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Kitabı oku: «I rossi e i neri, vol. 1», sayfa 3

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IV

Qui si mostra con la prova in mano come gli angeli non siano poi tutti in paradiso.

Qualche lettore curioso vorrà sapere dell'altro intorno a quella testolina di fanciulla, che insieme abbiam vista apparire dal vano di un uscio, e di cui, con pochi e rapidi tocchi abbiamo anche abbozzato una specie di ritratto. E noi vogliamo contentarlo, questo lettore curioso, anche a costo di non far correre abbastanza spedito il racconto.

Maria era bella, come si è detto, ma non di quella bellezza tutta seste, misure e proporzioni, che piace nelle statue, ed è muta e fredda com'esse; bensì di quella viva e calda e prepotente bellezza, che è tutta espansione, accoppiando la soave euritmia delle forme al raggio divino dell'anima, per modo che tutto parli in lei e commuova, perchè tutto palpita e vive. Il carattere di quella bellezza faceva senso, la grazia angelica de' suoi contorni soggiogava gli occhi e gli spiriti. I capelli neri, che traevano all'azzurro intenso come la classica ala del corvo, i neri occhi, le lunghe ciglia, il naso profilato, la bocca vermiglia, il volto ovale, l'incarnatino delle guance, i delicati contorni del collo, erano tanti ingredienti coi quali uno scrittore esercitato avrebbe potuto comporvi una bellissima testa, e che noi, non sapendo far meglio, vi mettiamo qui alla rinfusa, perchè vogliate formarvela da voi, coll'aiuto della vostra immaginazione.

Maria aveva di poco passati i suoi diciott'anni; ma il suo cuore, castissimo sacrario di nobili affetti, ne aveva quindici appena. Però gli occhi della fanciulla splendevano di una luce modesta, non scintillavano ancora. Per lei tornava a mente il primo verso d'un celebrato poema del Moore, nella amorosa versione del Maffei: «Sul mattin della vita era il creato». La scienza del bene e del male non aveva ancora profferto il suo fatale insegnamento a quella gentil creatura.

Tra Lorenzo e Maria correva una certa somiglianza. Ambedue avevano neri i capelli e spaziosa la fronte: ma il volto di Maria era bianco incarnato, quello di Lorenzo era bianco pallido; se il giovane fosse vissuto un tratto alla vampa del sole, quel volto sarebbe diventato bruno, poichè c'era sangue marinaro nelle vene dei Salvani. Inoltre, gli occhi di Maria erano d'un nero turchiniccio, dai riflessi d'indaco; quei di Lorenzo d'un lionato carico, e li faceva parere neri la profondità delle occhiaie, sotto la guardia delle sopracciglia prominenti.

Più forte tra i due era la somiglianza del carattere, frutto evidente di una parità di educazione, che può farsi in noi come una seconda natura. Senonchè, le esterne sensazioni conducevano l'animo di Maria alla dolce gaiezza, o alla malinconia rassegnata, quello di Lorenzo alla pazza allegria, o alla tristezza profonda. Non c'era gradazione di tinte, nello spirito di Lorenzo Salvani. Ambedue, del resto, sentivano altamente di sè, anime dignitose e preparate ad ogni maniera di sacrifizi. L'impresa dell'armellino: «__malo mori quam foedari__» (anzi che macchiarmi morire) pareva fatto bella posta per quelle due nobilissime creature.

Era nobile di natali Maria? Lorenzo, qualche volta, celiando, le dava un certo nome! Ma i natali di quella che egli chiamava celiando «la bella marchesina» erano rimasti un segreto fra il colonnello Salvani e sua moglie. Lorenzo teneva in un ripostiglio del suo cassettone, gelosamente nascosto e chiuso, uno scrignetto d'ebano, nel quale il gran segreto aveva a trovarsi di certo: ma i parenti l'avevano dato in custodia a Lorenzo, col patto che fosse il dono di nozze dei Salvani alla cara fanciulla.

