Kitabı oku: «Vae victis!», sayfa 8
XIII
Luisa guardò in faccia la sua sventura – e tremò. Non vi era più dubbio, non vi era più speranza. Novembre! Il terzo mese era passato. Ciò ch'ella aveva temuto più della morte, avveniva. L'oltraggio subito si perpetuava in lei. L'onta si era fatta eterna, la violenza si era fatta umana. Il delitto viveva – viveva! e le pulsava in seno.
Nel cuor della notte ella si levò a sedere nel letto. La realtà orribile l'aveva colpita come una percossa al cuore.
Rimase così al buio, coi denti serrati, le mani premute alle tempia; poi scivolò dal letto e stette immobile in mezzo alla stanza. Tutta la casa dormiva. Ella era sola, sola col suo orrore e la sua disperazione.
Come poteva sottrarsi all'orribile cosa che portava in sè? Come sfuggire a sè stessa?
Accese la luce e andò con rapidi passi allo specchio. E si guardò.
Si guardò a lungo facendo cenno di sì col capo, come una mentecatta; e la sua imagine riflessa, lunga e bianca nella camicia da notte, le faceva cenno di sì. Era vero. Ecco, ella ne riconosceva tutti i noti segni: quei lineamenti stirati, quegli occhi stanchi ed irrequieti, quella faccia che sembrava già troppo piccola in confronto al corpo – tutto tutto quell'aspetto spaurito, dolente – era la maternità! La maternità. Ciò ch'ella e Claudio avevano tanto desiderato, tanto sospirato – un altro figlio – ecco, ora le veniva concesso. La natura accordava alla violenza ciò che aveva negato all'amore. Nell'esasperazione della tortura, nel parossismo dell'odio, la materia aveva risposto e fiorito.
Coi denti stretti, coi pugni chiusi ella guardava quell'imagine, guardava quel suo fragile corpo in cui si compiva l'eterno mistero della vita.
Notava la subdola preparazione della sua muliebrità per l'adempimento della sua missione: la curva già più marcata delle sue forme, e la trama delicata delle cerulee vene sul candor latteo del collo e del petto.
Con un gemito di creatura ferita ella nascose il volto tra le mani.
Mia Dio! Che cosa fare? Che cosa fare? Come in un baleno ella rivide la faccia convulsa, ubbriaca del nemico china sopra di lei… E con un grido che destò di soprassalto Chérie nella camera attigua, Luisa cadde a ginocchi presso il letto.
Liberarsene, liberarsene!… o morire!
—–
Allora cominciò per Luisa la disperata corsa alla liberazione, la straziante ossessione dei tentativi di scampo.
Si levava ogni giorno all'alba e camminava per ore ed ore, noncurante dell'intemperie, affannandosi per aspre salite e ripide discese, correndo per affaticarsi e stremarsi; finchè madida di sudore, esausta, si abbatteva affranta…
A nulla giovò. Allora si decise di andare a Londra. Inventò ogni sorta di scuse per andarci sola; e in quell'enorme, crudele deserto di strade ignote, di folla ignota ella vagò in cerca di oscure farmacie. Tornava portandosi a casa delle medicine venefiche, delle bevande pericolose che le davano crampi e convulsioni, che la lasciavano malata, esausta, colla bocca amara e il viso spettrale.
Tutto era vano. La natura proseguiva inesorabile il suo corso.
Allora si decise di chiedere aiuto alle donne che sui giornali promettevano assistenza; e andò tremante ad esporre a loro il suo caso.
Ma esse non la conoscevano; era straniera e probabilmente senza danaro. Nessuno volle ascoltarla, nessuno volle soccorrerla.
Finalmente Luisa si decise a consultare un medico. Il primo a cui si rivolse era un giovane svizzero, rigido, onesto e rude. Egli minacciò di denunciarla al suo Consolato, e la mise alla porta.
Allora ricorse a un dottore francese di cui qualcuno le aveva detto che era amabile e cortese. Difatti egli l'ascoltò, benevolo, se pure con un sorrisetto non scevro di malizia.
