Kitabı oku: «I rossi e i neri, vol. 2», sayfa 3
Daccanto a lei, Maddalena stava lavorando all'uncinetto certe maglie, che non sapremmo e che non mette conto descrivere; arnesi da salotto che si fanno per ingannare il tempo ed anco un tantino per impedire ai signori uomini di insudiciare colla manteca delle loro capigliature la spalliera di una poltrona, o d'un canapè. La Giulia, per contro, non faceva nulla, e da un'ora si andava dolendo di non aver portato nessun lavoruccio con sè.
– Cigàla, – disse ella finalmente, – aiutatemi a dipanare la lana di Ginevra.
– Eccomi pronto; – rispose il giovinotto, mettendo con bel garbo le palme a sostegno di una piccola matassa che gli andava sporgendo la Giulia; – ma vi annunzio che vi servirò molto male.
– Perchè? – disse ella di rimando. – Ogni cosa andrà pel suo verso, se starete attento.
– E lo potrò io? – dimandò con aria di candore il Cigàla.
Al candore risponde assai bene il rossore, e la marchesa Giulia arrossì tanto più facilmente, in quanto che la cosa tornava agevolissima a quel suo viso di Erigone.
– Oggi siete più galante del solito! – ripigliò la dama, provandosi a guardare in volto il suo faceto vicino.
– Lo credo io! – rispose il Cigàla, che non si lasciava mai cogliere disarmato. – Sono galante per due. In me parla il presente e l'assente.
– Che cosa mi dite voi ora? Vedete, non trovo più il bandolo.
– Io l'ho già perduto da un pezzo! – aggiunse sospirando il giovinotto.
– Parlate anche per l'assente?
– No, marchesa; qui parlo per me, solamente per me.
– Cigàla, io vo in collera! – interruppe Ginevra.
– E perchè, di grazia?
– Perchè voi dite a tutte le dame la medesima cosa; ed è male, assai male!
– Ma il peggio, signora, è più ancora del male, se ben ricordo gl'insegnamenti del mio maestro di grammatica. Ora il peggio si è che con tutte faccio fiasco egualmente.
– E perchè? non lo indovinate voi, il perchè? – soggiunse Ginevra, proseguendo la celia. – Perchè mirate a troppe. Ora voi non ignorate che cos'abbia sentenziato una nostra gentile antecessora, la contessa di Sciampagna. «Egli non si può amare più d'una donna ad un tempo».
– Verissimo, pel tempo d'allora; – rispose il Cigàla.
– Perchè d'allora, e non d'adesso? – chiese Maddalena.
– Perchè? È presto detto. Perchè una dama a quel tempo era costretta dalle leggi d'amore a non mandar disperato il cavaliere ch'ella avesse ricevuto in sua mercè, il cavaliere che portasse i suoi colori e facesse ogni maniera di prodezze per lei. Che fanno ora, con vostra licenza, le dame? C'incatenano colle loro lusinghe (lusinghe inconsapevoli, involontarie, s'intende) e poi, come fanciulli crudeli cogli animalucci che cascano sotto le loro mani innocenti, si pigliano spasso de' nostri dolori; ci piantano spille tra le unghie e la carne ci punzecchiano il cuore, come si adopera colle oche, per dilatar loro il fegato; ci mettono a rosolare sulla graticola e in fondo a tutto questo martirio non c'è nemmeno quella speranza del paradiso, che consolava gli antichi confessori della fede cristiana.
– Benissimo! – tartagliò il De' Carli.
– È pretta verità! – soggiunse il piccolo Riario, battendo del tacco sull'erba.
– Mi fate venir la pelle d'oca! – disse a sua volta ridendo la marchesa Ginevra.
– Ah, buon segno! – gridò con aria di trionfo il Cigàla. – Voi, almeno, sentireste pietà de' nostri tormenti. Ora, volete intorno a ciò il mio schietto parere? Io non voglio patire a questo modo; io sono un filosofo, non già un santo anacoreta che ami flagellarsi le carni, far penitenza de' suoi peccati e di quelli degli altri. Amo la donna in tutte le donne; piglio divotamente (e qui sta il mio pregio) tutto quello che esse non ricusano ad alcuno, voglio dire la vista delle loro bellezze, lo splendore delle loro grazie, i dolci sorrisi, le soavi parole, e ne compongo un elettuario, un brodo ristretto…
– Eravate galante, e diventate volgare! – esclamò Giulia, strappandogli la matassa dalle mani.
