Kitabı oku: «...Sorella di Messalina», sayfa 3
XI
L'indomani mattina Alberto era alla stazione ad aspettare l'arrivo dei suoi parenti. Camminava in su e in giù sotto la risonante tettoia; i fischi dei treni in arrivo e in partenza gli laceravano le orecchie e gli straziavano i nervi. E in cuor suo pensava:
—A quest'ora avrei potuto partire con lei!
Partire con lei! Trovarsi, con lei sola, davanti alle danzanti acque del mare! Camminare accanto a lei sui prati d'erba nuova, stellati di primule e pervinche!... Anche lui non l'aveva mai veduta all'aperto se non sullo squallido sfondo di grigiastre case, di strade affollate, di piazze rumorose. Avrebbe potuto finalmente camminarle accanto nella frizzante brezza mattutina, vederla libera nelle vesti svolazzanti, col viso senza velo e la mano senza guanti, più fresca, più semplice, più sua!... Avrebbe potuto—oh, meraviglia!—addormentarsi la sera tenendola tra le braccia, risvegliarsi al mattino col capo sul suo seno. Ah! quel risveglio meraviglioso degli amanti, ch'egli con lei non aveva mai conosciuto!...
Un altro fischio, prolungato e villano, gli squarciò l'udito. Era il treno di Verona che entrava nella stazione. Egli si avanzò con lunghi passi volgendo al convoglio il viso torvo e pallido, interrogando gli innumerevoli visi sconosciuti affacciati agli sportelli che sfilavano—dapprima rapidi, poi rallentando—al suo sguardo.
Ma, ecco! ecco! da uno dei finestrini si sporgeva «la sua famiglia!»—la mamma, con un cappellino nero sui capelli grigi; la sorella, con un cappellino grigio sui capelli neri; e accanto a loro la cuginetta Alix, con un cappellino rosso sui capelli biondi. Come mai era venuta anche Alix? Poi Alberto scorse all'altro finestrino anche suo padre e il padre di lei, lo zio Mario; sporgevano i visi tondi e abbronzati, dai baffi un po' lunghi e spioventi come nessuno li porta più; tutt'e due ridevano, e gli facevano allegri cenni di saluto colla mano.
Scesero; e vi furono abbracci, esclamazioni, interrogazioni.
—Dov'è la cappelliera?... E come stai? Sei sempre stato bene?... La valigia nera, chi l'ha?... Sembri un po' dimagrito... E gli ombrelli?... Ci vorrà un facchino...
Poi si avviarono tutti insieme verso l'uscita, dove ciascuno porse al controllore il suo biglietto di seconda classe.
E al momento che essi uscivano, ecco arrivare Raimonda, molto elegante e corretta nell'attillato abito da viaggio cenerino. Accanto a lei camminava un uomo—un uomo che Alberto non conosceva—pallido, alto, aristocratico, sulla cinquantina. Li seguivano la cameriera e due facchini portando le poche irreprensibili valigie, i mantelli e i soprabiti.
Essa passò vicinissima, sfiorando il gruppo senza aver l'aria di accorgersene.
La sorella e la cugina di Alberto si volsero a guardarla, ridendo, con commenti ingenui.
XII
Durante la settimana santa Alberto accompagnò la sua famiglia di quà e di là, in chiese e cappelle, in musei e ristoranti.
Davanti agli altari di Cristo velati di nero le tre donne s'inginocchiavano, mentre i tre uomini stavano in piedi dietro a loro, aspettando che avessero finito di pregare.
Ogni sera Alberto, rientrando solo nelle sue stanze, portava nella rétina la visione di quelle tre donne inginocchiate: il cappellino nero, il cappellino grigio, il cappellino rosso; e le tre nuche dai capelli grigi, dai capelli neri, dai capelli biondi.
Chi sa che cosa domandavano a Dio quelle tre creature? Forse ciò che domandano tutte le donne. La pace? la gioia? l'amore?
Certo la cuginetta dagli occhi ceruli sotto al cappello rosso domandava l'amore. Lo domandava, o pareva domandarlo, a tutti, con tanta timida ingenuità, con tanta soave incoscienza, ch'era difficile (qualora se ne avesse nel cuore) poterglielo negare. Lo domandava coi gesti e cogli atteggiamenti, coi sorrisi e coi sospiri, coll'arrossire e coll'impallidire; con tutto lo domandava, eccetto che colla parola.