Già!… Ve n'erano molti di questi casi dolorosi.... Era quasi difficile credere che fossero tutti genuini!… Andiamo, andiamo! Si trattava qui veramente della violenza dell'odiato nemico?… O non era forse responsabile qualche bon ami? Qualche affascinante «Tommy» od ufficialetto inglese? Suvvia, era troppo naturale – e il dottore le prese la mano – quando si era ravissante come lei, con quelle guancie infocate e quegli occhi ardenti.... Ah! con quegli occhi si ha le diable au corps, n'est-ce-pas?
Luisa, comprendendo, era balzata in piedi fremente di disgusto e d'ira. Allora egli cambiò tono e l'avvertì che se osava ripresentarsi a lui l'avrebbe denunciata alle autorità.
Col coraggio della disperazione Luisa andò da varî dottori inglesi; e quando si trovò davanti a loro non osò dire quello che desiderava. Essi le ordinarono dei calmanti e dei ricostituenti. Se mai ella osava narrare loro la sua storia, o non la credevano, o scotevano malinconicamente il capo raccontandole a loro volta dei casi che avevano conosciuti simili al suo, od altre storie di barbare atrocità. Luisa doveva interessarsi al fato dei bambini di Visè cui erano state mozzate le mani; doveva commuoversi per il soldato di Hertfordshire cui avevano strappato gli occhi.... Poi pagava cinque scellini (se era un medico della City) o due lire sterline (se era un medico di Harley Street) e se ne tornava a casa con una ricetta di sedativi e tonici.
Allora Luisa decise che bisognava morire. Non vi era rimedio, bisognava morire. Aveva paura della morte. Si sentiva legata alla vita da un duplice istinto, il suo e quello della creatura che viveva in lei. Ah! come tenacemente si aggrappava quell'essere alla vita! Non voleva morire, quell'immonda creatura – no! non voleva morire e liberarla. Si attaccava con tutte le fibre alla sua esecrata esistenza.
Ben sapeva Luisa che cosa sarebbe accaduto se portava fino al termine questo suo martirio! Sveglia, ogni notte, ella si figurava ciò che nascerebbe da lei, immaginava vivente questo essere concepito nell'odio e nell'orrore. E lo vedeva un mostro, una cosa informe e demoniaca, una cosa fantastica e terrorizzante che a guardarlo agghiaccia il sangue!… Tale sarebbe la creatura che nascerebbe da lei, ch'ella dovrebbe carezzare e nutrire, – e recare tra le braccia andando incontro a suo marito quand'egli tornava zoppicante dalla guerra!…
Ossessionata e pazza, ella si figurava quell'incontro in mille modi – tutti terribili, tutti indicibilmente spaventosi.
Vedeva Claudio venirle incontro sulle sue grucce, fissarla incredulo senza capire.... Vedeva Claudio che impazziva.... Claudio che alzava la gruccia e sfracellava il cranio della creatura immonda, come era stato sfracellato il cranio di Amour.... Amour! Ah! quel terribile Amour ch'ella aveva veduto morto in quell'alba nefasta…
E Luisa tentennava la testa o parlava tra sè e sè. Già… già! fu quella, quella la prima cosa che videro i suoi occhi quando uscì barcollando dalla camera dove l'oltraggio si era compiuto! E la spaventosa visione la perseguitava ancora: bastava che chiudesse gli occhi per vedere Amour – un ammasso nero e sanguinante, col cervello che gli schizzava dal cranio – Ah, mio Dio! E se questa visione orrenda l'avesse a tal punto impressionata che il bambino…? Silenzio! Questa era la pazzia; ella si sentiva impazzire.
Dunque bisognava morire.
Morire? Come morire? E quando fosse morta che cosa ne sarebbe di Mirella e di Chérie?
Chérie! All'idea di Chérie un nuovo torrente di pensieri invase il cervello vaneggiante di Luisa. Chérie! Che cosa aveva Chérie?
Non aveva essa pure quell'espressione irrequieta e strana, quei lineamenti stirati, quel viso ansioso e troppo piccolo in proporzione del corpo? Era possibile – era possibile che la mala sorte avesse colpita anche lei?
Allora Luisa si sforzò di ricordare, di ricordare quegli eventi di cui pure avrebbe pagato colla vita l'oblio. Cogli occhi chiusi, le membra scosse da brividi, ella impose a sè stessa di rivivere le ore più fosche della sua vita....