– Un giorno qualcheduno ti amerà, – aveva detto la signora Luisa, – di un amore diverso da quello di mio marito e dal mio. Quell'uomo, se tu lo ricambierai d'affetto sarà degno veramente di te; ed allora meriterà di sapere da che sangue sei nata. Svelartelo ora sarebbe impossibile; e dirti soltanto il nome di tuo padre, che fu onesto, buono e generoso, potrebb'essere un grave pericolo, per te e per altri. Egli ti confidò come un sacro deposito a Rigo Salvani, e noi dobbiamo rispettare la sua volontà.

– E mia madre? – aveva chiesto Maria.

– Tua madre è felice. Quel giorno ch'essa chiederà di te, meriterà davvero di esser tale. Per ora ti basti. Ne sei forse accorata?

– Oh, no! sarei un'ingrata. Finalmente, non siete voi la mia madre vera, da cui tutto mi viene? Se mio padre, colui che mi amava è morto, l'anima sua si è tutta trasfusa in voi altri, per farmi la più fortunata tra le orfane. —

Queste parole esprimevano allora i veri sentimenti di Maria; ma non è da credere che l'idea di quel segreto non gravasse talvolta sull'anima sua con tutte le ansie di un dubbio doloroso. La povera fanciulla si sentiva troppo sola al mondo, specie da quando la signora Luisa e il colonnello Salvani erano andati a riposare, l'uno accanto all'altro, nelle zolle del camposanto. Ella per giunta aveva inteso bene lo stato critico di Lorenzo, poichè questi l'ebbe condotta a dimorare in Genova, col veterano Michele. Per nessun'altra cosa al mondo il giovane Salvani si sarebbe piegato a vendere la casa paterna, se non fosse stato l'obbligo di proseguire l'opera pietosa dei parenti verso di lei. Questo aveva inteso Maria, e gliene serbava nel cuore una gratitudine infinita. I nuvoli della fronte di Lorenzo essa li conosceva a puntino, come il marinaio le seccagne della sua rada natale. Erano ben neri, quei nuvoli, e a grado a grado più frequenti e durevoli. Che dolore per lei, che assisteva alla rovina quotidiana del suo fratello d'adozione, senza che fosse in potere suo di recarvi un rimedio efficace!

E non sapeva ancor tutto; ignorava lo spediente delle ottanta lire al mese, che Lorenzo andava a guadagnarsi a tarda sera nel fondo di una bottega. Sentiva nondimeno le angustie di lui; e non potendo molto, aveva presto pensato di aiutare col poco. Si era indettata per ciò col vecchio Michele. Di giorno, le ore che Lorenzo passava fuori, o nella sua camera a scrivere, la magnanima giovinetta le spendeva a ricamare; e parecchie della notte egualmente. Da quelle sue dita maestre uscivano lavori delicatissimi, che il bravo Michele, per mezzo di certe conoscenze, trovava modo di spacciare presso qualche merciaio; e a volte, quando si trattasse d'opere più vistose e più fini, non arrossiva di metterle in lotteria.

Per altro, intendiamoci; se non arrossiva di spacciar la roba a quel modo, coll'obbligo di andare attorno e di sollecitare la gente, si ricattava di quell'audacia mettendo le poste salate. E se taluno gli diceva: «costa troppo», egli dava di piglio alla sua roba, e se ne andava difilato, senza più accettare nemmeno quel prezzo ch'egli stesso aveva chiesto da prima. Spregiare a quel modo un lavoro della sua Minerva celata, era un peccato da non portare speranza di assoluzione.

Quelle ore che Lorenzo passava in casa, erano ore di allegrezza e di festa. Il povero giovane studiava di molto, e non si prendeva uno svago a cui non partecipasse Maria. Ed era bello vederla, con la sua lunga veste di seta nera, o di mussolina bianca (che d'altri colori non usava adornarsi mai), col suo cappellino di paglia di Firenze all'estate, e di velluto nero all'inverno, prigione troppo stretta al volume della nerissima capigliatura, andar leggera leggera al braccio del suo caro fratello.

Michele non aveva mai voluto andar fuori con essi. E sì che il povero veterano delle __Tapera di Don Venanzio__ e di porta San Pancrazio ne aveva una voglia spasimata! Ma anche Michele ci aveva il suo segreto, che non aveva confidato nemmeno alla sua bella padroncina. Egli non voleva che dalla sua compagnia nessuno argomentasse che quegli occhi neri, i quali guardavano a mala pena la strada, e quelle dita affusolate, chiuse in un guanto perlato, fossero quegli occhi e quelle dita che si affaticavano su certi ricami, ch'egli andava attorno a spacciare.