E Alberto, durante quei sette sacri giorni primaverili, vedendola camminare vezzosa e composta accanto a sè, e prendendole con affettuosa intimità il braccio sottile, più di una volta pensò che a quel muto, innocente e appassionato appello sarebbe stato dolce il rispondere.
Ripartirono.
Alberto ritornò nel suo studio e cominciò l'abbozzo di un quadro che doveva intitolarsi «Tre donne preganti».
Dopo un'ora gettò via i pennelli.
Raimonda!... Dov'era? Che cosa faceva?
Durante tutti quei giorni egli non aveva cessato di ripetersi che essa gli era uscita dal cuore; e assai se ne felicitava. Cento volte al giorno diceva a sè stesso con illogico compiacimento:—Se Dio vuole, a quella donna io non ci penso più!
E si meravigliava che gli fosse stato così facile l'oblìo.
Ma ora, ecco—era solo. E guardandosi nel cuore ritrovò l'imagine di lei: torreggiante, dominatrice, invitta.
Dov'era? Forse in riva alle acque danzanti del mare, con quell'amico grave, pallido, aristocratico, ch'egli aveva veduto passare al suo fianco?...
Alberto strinse i denti e i pugni e giurò a sè stesso che non l'avrebbe riveduta mai più.
Quella sera stessa ritornò a lei.
XIII
Un giorno, recatosi a trovarla a un'ora inconsueta, Alberto non la trovò: la cameriera gli rispose un poco turbata:
—La signora è uscita.
—Da molto tempo?
—No, da pochi minuti.
—In quale direzione?
La cameriera accennò con prontezza a mano sinistra. Allora con uguale prontezza Alberto, cui pareva ormai di conoscere l'anima femminile, volse a destra, e si inoltrò rapido verso il Valentino.
Il Po era grigio e freddo; gli alberi brulli; i viali quasi deserti.
Giunto vicino al Castello Medioevale Alberto scorse, in un sentiero laterale, due figure, un uomo e una donna; gli parve di ravvisare il chiarore argenteo di un mantello di cincilla; affrettando il passo riconobbe davanti a lui—allontanandosi da lui—la nota figura snella e un poco languida, le esili spalle spioventi e l'andatura così caratteristica di Raimonda—andatura a un tempo affettata e negligente, come di chi bada dove mette il piede ma non si cura di dove va.
Accanto a lei, stretto al suo braccio, era un uomo: il corpo alto, dritto di spalle, sottile di fianchi denotava la gioventù. Camminavano lentamente.
Alberto sentì il sangue fluirgli in una ondata violenta alle tempia; il cuore gli batteva in gola. Precipitò il passo fino quasi a raggiungerli, poi si fermò.
Come se avesse percepito la sua presenza, anche l'uomo davanti a lui si arrestò d'improvviso e rimase immobile come in ascolto. Ma non si voltò indietro; fu Raimonda che, forse avvertita da lui, si volse a guardare chi li aveva seguiti.
Scorgendo Alberto ella ebbe un piccolo sussulto; quindi, a grande sorpresa di lui, portò rapida un dito alle labbra come per imporgli il silenzio. Rivolta al compagno, disse a voce chiara ed alta:
—È il barcaiuolo.—Poi si trasse in disparte facendo cenno ad Alberto che passasse davanti a loro.
Egli esitò; ma lanciato uno sguardo allo sconosciuto vide brillare sotto l'ala del cappello di feltro un paio di grandi occhiali azzurri. Comprese che era cieco. Allora senza una parola ubbidì alla silenziosa ingiunzione di Raimonda. Essa gli lanciò al passaggio un fuggevole sorriso.
Alberto oltrepassò rapido i due e giunto al ponte Isabella volse a destra e tornò in città.
Chi poteva essere costui?... Raimonda non aveva mai parlato di un amico o di un parente colpito da questa sventura...
Quella sera si recò da lei; la trovò pallida e commossa.
—Hai pianto!—disse lui, scrutandola.
Ella chinò il capo.
—E quel giovane d'oggi, chi era?
La donna non rispose subito; allora egli ripetè la domanda.
Ella esitò ancora un momento prima di pronunciare il nome.
—Adriano Scotti,—disse finalmente.
—Adriano Scotti... non mi è nuovo quel nome,—meditò Alberto, mentre nelle chiare pupille di lei lampeggiava uno sguardo inquieto.—Adriano Scotti... Non ricordo più che cosa ho udito sul suo conto. Qualche storia strana...—E rivolto a lei:—È un cieco di guerra?