– Lasciatemi finire, signora! – ripigliò il Cigàla, trattenendo i pochi giri di lana che gli rimanevano sospesi tra il pollice e l'indice. – Ho detto e ripeto che ne compongo un elettuario, un brodo ristretto, che mi abbia a servire di viatico in questo deserto della vita. Il paragone è volgare, ma esprime il concetto; e il concetto non è volgare, finalmente! Amo in tutte le donne la donna; questo è l'essenziale. E ciò vale meglio che amarne una, una sola, e condannarsi a morire di rabbia. Che ne dici tu Aloise? —
La dimanda era rivolta al Montalto, che in quel frattempo s'era liberato dalle fabbricerie e tornava con lenti passi verso il crocchio delle signore.
– Io? – rispose il giovine, che aveva udito le ultime frasi del discorso di Cigàla. – Io dico che l'amore è la più trista delle umane passioni. —
Questo era l'atto di contrizione di un apostata che tornava alla fede!
Ma la vendetta della sdegnata divinità non si fece aspettare.
– Per chi non ama davvero, sì certo, – rispose asciuttamente Ginevra, senza alzare gli occhi verso di lui, in quella che spingeva la punta del suo ago da ricamo nei trafori del canavaccio.
Più acuto assai che non fosse l'ago da ricamo, giunse lo strale e si piantò nel cuore di Aloise. Egli ricevette il colpo senza badare a pararlo ne a renderlo; barcollò, e, per non far scorgere il suo turbamento, si lasciò andare su d'un sedile ch'era rimasto vuoto.
Ma il Cigàla, sempre armato di tutto punto, e destro schermidore in cosiffatte tenzoni (tanto più destro in quanto che non ci aveva malinconie dentro il cuore), fu pronto a rispondere.
– Questa sarebbe un'eccezione, signora, e noi parliamo sui generali.
– Rispondete anche pel signor di Montalto?
– S'egli lo permette, perchè no? —
Aloise, così messo al punto, accennò all'amico che proseguisse liberamente per tutti e due.
– Stando adunque sui generali, – disse il Cigàla, – io chiederò a voi, gentili signore, chi pensiate amar più fortemente, fra le donne e gli uomini.
– Ah, veramente, voi non volete più avere quest'altra matassa che io stavo slacciando per voi! – gridò la Monterosso in atto di minaccia.
– L'avrà un guindolo migliore; – rispose sospirando il Cigàla. – Ecco infatti un assente, che sarà lietissimo di pigliare il mio posto. —
L'arguta allusione del giovinotto accennava alla comparsa del Pietrasanta alle falde del prato. Poco dianzi s'era udito rumore d'una carrozza dall'altro lato del palazzo, ed era il __landau__ del nostro Eurialo, che veniva in traccia di Niso. Il Pietrasanta si avanzò spigliatamente sul prato, alla volta degli alberi, e col cappello tra mani, il sorriso sulle labbra, corse ad ossequiare la marchesa Ginevra e le altre due dame; dopo di che si volse a salutare i cavalieri, stringendo la mano ai più intrinseci, e da ultimo si sedette accanto ad Aloise, col quale già incominciava a barattare qualche parola, allorquando fu interrotto dalla marchesa Giulia.
– Siete venuto in buon punto, Pietrasanta, – ella diceva, – per aiutarmi a dipanare la lana di Ginevra. Il Cigàla ha ardito mettere in dubbio che le donne siano migliori degli uomini, e non mi farà più da guindolo.
– Crudelissimo Cigàla, ne fai di queste?
– Cioè a dire… – rispose il Cigàla, – io non ho messo in dubbio nulla; chiedevo mi si dicesse chi ami più fortemente, se l'uomo o la donna, e torno a chiederlo, checchè possiate infliggermi per penitenza, ingiustissima dama.