Quella bella e virtuosa famigliola viveva in un modesto quartierino che abbiamo fatto conoscere fin da principio ai lettori, composto sul davanti di due camere da letto, separato da una terza che faceva uffizio di camera da lavoro e di sala da pranzo. La camera di Lorenzo metteva nella sala d'entrata; quella di Maria in un corridoio, per dove si andava alla cucina. Dalla cucina, poi, si saliva ad una cameretta, ricavata nella impalcatura del tetto, nella quale dormiva Michele; e da questa cameretta si usciva sul terrazzo, ch'era tutto ornato di pianticelle, da giardino e da orto, cura particolare del vecchio servitore ne' suoi ozii mattutini.

Dall'altra parte della sala d'ingresso non c'era altro che l'uscio del salottino, malinconica stanza, che è sempre la stessa ed egualmente arredata in tutte le case di modesta fortuna, col suo canapè barocco, fasciato di lana a rabeschi, il tavolincino ovale poggiato su d'una gamba sola davanti al canapè; il piccolo tappeto da piedi tra l'uno e l'altro; quattro sedie a bracciuoli e una poltroncina; quattro battaglie litografate del '48, con la cornice dorata da tanto al palmo; le cortine di mussolina bianca traforata a fogliami, rialzate da due borchie d'ottone sui lati; finalmente un albo con venticinque ritratti, che il visitatore si crede in obbligo di sfogliare, osservando i mezzo svaniti gruppi di famiglia, la sposina in piedi, che posa una mano sulla spalla del marito comodamente seduto, i due amici in maniche di camicia, che fanno le viste di trincare alla salute della macchina fotografica, la balia con l'erede presuntivo sulle braccia, e via discorrendo.

Nel salottino di Lorenzo Salvani il terribile albo non c'era, non essendo ancora venuto l'uso della fotografia a buon mercato; e l'altra costumanza dell'albo bianco, trappola di poeti e di pittori, era in uno de' suoi intervalli di felicissimo riposo.

Maria, del resto (che in simili faccende gli uomini non contano mai), anche se la costumanza dell'albo fosse stata viva e fiorente, non l'avrebbe seguita di certo. La fanciulla aveva altro da pensare, e il gusto di certi trastulli donneschi non lo sentiva affatto. Non amava, per esempio, i fiori sul davanzale, nè i canerini in gabbia; amava tutte le creature del buon Dio, ma senza far preferenze.

Nel giorno da cui prende cominciamento la nostra narrazione, Maria aveva fatte le maraviglie della visita ricevuta da Lorenzo. Il giovine non chiudeva la sua casa a nessuno, ma nessuno ci andava, perchè egli non concedeva diritti di dimestichezza a nessuno. Sapevano tutti ch'egli aveva una graziosa sorella; lo vedevano uscire con essa, ma non c'era verso di potersi accompagnare. Eglino del resto andavano sempre a diporto per istrane vie, a guisa di chi va per le sue faccende. Le strade Nuove e l'Acquasola, ritrovo di gente sollazzevole, non vedevano quella coppia fraterna se non molto di rado, e sempre di passata.

Abbiam dunque detto che la visita del signore sconosciuto aveva fatto maravigliar la fanciulla. Lorenzo, dopo quella visita, era uscito in fretta, senza dirle nulla; ed era questa una grossa novità. Era tornato due ore dopo, e si era seduto al suo tavolino, senza andare neanco a salutarla. Che voleva dir ciò?

Non istette molto a saperlo. Un'ora dopo il ritorno del fratello (il lettore ha già inteso perchè usiamo chiamarli alla breve fratello e sorella), Maria si spiccò dal suo lavoro, per andare sul terrazzo a respirare un po' d'aria; chè la giornata, come abbiamo già detto, era bellissima, e tiepida, a malgrado della stagione.