L'alba del cinque agosto.
.... La casa vuota, silenziosa. Gli invasori sono partiti.
Luisa, uno spettro livido nel grigio pallore dell'aurora, esce barcollando dalla sua camera… passa con un sussulto davanti ad Amour sulla soglia della camera di Chérie.... Poi scende vacillando le scale.
Ed ecco, accasciata ai piedi della ringhiera di ferro – Mirella! Mirella ancora colle braccia legate, colla piccola bocca aperta, ansando breve, a tratti, come un uccellino che sta per morire…
Luisa la solleva, slega e scioglie la sciarpa che la stringe, le spruzza dell'acqua sul viso.... e Mirella apre gli occhi.
Ma quelli non sono gli occhi di Mirella! Vi è delirio e frenesia in quelle pallide iridi che si volgono lente intorno alla stanza, che vagano indecise e che d'un tratto si fermano su un punto, folli, intente.
Che cosa mai guardano con quell'espressione di indicibile terrore?
La madre segue quello sguardo e vede una porta – la porta drappeggiata da una tenda rossa che dà in una camera da letto. E' questa una camera poco usata dove talvolta un ospite o un paziente di Claudio ha dormito. Ed è su questa porta che lo sguardo allucinato di Mirella si fissa. E' aperta la porta; la tenda rossa pende strappata....
Luisa guarda – poi guarda ancora; e non si muove. La luce elettrica là dentro è ancora accesa, una seggiola è rovesciata sul limitare, e là, là sul letto giace qualcuno.... E' Chérie! Chérie nel suo vestito di velo bianco – Luisa vede che è tutto lacero e macchiato di sangue – Chérie, colle braccia alzate e le mani legate alla sbarra del capo-letto. Il largo nastro rosa le è stato strappato dai capelli per legarle così le mani sopra al capo. Ha la faccia graffiata e sanguinante. E' immobile. Sembra morta.
… Ah! come trovò Luisa la forza di sollevarla, di richiamarla alla vita, piangendo su lei e su Mirella, correndo disperata, folle, dall'una all'altra delle due creature?
Le aveva vestite, inviluppate di scialli. Era riuscita, ora trascinandole, ora portandole, a scendere con loro le scale, a trarle fuori – fuori da quella casa profanata!
Che cosa fare? Doveva chiamare aiuto? Doveva andare gridando la loro vergogna e la loro disperazione per le vie del villaggio?
No, no, no! Che nessuno le veda, che nessuno sappia mai ciò che è accaduto a loro.
.... Ma che rumore era questo – questo galoppo di cavalli per le vie deserte del villaggio? Ah! sono loro, sono gli ulani!… bisogna fuggire! fuggire!
Gemendo, barcollando, incespicando, ella sollevò, portò quelle due creature inconscie per il viottolo sassoso che conduce ai boschi....
—–
E quivi, la mattina seguente, una pattuglia di soldati belgi le trovò.
XIV
Il Ministro episcopale di Maylands, il reverendo Ambrogio Yule, era nel suo studio intento a scrivere l'articolo mensile per la «Northern Ecclesiastical Review.» Il soggetto lo interessava: «Le Nostre Domeniche Peccaminose.» Pensieri e parole gli scorrevano facili; condannava con focosa penna le conversazioni frivole, l'assenza dalla chiesa, la frequentazione dei cinematografi e, in generale, il contegno festivo deplorevole dell'anglosassone gioventù.
Scriveva rapido e fluente nella bella calligrafia nitida di cui assai si compiaceva.
Un bussar lieve alla porta l'interruppe.
«Cosa c'è?» chiese, non senza un'ombra di impazienza.
«C'è una signora che desidera parlarle,» disse Parrot, la cameriera, affacciata all'uscio.
«Una signora? Chi è? Tutti dovrebbero sapere che oggi non ricevo.»
«Scusi, signore. E' una di quelle persone forestiere che stanno in casa della signora Whitaker.»
«Ah, va bene. Fatela entrare in salotto ed avvertite la vostra padrona.»
«Scusi, signore,» insistette timidamente la cameriera, «questa signora ha chiesto proprio di Lei. Ha detto che desiderava» – un lieve sorriso balenò sull'amabile volto di Parrot mentre citava l'inglese esotico della straniera – «che desiderava parlare al Signor Ecclesiastico in persona.»
