroldo sopra gli Affricani, i cadaveri degli uccisi son buttati su l'arena alle spiagge meridionali della Sicilia che son tinte di sangue. (Citata una poesia. Quest'episodio non si può affermare nè negare.)
Aroldo va con l'armata in Blaland (questo nome danno le saghe al paese dei Negri d'Affrica a mezzodì della Serkland, ossia Affrica Settentrionale), ove riporta altre vittorie e torna a Costantinopoli. Zoe gli domanda una ciocca di capelli, e che ricambio ei ne vuole si legga nella versione latina. Guarisce poi per miracolo una pazza; libera il paese vicino d'un gran dragone; va a combattere un'oste di Pagani ai confini dell'impero; vince con l'aiuto di Sant'Olaf che appare sopra un cavallo bianco; e per voto fabbrica una chiesa a Costantinopoli. (Non occorre notare che son tutte favole. Il caval bianco di Sant'Olaf, è lo stesso di Sant'Ignazio di Costantinopoli alla battaglia di Caltavuturo nell'882, Vol. I, p. 420, Lib. II, Cap. X, e di San Giorgio alla battaglia di Cerami nel 1063.)
Mandato su l'armata con Girgir a saccheggiare la Sicilia, prendevi quattro città. La prima, scavatavi sotto una mina, per la quale sbucò nel bel mezzo d'un palagio dove allegramente si banchettava. La seconda, molto più forte, non si potea avere per battaglia. Perciò Aroldo, visto che tanti stormi di uccelletti volassero dalla città al bosco vicino, fa impiastrar di bitume certi alberi, e presi gli uccelli lor fa attaccare addosso schegge di pino sparse di zolfo e cera, e messovi fuoco lascia gli innocenti animali; sì che tornandosi a lor nidi nei tetti di strame, appiccarono l'incendio per ogni luogo della città e la fu obbligata ad arrendersi. (Lo stesso tiro è attribuito nelle saghe alla granduchessa Olga, ai re di Danimarca Hadding e Fridleif ed a Gurmund pirata.) Un'altra città più grossa, lungamente assediata, cadde con questo stratagemma: che Aroldo s'infinse malato e poi morto, e volle farsi seppellire con sontuoso funerale in città; dove i frati fecero a gara per averlo ciascuno in sua chiesa. Armati di sotto e coperti di lunghe gramaglie egli e pochi Varangi recavan la bara; mettean mano alle spade quando furono in su la porta, ed aprivano il passo a tutto l'esercito. (Somigliante strattagemma è attribuito a Roberto Guiscardo in Calabria, a Frode I, re di Danimarca ed a molti altri condottieri.) Infine stringendo un castello inespugnabile, i Varangi fingono di avvicinarsi senz'arme e giocar tra loro per beffarsi del presidio; i soldati del presidio, per non parer da meno, fan lo stesso; e replicato lo scherzo parecchi dì, i Varangi una volta traggono lor coltellacci nascosi ed occupano al solito la porta, con aspro combattimento, nel quale Aroldo fece andare innanzi con la bandiera un Haldor che fu gravemente ferito e rinfacciò il re di codardia. (Questo pare men favoloso; oltre Haldor che tornò con una cicatrice alla guancia, v'è nominato un Ulf-Ospaksson etc.)
Dopo diciotto battaglie vinte in Sicilia, raccolto gran bottino, Aroldo e Girgir, che fa sempre la parte dell'Arlecchino in commedia, se ne tornano. Aroldo poi va a conquistare coi soli Varangi Gerusalemme, a bagnarsi nel Giordano; è imprigionato a Costantinopoli per dispetto amoroso di Zoe o gelosia del novello suo marito Costantino Monomaco; è liberato per virtù di Sant'Olaf, apparsogli in sogno; fuggendo rapisce e poi lascia una principessa greca, e dopo altre avventure, sposa la Elisabetta di Russia a Novogorod, si collega col re di Svezia per torre la corona di Norvegia a Magnus figliuol di Sant'Olaf, e alfine regna insieme col nipote (1047).
Or il finto conquisto di Terrasanta, la Sicilia non ricordata mai come paese musulmano, e tanti altri indizii, mostrano che la Eneide di Aroldo nel Mediterraneo fu inventata dopo le Crociate. Dunque non è nè anco contemporanea; nè possiam su la sua fede accettar quegli episodii che somiglian meno a menzogna: per esempio il combattimento navale su le costiere meridionali di Sicilia, e l'ultimo dei quattro stratagemmi narrati di sopra. Del resto, le due autorità c'ho citato non s'accordan tra loro nei particolari, e questi variano nelle altre saghe non tradotte, come ritraggo dal signor Broch.
Ho fatto parola delle monete musulmane trovate nel Baltico al par che molte dell'impero bizantino. Su la presunta origine di esse gli eruditi sono d'accordo. Si vegga la nota del signor Laing, op. cit., tomo III, p. 4.
Il nome della città non è dubbio: Traina in Malaterra e nell'Anonimo; Δραγῖναι in Cedreno. Il campo in pianura è ricordato altresì da Cedreno e dal monaco Nilo; se non che questo non dà il nome della città, leggendosi nella versione non longe ab urbe, sia che i copisti avessero saltato il nome, sia che San Filareto fosse di Traina stessa. La voce πόλις che dovea essere nel testo non si può intendere capitale, e però Palermo, contro le testimonianze di Cedreno e dei cronisti Normanni citati di sopra.
Secondo il monaco Nilo, il tiranno de' Barbari (Abd-Allah), dopo la fuga a cavallo, se ne tornò in Africa su picciolo legno e ridusse a casa le reliquie dell'esercito. Cedreno narra che il capitano cartaginese fuggendo giunse alla spiaggia, donde, montato sur una barchetta riparò in Affrica; facendo mala guardia su la costiera l'ammiraglio bizantino, cui Maniace avea raccomandato d'impedir la fuga. Chi suppose così fatta precauzione di Maniace, ignorava al certo che Traina giace a più di trenta miglia dal mare e che sorgevi di mezzo l'altissima giogaia di Caronia. Da un'altra mano, gli annali arabi portano che Abd-Allah fu cacciato in Affrica per sollevazione dei Musulmani di Palermo, come si narrerà nel seguente Capitolo. Indi è chiaro che il biografo di San Filareto, e molto più la tradizione bizantina riferita dal Cedreno, confusero in un solo due fatti distinti, cioè la sconfitta di Traina che costrinse Abd-Allah a rifuggirsi in Palermo e il tumulto di Palermo che lo cacciò in Affrica.