Nel salire la scala, udì Michele, che era nella sua cameretta sotto il tetto e canterellava una sua prediletta romanza spagnuola:

 
Mis ojos te vieron
Rosaura querida;
Mortal fuè la herida
De mi corazon.
 

Michele cantava sempre spagnuolo, con quel suo accento americano che fa rabbrividire ogni buon cittadino della __Castilla vieja__. Ma egli non si curava più che tanto della purezza dell'accento, e tirava innanzi. Dopo la canzoncina di Rosaura, veniva quell'altra:

 
Pescadorcita mia
Desciende à la ribera,
Y escucha placentera
Mi cantico de amor;
Sentado en su barquilla,
Te canta su cuidado,
Cual nunca enamorado
Tu tierno pescador.
 

Il veterano di Montevideo ne aveva un centinaio, di queste canzoni, e quando lavorava attorno a qualche cosa, le sciorinava tutte, una dopo l'altra, con una costanza mirabile.

– Bravo, Michele! – gli disse la giovinetta, entrando nella camera.

– Oh, signorina! Domando mille perdoni. È una delle mie vecchie cantilene, che non mi lasciano mai, come certi dolori aromatici che ho buscati laggiù. —

Michele intendeva di parlare di dolori reumatici; ma la corretta pronunzia di certi vocaboli non era il suo forte.

– Povero Michele! – soggiunse la giovinetta, non badando ai dolori aromatici, ai quali era avvezza, come a tanti altri suoi __lapsus linguae__. – Cantate, cantate; è una cosa che rallegra lo spirito. Ma che cosa fate voi ora. Dio mio? Quelle spade!.. —

– Oh nulla, signorina. È il signor Lorenzo che mi ha comandato di dar loro una ripulitura. Sono belle armi, perdiana! Veda come si piegano! Le ho vedute adoperare dal signor colonnello, e le so dir io che fu un famoso scontro. Ho veduto allora una botta di terza, data così a tempo, che non l'ho scordata mai più, e mi corre l'acquolina in bocca al solo pensarvi. —

Così dicendo, il belligero servitore aveva smesso di pulire il ferro, e andava giostrando in aria come un vecchio spadaccino che prova i suoi colpi di riserbo.

A Maria tutti quei discorsi e quella mimica non dicevano nulla di ciò che voleva sapere.

– Ma voi non mi dite il perchè di questa novità! – esclamò ella. – Mio Dio! che cos'è egli avvenuto? Forse Lorenzo… —

E la povera fanciulla impallidì, e fu costretta ad appoggiarsi alla parete, tanta era l'improvvisa commozione.

– Oh, la non si spaventi, signorina! – gridò Michele, deponendo la spada e facendosi tutto sollecito accanto a lei. – Da quanto ho potuto capire, egli è solamente padrino. E poi, fosse anco lui, il signor Lorenzo sa pure tenerla in mano, una lama. Quello è un uomo che, non fo per dire, darebbe dei punti a suo padre. —

La fanciulla non istette ad aspettar la fine del discorso di Michele. Ridiscese la scala, corse alla camera di Lorenzo, e, trovato l'uscio socchiuso, entrò deliberatamente da lui.

Lorenzo stava scrivendo; ma al fruscio della veste, alzò il capo e si volse a guardare.

– Orbene, Maria? – disse egli, come per chiederle che cosa volesse.

La fanciulla era bianca in viso come un cencio lavato, e appoggiava la mano alla spalliera del letticciuolo di Lorenzo, quasi fosse per cader tramortita.

Allora il giovine fu pronto ad alzarsi e correrle incontro.

– Che cosa avete, mia buona Maria? Che cos'è egli avvenuto? —

La fanciulla non rispose alla dimanda di Lorenzo; e piantandogli addosso due occhi scrutatori, gli chiese a sua volta:

– Voi andate a battervi? —

A quelle parole, Lorenzo capì la cagione dello smarrimento di Maria, e si sovvenne dell'incarico dato a Michele, che aveva potuto far nascere in lei il sospetto. Però, assunta l'aria più grave, postosi una mano sul cuore e stendendo l'altra verso il ritratto di suo padre, rispose:

– Vi giuro, Maria, che non vado a battermi io. Sono padrino, insieme coll'Assereto, di un certo dottor Collini che avete veduto venir qua stamane, e al quale, come ad un antico compagno di scuola, non ho potuto dire di no. Eccovi la pura verità; mi credete voi?