«Va bene,» sospirò rassegnato il Vicario. «Fatela entrare.»
Collocò un ferma-carte sulle sue cartelle, si alzò e andò al caminetto; ivi in piedi colle spalle al fuoco attese la sua visitatrice.
Questa entrò – una figura alta, vestita di nero – e fissò sul Vicario due pupille di fuoco e di velluto, risplendenti in un viso pallidissimo.
«Signora, vogliate accomodarvi,» disse il Reverendo. «In che cosa vi posso servire?»
«Perdoni …» balbettò la straniera, sommesso, «posso parlarvi in francese?»
«Mais certainement, Madame,» fece il cortese prelato che, venti o trent'anni prima, aveva studiato sur place con benevola attenzione le domeniche peccaminose del Continente.
La signora sedette e tacque. Portava dei guanti di filo nero e stringeva nervosamente tra le mani un fazzoletto, girandolo e rigirandolo fino a ridurlo una pallottola sgualcita. L'amabile ministro protestante, col capo leggermente piegato sull'omero, attese che parlasse. Ma poichè perdurava il silenzio si decise a chiederle in francese:
«Ella sta qui a Maylands? In casa della signora Whitaker, se non erro? Mi pare di averla incontrata talvolta con due giovanette....»
«Sì; mia figlia e mia cognata.» La donna parlava così piano ch'egli dovette piegarsi in avanti per afferrarne le parole.
«Già, già, perfettamente.» Il vicario riunì insieme le punte delle dita, poi le scostò, poi le picchiettò lievemente insieme aspettando ulteriori schiarimenti. Ma la signora taceva ed egli si decise ad interrogarla.
«Posso chiederle il suo nome?»
«Luisa Brandès.»
«Ah, perfettamente. Già.» Un altro silenzio. «E.... il di Lei consorte?» Il viso del Reverendo già si atteggiava ad un'espressione di condoglianza.
«E' in un ospedale a Dunkerk – ferito.»
Il Vicario scosse la bella testa grigia. «Triste, triste, invero,» mormorò. «Ed Ella desidera probabilmente che io l'assista ad andarlo a trovare?»
«No!» La parola uscì quasi come un grido dalle labbra della donna, ed improvvise lagrime le soffusero gli occhi, le scesero per le guancie e le caddero sulle mani giunte – quelle povere mani inguantate di nero.
«E allora?…» interrogò il Ministro colla testa ancora più inclinata sull'omero.
Luisa sollevò le nere ciglia e fissò lo sguardo angosciato su quella bella faccia benigna che le stava dinanzi; vide quella fronte blanda e benevola, quelle labbra sottili e strette, e le mani bellissime – il Vicario sapeva di avere le mani bellissime – colla punta delle dieci dita leggermente unite. E Luisa sentì nell'animo la certezza che se avesse domandato a costui pietà, protezione o denaro – tutto ciò le sarebbe accordato. Ma sentì pure che ciò ch'ella stava per implorare da lui avrebbe incontrato una inesorabile ripulsa. Tuttavia non potè, nè volle indietreggiare. Ella ripetè a sè stessa che questo sarebbe stato l'ultimo passo, l'ultimo sforzo che avrebbe tentato per ottenere soccorso. Non era egli il sacerdote, il rappresentante del divino Potere e della divina Pietà?
Con un singulto si fece il segno della croce, cadde in ginocchio davanti a lui e gli afferrò la mano. «Mon Père…» balbettò – non altrimenti soleva ella rivolgersi al vecchio curato di Bomal, trucidato in quella notte indimenticabile – «ah! mon Père —»
Il prete inglese e protestante ritrasse bruscamente la mano da quella stretta.
«Vi prego, signora, di non parlarmi così. Vi prego inoltre di rialzarvi e di mettervi a sedere.» E tra sè e sè sospirò: «Ahimè! Come sono melodrammatiche queste razze latine! Povera donna! Come se tutta questa teatralità fosse necessaria per venire a chiedermi qualche sterlina, o per annunciarmi che non va d'accordo con quella buona e irascibile signora Whitaker!»