Ella scosse il capo.
—No,—disse affrettatamente. E subito lo trasse a sedere accanto a lei e gli parlò di un nuovo quadro di Giulio Graziani ch'ella aveva veduto alla Promotrice.
—Giulio Graziani! quell'imbrattamuri! quell'anamorfo sgorbiatore!—esclamò Alberto; e si lanciò in una disquisizione critica veemente ed arguta, durante la quale Raimonda, cogli occhi trasognati fissi in lui, pensava a tutt'altro.
PARTE TERZA
XIV
Raimonda ora, ogni tanto, spariva. Senza preavviso, senza lasciar detto nulla, partiva e rimaneva assente talvolta un giorno solo, talvolta tre o quattro giorni, talvolta anche una settimana.
Durante quelle assenze Alberto si aggirava inquieto e sdegnato tra lo studio e la casa in corso Umberto, covando dei foschi propositi di rottura e di vendetta; poi, non appena la rivedeva, pur trovandola sciupata e intristita, pur sentendo quasi di odiarla, ricadeva sotto al fascino di lei. Ella, d'altronde, non faceva più nulla per avvincerlo o ammaliarlo. Ormai lo teneva. Lo teneva colla forza speciale della donna non bella, della donna non giovane, della donna non buona. Lo teneva, soprattutto, colla forza incrollabile della donna che ha amato e che sembra aver cessato di amare.
—Tu non sei mia come una volta,—ansava Alberto, stringendola convulso.
—Ma che idea! Ma perchè?...—diceva lei, ravviandosi i capelli.
—Ti sento diversa... lontana... Una volta eri tutto fuoco e furore...
—Mio caro,—sorrideva lei, respingendolo con soave noncuranza e accendendo una sigaretta,—se avessi continuato ad amarti con fuoco e furore, tu a quest'ora mi detestavi e mi tradivi.
Alberto protestò, sdegnato; ma in cuor suo sentiva che forse ella diceva il vero.
—Già,—riflettè lei pensierosa;—voi uomini siete strani. Amarvi come voi volete è il modo più sicuro di farci disamare da voi. Perchè voi ci amiate noi vi dobbiamo tradire.
—Tradire!—disse lui, fissandola colle ciglia aggrottate.—Tradire!... Orribile parola! Orribile pensiero!
—Orribile, orribile!—assentì lei con un piccolo brivido e socchiudendo gli occhi verdognoli.—Per un uomo, non so; ma per una donna, certo, il tradire è una cosa infinitamente triste.
—Infinitamente infame!—esclamò Alberto.
Ella parve non udirlo. Fissava in lui lo sguardo un po' velato, un po' lontano.
—Ciò che per noi donne vi è di più triste e tragico nei nostri inganni,—continuò lei,—è l'impossibilità di riamare un uomo una volta che lo abbiamo tradito. Per quanto disperatamente possiamo averlo un giorno amato, quando lo abbiamo tradito non lo amiamo più.
Alberto guardandola sentì una piccola stretta fredda al cuore.
—E questo è assai triste,—sospirò la donna, fissandolo collo sguardo trasognato.—È triste perchè rende vane tutte le sofferenze passate, tutte le gioie passate. Rende vano tutto.
—E perchè tradite, allora?—gridò il giovane, sdegnato, quasi rivolgesse quel grido a tutto il sesso frale e fatale.—Perchè tradite?
—Perchè?... Perchè?... Quando te lo dicessi non mi crederesti.—E china verso di lui gli prese la mano.—Vuoi conoscere la psicologia del nostro tradimento? Ebbene, sappi che noi donne non vorremmo tradire mai. Mai! Noi siamo per indole e per istinto delle creature tenere, fedeli, costanti, immutabili. Siamo «crampons» noi; non siamo vagabonde in amore. Quando amiamo un uomo, è per l'eternità.
Il giovane crollò le spalle con gesto incredulo. Ella continuò, veemente:
—Sì! noi amiamo con disperata angoscia, con incrollabile tenacia; amiamo con profondo spasimo di sentimento più ancora che di sensualità. La donna che ama non conosce stanchezza, non conosce sazietà; si attacca, si avvinghia, si avviticchia; e non chiede che di restare nelle braccia dell'amante, chiusa sul suo petto, per sempre!
—Ebbene?
—Ebbene, l'uomo non vuole quella frenesia di passione, quel disperato abbandono che getta la femmina ai suoi piedi come uno straccio, senza ritegno e senza volontà. L'uomo rifugge dalla catena; ha terrore dell'immutabile, dell'indissolubile, dell'eterno.