– Oh, vi credo, Lorenzo, vi credo. Voi non mentite mai. – E il volto della fanciulla si rasserenò; le lagrime che stavano per isgorgarle dagli occhi alla pressione dell'improvviso sgomento, furono in quella vece spremute dalla gioia.

Avete veduto mai la campagna sorridere amorosamente ad un bel raggio di sole, dopo la tempesta? Gli smorti colori si ravvivano, le foglie abbattute si risollevano, e le gocce d'acqua che le avevano flagellate pur dianzi, riposano tranquillamente nelle verdi cavità, scintillando come altrettanti smeraldi.

Quanto affetto per Lorenzo! direte voi; e giustamente, nell'osservare il fatto in sè, non già nel cercarne una causa riposta in altr'ordine di pensieri. Maria amava Lorenzo di quell'unico amore che ella sentisse, e che non poteva definire la mercè di accorti raffronti, essendo l'unico che ella avesse mai conosciuto.

Lorenzo poi era un giovine eletto; amava Maria come una sorella, e per essa avrebbe corso ogni risico più grave. Ma v'erano di certe cose alle quali egli non avrebbe pure ardito pensare, temendo di commettere un sacrilegio. A dirvela in breve, Maria era per lui un angelo, cioè un essere di natura diversa dalla nostra, diafano, etereo, al quale non si potesse accostarsi se non dopo aver lasciato in disparte il pigro involucro della materia.

E Lorenzo non aveva il torto. Se egli è vero che gli angeli siano essi di natura superiore alla nostra, se è vero che questi esseri siano stati creati da messer Domineddio come suoi messaggeri e testimoni della sua bontà infinita, intermediarli tra il cielo azzurro e la creatura terrestre, Maria aveva tutti i requisiti per essere contata nel numero. In fin de' conti ella poteva passare per un angelo, il quale fosse toccato in sorte alla terra.

Non aveva le ali, ecco il guaio. Ma è forse necessario avere le ali, per essere angeli? E non sarebbe per avventura un guaio più grosso? come a dire una gran tentazione a volar via da questo mondo gramo?

V

Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a due amici di trovarsi in Purgatorio.

La collina di Albaro è la più bella collina che Domineddio abbia posto accanto ad una città, se pure non è meglio dire che Genova è l'unica città la quale sia stata posta accanto ad una così bella collina.

Genova, come tutti sanno, è edificata sulla spiaggia del mare, nel fondo di un golfo e alle falde di un contrafforte degli Appennini, che agli occhi del riguardante offre sembianza di anfiteatro, ed è, topograficamente parlando, un vasto triangolo inclinato, la base del quale è addossata al mare, e i lati, costretti fra due vallate naturali, salgono al vertice, che per una cresta si ricongiunge alle montagne vicine, sproni, o contrafforti che vogliam dire, dell'Appennino ligustico.

In quelle due vallate scorrono due torrenti, i quali non se l'avranno a male se li accuseremo di portare assai meno acqua che non consenta l'onorata ampiezza dei loro alvei la Polcevera a ponente, e il Bisagno a levante. La collina di Albaro è di là dal Bisagno, che essa accompagna in linea parallela fino alla foce.

Di che alberi era piantata nei tempi antichi la collina d'Albaro? Grave questione, ma fortunatamente oziosa. Oggi è piantata di palazzi, e un albero si paga tant'oro, a volerlo naturale. I pochissimi che vi sono, stanno colà soltanto per fare uffizio di cornice ai palazzi sullodati, tra i quali primeggia per bellezza il __Paradiso__, e per memoria quell'altro che diede albergo all'autore di __Don Giovanni__, della __Parisina__ e del __Lara__.