Luisa, fattasi prima rossa e poi pallida si era prontamente rialzata. «Perdonate…» mormorò, profondamente mortificata.
E allora anche il buon Vicario si fece rosso e la coscienza gli rimorse per averla trattata con tanta rudezza.
In quel momento si aprì la porta ed entrò la signora Yule, mite donna dalla fronte serena e dagli occhi di bontà. Era con lei il dottor Reynolds, che portava in mano la sua borsa chirurgica di pelle nera.
«Oh!» esclamò la moglie del Vicario, scorgendo Luisa. «Scusami, Ambrogio. Non sapevo che tu avessi visite.»
«Vieni, cara,» disse il reverendo Yule, «vieni a far conoscenza con Madame Brandès, una signora belga che sta in casa dei nostri amici Whitaker. Essa è venuta a consultarmi per qualche cosa che la riguarda....» Poi, volgendosi al dottor Reynolds: «Dunque, Reynolds, come hai trovato il nostro ragazzo?»
«Bene! Benissimo! Lo rivedrete tra poco rompersi il collo in qualche altro match di foot-ball,» rise quello. Poi soggiunse più serio: «Non si tratta, te lo accerto, che di una stiratura di tendine. Cosa da nulla assolutamente.»
La signora Yule era andata incontro a Luisa colla mano tesa.
«Sono felice di conoscerla,» disse cordialmente. «Resterà con noi a prendere il thè, non è vero? Anche mia figlia Mary sarà così contenta di vederla – non già» soggiunse, e la voce le si velò – «non già che essa possa vederla davvero. Forse avrà sentito dire che la mia cara bimba è cieca....»
«Cieca!» esclamò in un singulto Luisa.
Come un'onda immensa il dolore del mondo sembrò sommergerle il cuore. Ella sentì terribile e insopportabile la tristezza della vita.
«Cieca!» ripetè. E chinando improvvisa il viso tra le mani scoppiò in pianto.
Il cuore della signora Yule fremette; i suoi occhi materni avevano notato subito l'aspetto affranto, la linea rivelatrice di quella mesta figura. Le si accostò rapidamente e le prese ambo le mani.
«Suvvia, cara! Venga, venga qui accanto al fuoco. Vuole togliersi il cappello? Sa… questo clima inglese… fa proprio male a chi non vi è abituato,» mormorava la soave donna con quella specie di timidezza che gli anglo-sassoni provano sempre di fronte all'emozione altrui. Anche i due uomini avevano voltate le spalle e discorrevano tra loro vicino alla finestra.
La signora Yule strinse fra le sue quelle mani inguantate di nero. Che cosa conta, pensava, se quello scoppio di pianto fu provocato dalle condizioni di salute di quest'infelice, dai suoi nervi sovreccitati, o da qualche suo proprio intimo dolore?… Il fatto restava ch'essa era scoppiata in lacrime alla notizia della sventura di Mary. L'anima della signora Yule ne fu tocca. Nè mai più lo scordò.
Sedette accanto a Luisa e le parlò in francese affettuosamente:
«Voi siete belga, cara signora? Pensate che io sono stata in collegio a Bruxelles.» Infatti il suo accento francese era perfetto, diverso dal parigino soltanto per quel vezzo che hanno i valloni di chiudere le vocali alla finale delle parole. «Già da tempo sarei venuta io stessa a vedervi e pregarvi di fare amicizia colla mia Mary» – e le strinse di nuovo la mano – «di cui la disgrazia ha tanto afflitto il vostro tenero cuore; ma, come avrete forse saputo, mio figlio si è fatto male al foot-ball, e da parecchie settimane io non esco di casa. – Un momento, dottore!» soggiunse, vedendo che questi si accommiatava da suo marito. «Voglio presentarvi alla signora Brandès....» E, volta a Luisa, «Ecco,» disse, «il nostro miglior amico – il dottor Reynolds. Un angelo d'uomo, e uno scienziato valente.»
«Ci conosciamo,» disse il dottor Reynolds stringendo la mano a Luisa e guardandola bene in viso con que' suoi occhi miopi e penetranti. «La figlioletta di Madame Brandès,» soggiunse rivolto alla signora Yule, «è una mia piccola paziente.»