—Ma no!—protestò Alberto.—Non è vero.
Ella alzò verso l'amante il viso sottile e sagace.
—Allora noi, quasi per rassicurarlo, per tranquillizzarlo, per convincerlo che questa nostra frenesia non sarà eterna, assumiamo verso di lui degli atteggiamenti frivoli; sfoggiamo capricci e volubilità. E poichè nella morsa della passione o l'uno o l'altro deve pel primo rallentare la stretta, allora... allora perchè non sia lui, siamo noi, noi che, disperate e straziate fingiamo di volerlo lasciare! Perch'egli non ci sfugga fingiamo di volergli sfuggire; perch'egli non ci tradisca fingiamo di volerlo tradire.
—Fingete?—esclamò Alberto con una risata amara,—Se vi limitaste a fingerlo!
—Sì; da principio fingiamo soltanto. Per inquietarlo, per destare la sua gelosia, per tenerlo e trattenerlo, mostriamo d'interessarci ad altri, d'incoraggiare gli altri, gli estranei, gli intrusi che ci sono perfettamente indifferenti, o anche perfettamente odiosi.
—Già,—fece Alberto ironico.
—E poi... e poi... visto che tutti gli uomini press'a poco si assomigliano e si equivalgono...
—Ma bene! bene!—proruppe Alberto, con un'aspra risata.
—... e visto che l'ammirazione altrui ci rialza il morale, ci rende più gioiose, più gaie, più padrone di noi... e quindi più padrone anche degli altri...
—Allora?
—Allora... per ridarci sicurezza, per renderci più affascinanti agli occhi di colui che amiamo, incoraggiamo il nuovo arrivato finch'egli, a sua volta, s'innamora di noi. Sempre—divagò Raimonda,—l'uomo s'innamora della donna che ha l'aria di promettere e di non voler mantenere, della donna che ride di lui e piange... non per lui!
—Avanti!—fece Alberto, coi denti stretti.—Avanti pure!
Ella continuò, senza badargli, fissi nel vuoto gli occhi d'acquamarina che parevano divenuti più glauchi e più profondi.
—E viene il giorno in cui (per dispetto o per disperazione? per vanità o per follìa? per ira o per dolore?...) cadiamo in quelle braccia che si aprono a noi, cerchiamo rifugio e conforto in quell'anima ignota!... E la bocca dell'amante nuovo soffoca sulla nostra bocca il singulto che prorompe per l'altro, placa nel nostro cuore lo struggimento per l'altro, spegne nei nostri nervi il desiderio dell'altro.
Alberto si sentì impallidire.
Ella continuò, quasi parlando a sè stessa:
—E quando ci siamo date a lui... ecco che—per un fenomeno misterioso della nostra anima—è di lui che siamo innamorate! Eccoci guarite di uno spasimo, e piombate in uno spasimo nuovo. Ecco il nuovo amante che ci strazia, ci tortura, ci dilania come ci aveva straziato e dilaniato il primo...
Tacque un istante; indi riprese:
—E l'altro?... il primo?... quello che fino allora abbiamo amato sino al delirio, sino alla follìa?... Egli per noi non esiste più. È caduto dai nostri desideri come una cosa morta. È diventato per noi un essere trascurabile e insignificante; nulla in lui ci piace più, nulla in lui ci agita o ci commuove. La sua passione ci stanca, la sua bramosia ci ripugna, le sue ire ci fanno sorridere, il suo dolore ci lascia indifferenti...
Vi fu un nuovo silenzio; poi ella volse all'amante il viso un poco impallidito:
—E così la catena continua. Così noi passiamo di amore in amore, di tradimento in tradimento; noi, che non vorremmo tradire giammai!
Alberto proruppe in un'esclamazione di sdegno.
—Facile teoria!
—Ah no! No! Non facile,—disse lei, e la sua voce si era abbassata di tono; era grave, vibrante, profonda.—No; è terribile, terribile non poter mai riposare nell'amore. Non poter mai amare con abbandono, con gioia, con semplicità! È terribile, terribile dover ricominciare sempre da capo la straziante tragicommedia della passione...
—Già—fece il giovane con un sogghigno.—A sentir voi, la donna tradisce l'uomo ... perchè l'ama!
—L'hai detto,—rispose lei senza sorridere.—La donna tradisce l'uomo perchè l'ama. E quando lo ha tradito non lo ama più.