Un nostro faceto amico, in una sua storia inedita della collina d'Albaro, deriva i tre nomi che la dividono, da tre fratelli che la avevano avuta in retaggio da uno dei soliti Noè dell'antichità; i quali tre fratelli si chiamavano Luca, Martino e Francesco. C'è infatti un San Luca, un San Martino e un San Francesco d'Albaro. Quest'ultimo è il più meridionale di tutti; laonde voi, quando abbiate fatto dieci minuti di strada dopo il ponte della Pila, vi trovate alle falde della collina incerto tra due strade, come l'asino di Buridano tra due misure di fieno. La strada a sinistra risale dolcemente la collina a San Martino, e di là scende a Sturla, a Quarto, a Quinto, a Nervi, e giù, giù, fino in capo al mondo; quella a destra piega un tratto verso mezzogiorno, poi sale faticosamente la collina a San Francesco d'Albaro, per ridiscendere verso San Luca, e andarsi a ricongiungere con la sua sorella di sinistra.

Noi, con licenza dei lettori, non baderemo che a San Francesco d'Albaro, il quale, sempre topograficamente parlando, ci presenta ancora tre viottole, le quali corrono da settentrione a mezzogiorno, tutte perpendicolari alla via maggiore, che taglia la collina precisamente accanto alla villa del Paradiso. La seconda di queste viottole finisce come le altre ad un ciglione che sopraggiudica il mare; ma su questo ciglione essa ci ha il particolare ornamento dell'antica chiesuola di San Nazaro; chiesuola senza tetto e senza lastrico, non più destinata ad altro che a qualche sacrificio cruento. Ed anche questa destinazione arbitraria non doveva durare. Dopo il '60 la chiesuola è scomparsa, tramutandosi in una casa a parecchi quartieri, per uso e dilettazione estiva di villeggianti. Poesia delle rovine, addio; l'utilità ti soverchia. E infine, non ce ne addoloriamo oltre misura; l'istesso San Nazaro, che insieme col suo buon collega San Celso portò primo ai Genovesi il verbo dell'amore e della pace fraterna, non doveva essere troppo contento dei riti sanguinosi a cui le rovine della sua chiesuola erano state consacrate.

Il savio lettore ha già capito che questo era il luogo prefisso al duello del dottor Collini col marchese di Montalto. La posta delle due parti belligeranti era sul ripiano dinanzi alla chiesa; ma i padrini del Collini dovevano, come è già noto, aspettare quest'ultimo, mezz'ora prima, sotto la villa del Paradiso, per accompagnarlo poscia sul terreno.

Appunto in quel luogo la strada di San Francesco d'Albaro fa gomito, per dare agio ai carri e alle vetture d'inerpicarsi lassù. Epperò, sul ciglio della collina, dove fa capo quel giro tortuoso della salita, v'è una specie di terrazzo sporgente, il quale sopraggiudica la via sottoposta; e accanto al terrazzo una scaletta ripida, per comodo dei pedoni che vogliono prendere la scorciatoia.

Su questo terrazzo erano appostati alle quattro e mezzo del mattino tre uomini, Lorenzo Salvani, l'Assereto e il servo Michele. La vettura con la quale erano giunti, l'avevano mandata più innanzi.

Il cielo, ancora buio, stillava un po' di brina, od altro di consimile: l'aria, non ricordandosi più de' tepori del giorno innanzi, era gelida; e l'aspettare di quei tre sul terrazzo non poteva dirsi la cosa più allegra del mondo.

Lorenzo appariva tranquillo; solo l'amico Assereto si faceva lecito di scrollare il capo e di battere de' piedi sul terreno, in guisa da lasciar trapelare che non il freddo soltanto gli recasse molestia.

Così la intese il Salvani, perchè, dopo alquante battute di quella fatta, si voltò all'amico e gli disse:

– Diamine! che impazienza è la tua?..

– Di' piuttosto che disperazione; – soggiunse l'Assereto. Lorenzo non rispose altrimenti a quelle parole dell'amico che con un dispettoso crollar delle spalle.

– Sentimi, Lorenzo; – disse allora l'Assereto. – Io, già lo sai, ho accettato questa seccatura per te, non per altro riguardo al mondo. Ora ci ho in capo che questo signor Collini ce ne voglia fare una delle sue.

– Suvvia! – interruppe Lorenzo. – Tu l'hai sempre con lui, e questo non istà bene.