«Ah, davvero?» disse quella.
Vi fu un momento di silenzio; poi il medico, volgendosi al Vicario, abbassò la voce:
«E' un caso pietosissimo. La loro abitazione è stata invasa, e pare che la bambina ne abbia avuto un terribile spavento. Fatto sta che ha perduto la ragione e la favella. E' un caso veramente doloroso.»
Fu la signora Yule cui questa volta le vivide lagrime di pietà riempirono gli occhi. Con uno slancio di tenerezza si chinò improvvisamente e baciò la pallida guancia dell'esiliata.
Allora, come al bagliore d'una folgore, s'illuminò il buio nell'anima di Luisa. Essa sentì che ora o giammai doveva svelare il suo segreto; ora o giammai doveva tentare l'ultimo sforzo, la suprema lotta per la liberazione e la vita.
Le sue nere pupille andavano dai dolci occhi della signora Yule, ancora nuotanti nel pianto, alla faccia grave e pietosa del dottore. E la speranza come una cosa viva le corse nel cuore. Il sangue le affluì alle guancia.
Balzò in piedi.
«Dottore!…» balbettò «Signora!… Devo dire… devo parlare....»
Si coprì il volto.
«Parlate, cara,» disse dolcemente la signora Yule.
Il Vicario mosse un passo innanzi. Guardò incerto da Luisa a sua moglie, poi il dottore. «Forse desiderate che io vi lasci....»
Ma Luisa gli stese una mano tremante. «Ah, no!» supplicò. «Voi siete il medico dell'anima. Ed è tanto malata l'anima mia!»
«Sono onorato della vostra confidenza, signora,» disse, grave e cortese. E sedendo accanto a Luisa, aspettò che parlasse.
Nè aspettò invano. Coll'eloquenza della disperazione, colla veemenza della follia, Luisa mise a nudo l'anima torturata, rivelò la storia del suo martirio.
In quella stanza tranquilla, nella placida sicurtà di quella religiosa dimora inglese furono rievocate le scene orrende di strage, d'orgia e di brutale violenza, nelle quali il nemico coi piedi lordi di fango e di sangue aveva calpestato l'anima di tre creature inermi. L'oltraggio fu ricompiuto dinanzi agli ascoltatori inorriditi.
Luisa era sorta in piedi – una figura alta, nera, con viso spettrale. Era dessa la Tragedia vivente, lo Spirito della Femminilità che la guerra strazia ed infrange; era ella il Cordoglio del Mondo.
Ella si gettò ai piedi della signora Yule con le braccia tese, con gli occhi fuori dell'orbite:
«Signora! Signora! Voi che siete donna dovete capire – capire che cosa è stata quella notte.... colla porta aperta.... i soldati ubbriachi nella casa!… Ah! vorrei nascondere la faccia sotto terra quando ci penso…»
«Povera donna!» mormorò convulsa la signora Yule.
«Mille volte al giorno,» proseguì Luisa, «ringrazio Iddio che la mia bambina – ammutolita per chissà quale spavento! – non possa domandarmi: Mamma! cos'hai? Mamma, che cosa pensi? Dovrei dirle: «Penso che sono maledetta tra le donne, che sono indegna di alzare la fronte. Penso che porto nel mio seno un essere immondo che renderà eterna l'onta che ho patito —»
«Coraggio, figlia mia,» disse grave il Reverendo ponendole una mano sul capo chino.
«Ah! ne avrò, ne avrò del coraggio! Affronterò la morte con letizia, con gratitudine!» Si volse al medico, che ascoltava impallidito e muto. «Dottore, dottore! Se muoio non me n'importa. Ma il delitto non deve vivere. Ciò che fu concepito nell'odio e nell'orrore non deve, non deve vedere la luce.»
Il dottor Reynolds indietreggiò, colpito:
«Signora!… Che cosa mi domandate?»
«Domando la liberazione,» gridò Luisa, «La liberazione immediata, completa! E se voi, dottore, non vi sentite di darmela – la Morte me la darà!»
E cadde bocconi ai piedi del medico, scossa da singhiozzi spasmodici come nel parossismo d'un attacco epilettico.
Il dottore la sollevò, l'adagiò sul divano, mentre la signora Yule correva a cercare dell'acqua e dell'aceto per bagnarle la fronte.