– Bravo! E tu vedi tutti gli uomini buoni, come un collegiale tutte le donne belle. Figliuolo mio, non si dànno di questi appuntamenti alla gente. Quando si è pronti a battersi, si dice ai padrini: venite a casa mia a svegliarmi. Quando se n'ha una voglia deliberata, si dice loro: dormite pure della grossa; io verrò a cercarvi a casa vostra. E in questo caso ci si arriva un'ora prima. Qui invece, che cosa avviene? Che si dà la posta a mezza strada, e si ritarda per giunta.

– Sia come tu vuoi; – rispose Lorenzo, – ma l'ora non è anche passata. D'altra parte, in questo negozio, siamo andati un po' tutti col capo nel sacco, senza consultare il lunario. Tu vedi che incomincia appena ad albeggiare. Gli avversarii non sono giunti ancora.

– Oh, in quanto a quelli, guardali là in capo alla strada.

– E chi ti dice che non sia invece la carrozza del Collini?

– Vuoi scommettere?

– No, Assereto; non scommetto mai. Spero che quella sia la carrozza del Collini, e non mi curo del rimanente.

– Ed io ti dico che sono gli altri.

– Vedremo.

– Sta bene, vedremo. Ma intanto, se egli non viene, che cosa si fa?

– E che cosa vorresti fare? – chiese Lorenzo. – Già, credilo, il Collini non istarà molto a giungere, e quasi mi pare di fargli villania a darti retta. Ma, dato e non concesso, come dici tu, con eleganza curiale, che egli non venisse, la cosa è chiara come un'operazione aritmetica. Si va sul terreno, e si fa testimonianza dell'accaduto.

– Profferendosi prima ai comandi della parte avversaria, – interruppe l'Assereto.

– S'intende; ma è anche debito di gentiluomini rifiutare la generosa offerta; e i poveri padrini di un vigliacco se le vanno a capo chino e con la coda tra le gambe, come cani bastonati.

– Convieni che sarebbe una brutta cosa…

– È verissimo; ma che vorresti tu farci? A certi malanni che capitano tra capo e collo non c'è rimedio che tenga. Ma ecco la carrozza che gira il gomito della salita.

– Ahimè! – esclamò l'Assereto. – Siccome io sono certo che ella porta nel suo grembo i nemici, come il famoso cavallo di Troia, ti propongo di ritirarci nella scaletta, perchè non ci abbiano a vedere in questa disgraziata postura.

– E che c'è di strano, – rispose Lorenzo, – che noi stiamo qui aspettando il Collini? Noi non dobbiamo rendere ad essi altro conto che di una assenza sul terreno, all'ora prefissa. Del resto, ci avranno già veduti. —

Intanto che questo dialogo si proseguiva tra i due, la carrozza, girato il gomito della strada, veniva al trotto verso il ciglio della collina. I due amici si fecero per moto naturale a guardarla, e per la portiera, che era aperta, videro il Montalto co' suoi padrini e il chirurgo.

Quei della vettura e quei della strada si scambiarono il saluto con molta freddezza. A Lorenzo il sorriso del marchese di Montalto parve altiero anzi che no. Tuttavia non volle dirne nulla all'Assereto, di cui temeva i commenti sarcastici. Ma all'Assereto non era sfuggito quel sorriso, e siccome egli nella furia del suo malumore non perdonava a nessuna cosa, si affrettò a dire:

– Hai veduto? Ci squadrano dal capo alle piante come bordaglia di strada. Ma riderà bene…

– Chi riderà l'ultimo! – gridò Lorenzo, levando le parole di bocca al compagno. – Hai ragione, Assereto. Ora usami questa cortesia, di aspettare un poco in santa pace. Sono le quattro e quaranta minuti, e il ritrovo davanti alla chiesa è fermo per le cinque. Il Collini non vorrà tardare più molto. Forse ha perduto tempo a trovar la carrozza. Aspettiamo dunque… fino a tanto che si può.

– In questo caso, ottimo Lorenzo, tu sveglierai me, quando l'eroe sarà giunto, o tu ti sarai stancato di attenderlo. —

Così parlò quella buona lana dell'Assereto, e ravvoltosi bene nel suo mantello si sdraiò sul sedile di lavagna che correva intorno ai murelli del terrazzo, cercando di pisolare un tantino.