Ma il signor Yule fissava su quella figura di dolore il suo occhio grave ed austero.
«Infelice donna,» mormorò. «Essa delira. La sua ragione è scossa.»
«Eh, sì, caro amico,» mormorò il dottore, lanciando sul sacerdote uno sguardo quasi impaziente. «Dite bene: la sua ragione è scossa. E' una creatura che sta sull'orlo della demenza.» E il suo occhio esperto percorse la figura tesa e irrigidita, scossa ancora tratto tratto da un tremito convulso.
«E' un caso pietoso, un caso assai pietoso,» ripetè il Vicario evitando d'incontrare lo sguardo risoluto del medico. «Ella avrà le nostre più fervide preghiere.»
«Ella avrà la nostra più valida assistenza,» disse il dottore.
Come se questa parola fosse giunta allo spirito di Luisa, essa fremette, sospirò ed aprì gli occhi. La signora Yule era china sopra di lei, il suo braccio protettore la circondava. Luisa con un singhiozzo richiuse gli occhi.
Il Vicario guardò fisso il dottore; poi traversò la stanza e si fermò accanto al divano.
«Signora,» disse con voce dolce e grave a Luisa. «Voi sarete coraggiosa, non è vero? Noi siamo tutti qui per portarvi aiuto e conforto.»
Luisa aveva riaperto gli occhi. A queste parole un'abbagliante raggio di speranza le illuminò il viso.
Il Vicario continuò pietoso e grave.
«Tutta la nostra amicizia, tutta la nostra pietà, vi è dovuta – e l'avrete. Se, com'è probabile, la signora Whitaker non desiderasse più ospitarvi, voi rimarrete in questa casa come una figlia nostra, diletta e sacra. Avrete da noi tutte le cure, tutte le tenerezze; sarete rispettata ed onorata —»
Luisa ruppe in singhiozzi e afferrando la mano della signora Yule la recò alle labbra.
«E nell'ora —» il Vicario si raddrizzò solenne ed imponente – «e nell'ora del vostro supremo martirio, voi non sarete abbandonata.»
Lenta, tremante Luisa si rizzò a sedere. «Che cosa – che cosa dite?»
Lo fissava stravolta, cogli occhi che ardevano come torcie nere nel viso color di cenere.
«Dico,» pronunziò solenne il prete, tenendo lo sguardo fermo e fisso sulla donna tremante; «dico che perchè voi avete sofferto della nequizia umana, non avete il diritto» – egli levò la mano e la sua voce vibrò sonora ed imperiosa – «non avete il diritto nè di proporvi, nè di spingere altri, a commettere un atto delittuoso.»
Un profondo silenzio regnò nella stanza. L'autorità sacerdotale reggeva il suo potente dominio.
«Un atto delittuoso!» ansò Luisa e si levò in piedi, vacillando. «Ma non sarebbe maggiore delitto spingermi alla morte? O voler forzarmi a dare la vita ad un essere che non può, che non deve vivere? Ah!» gridò con, violenza folle, «ma io mi strapperò gli occhi prima di vederlo, mi lacererò il petto prima di nutrirlo – e con queste mani, se nasce, lo strangolerò!»
Il reverendo Yule, impallidendo, tese le mani.
«Donna, voi bestemmiate!»
«No, no! Non bestemmio,» gridò Luisa. «Pensate… pensate.... che ho un marito…! che m'ama.... che combatte per noi nelle trincee! Che un giorno» – la voce le si spezzò in un singulto – «se il cielo è pietoso – tornerà!» Vi fu un attimo in cui nessuno parlò. «E non basta dovergli dire che la sua bambina è impazzita e muta? Volete ch'io gli vada incontro recando in braccio il figlio di un nemico?»
Un profondo silenzio tenne la stanza.
Allora Luisa, stralunata, nel rapido mormorio della demenza, continuò:
«Ma io lo sento… lo sento che divento pazza sotto quest'incubo! Pazza, pazza di terrore e d'odio. Cerco di sfuggire a me stessa, di sottrarmi alla velenosa cosa ch'è in me, che ogni giorno prende maggior forza, ogni giorno diviene più vitale, ogni giorno m'invade di più! Dottore! dottore!» – con un grido gli cadde ai piedi – «è un cancro – un cancro vivente ch'è in me! Toglietemelo! Liberatemene!… o mi darò la morte.»
Cadde prona ai piedi del dottore. Questi, pallidissimo anch'egli, la sollevò.
Poi affidatala alle materne braccia della signora Yule, che col viso inondato di lagrime l'accolse, il medico si volse risoluto al sacerdote.
«Io non prenderò alcuna decisione affrettata,» disse. «Ma se dopo ulteriore riflessione mi convinco che – come uomo e come medico – debbo intervenire ed interrompere il corso degli eventi, non è detto che io non abbia a farlo.»
Il Vicario lo guardò atterrito.
«Reynolds, mio buon amico! non dirmi dunque che oseresti intervenire!»
Il dottore tacque. Luisa, con le pallide labbra aperte, gli occhi smarriti e fissi sui due uomini, aspettava la sua sentenza.
«A priori,» soggiunse il dottore studiando il viso disfatto e il corpo macilento di Luisa, «a priori credo poter asserire che le condizioni mentali e fisiche di questa donna giustificano il mio intervento.»
«Ah!» Fu un urlo di gioia delirante che proruppe dalle labbra di Luisa. Ella si strappava dal collo la veste, soffocata, cercando il respiro, scossa da un riso frenetico e da singhiozzi, ripresa da un nuovo violento spasimo isterico.
Dovettero riportarla sul divano; mentre la signora Yule le bagnava le tempia, il dottore sciolse nell'acqua un calmante: glielo forzò tra i denti serrati; poi le sedette vicino, tenendole l'esile polso.
In breve sentì che le pulsazioni disordinate si facevano più ritmiche e i tesi muscoli si allentavano. Si alzò e traversò la stanza.
Il sacerdote stava muto e immobile accanto alla finestra, guardando fuori sullo squallido giardino battuto dalla pioggia.
«Yule,» disse il dottore, «sarò desolato se per seguire il dettato della mia coscienza dovessi perdere la tua amicizia – un'amicizia che dura da quando dura la nostra vita, e che» – la voce gli si spezzò – «mi è indicibilmente preziosa.»
Il Vicario non rispose. Ma la signora Yule, abbandonando Luisa che pallida come un cadavere giaceva ad occhi chiusi sul divano, traversò senza rumore la stanza e venne a mettersi accanto al dottore – a colui che da tanti anni aveva vegliato su lei e sui suoi cari, curando, guarendo, confortando; colui che, quindici anni prima, le aveva messo tra le braccia con tanta mesta tenerezza la sua figliolina cieca.... Ella gli si tenne vicina, tremante, col volto acceso, e le sue labbra si movevano come in silenziosa preghiera.
Suo marito, immobile, continuava a guardar fuori nel nebbioso crepuscolo autunnale.
«Ma nessun vincolo d'amicizia, nessuno scrupolo religioso,» continuò il medico, «devono impedirmi di compiere ciò che sento essere mio dovere. Yule, qui si tratta di ubbidire ai sentimenti della più elementare umanità, che nel caso attuale, coincidono esattamente cogli insegnamenti della scienza. Date le condizioni in cui trovo questa donna, devo tentare di tutto per salvare la sua ragione e la sua vita. – E così farò.»
«E farete bene, sant'uomo che siete!» L'inattesa esclamazione irruppe impetuosa dalle labbra della signora Yule; e pur tremando sotto lo sguardo stupito e sdegnato di suo marito ella nè ritrasse, nè rimpianse quelle parole.
«Clara, tu hai detto un'empietà!» e nella voce del prete tremava più che lo sdegno una profonda sofferenza. «Non si infrangono impunemente le leggi divine —».
Il dottore scattò:
«Ma via, Yule! Non è per legge divina che quella sciagurata si trova oggi in queste condizioni. Ogni legge divina e umana è stata infranta dagli immondi bruti che la guerra ha scatenato!»
Il Vicario non rispose; e l'uomo di scienza continuò:
«La legge divina dà alla donna il diritto di selezione. Essa ha il diritto di scegliere chi sarà il padre delle sue creature. E questo sacrosanto diritto è stato violato.»