– Alzatevi intanto, e date il posto al Pietrasanta; – disse la Giulia.
– Signora, – soggiunse Enrico, in quella che poggiava amorevolmente le mani sulle spalle dell'amico, per trattenerlo sul sedile; – perdonate al Cigàla, e sarà la grazia maggiore che mi potrete concedere.
– Ma bene, ottimamente! – entrò a dire Ginevra. – Vedi Giulia, come sono galanti tra di loro, questi signori uomini.
– Perchè amano fortemente, marchesa! – gridò, con aria di trionfo, il Cigàla. – Questa cortesia di Enrico, che io non ho chiesta nè preparata, viene in aiuto alla mia tesi.
Ora io lo dimanderò alla signora Maddalena, che non mi ha ancora dato il suo voto di biasimo; chi ama più fortemente? gli uomini o le donne?
– E lo chiedete ancora? – rispose la soave Maddalena. – Le donne, a mio credere. E voi, seriamente, ardireste essere d'una contraria opinione?
– Pur troppo, signora, e non solo tengo che gli uomini amino più fortemente a gran pezza, ma aggiungo…
– Suvvia, non vi fermate a mezza strada! – disse Ginevra. – Dopo quello che avete già sentenziato, non ci può esser altro che rechi stupore a Maddalena.
– Or bene, aggiungo… Ma intendiamoci, lascio da parte le dame presenti! Aggiungo insomma che le donne amano poco, per non dir nulla, addirittura.
– È grossa! – esclamò la Giulia.
– E la sostengo, foss'anche grossa come il nostro pianeta! – disse di rimando l'oratore pessimista. – Le donne, generalmente parlando, sono egoiste. Amano, sì, non lo nego, ma anzitutto sè stesse. L'affetto di un uomo dice loro, in tutti i modi, una cosa sola: «siete bella!» Ecco perchè l'uomo che ama è ricambiato, e per che modo. Notate, io parlo delle migliori, di quelle che sono grate all'uomo un tantino di più che non allo specchio. Ma che cos'è poi questo loro ricambio di amore? È il superfluo dei loro pensieri, delle loro cure, e che non impedisce loro di contentare ogni loro capriccio, pari a quel superfluo che il Vangelo ci comanda di dare ai poveri, e che, levato di tasca, ci lascia ancor tanto da non patir difetto di nulla. Ora io lo chiedo a voi, gentilissime eccezioni; questo amare per una decima, anzi per una centesima parte della propria potenza spirituale, è egli amare davvero, o non piuttosto per celia?
– L'accusa è antica, – rispose placidamente Ginevra, – e tutte le donne che ci hanno preceduto sulla scena del mondo, l'hanno combattuta, risospingendola agli uomini. Io non mi gioverò di questo spediente; non negherò neppure che ci sia molto di vero in quello che dite. Ma non si meritano questo, e peggio, i signori uomini? Lascio, s'intende, da parte i presenti; – aggiunse ella sorridendo, per rendere la pariglia al Cigàla, che s'alzò a mezzo, per farle un inchino; – ma è certo che i signori uomini sanno molto bene volere, e punto punto guadagnare. Oggi, pur di vederci, si contentano di starci dinanzi in adorazione; domani vogliono già udirci a parlare, e d'una cosa soltanto; entrati a mala pena, e quasi sempre a caso, nella cerchia delle nostre consuetudini, s'atteggiano a conquistatori, e vogliono essere adorati a lor volta, o chiedono una confessione in premio d'un sacrifizio che non hanno fatto, ed anche qui vogliono essere adorati alle prime. Ricordate la sentenza, Cigàla; «il vero amante è sempre timido».
– È la contessa di Sciampagna che lo dice?
– Non so, ma ne ricordo bene un'altra delle sue: «chi non sa nascondere non sa amare».
– Signora, Lanfranco Cigàla, mio antenato, e trovatore di grido, lasciò scritto in una delle sue canzoni: «chi nasconde non fa veder nulla».
– È autentica la citazione?
– Poniamo che sia apocrifa; la sentenza rimane, e può valer quanto un'altra.
– A questi patti ve ne citerò una terza, che potete leggere nel codice d'amore: «L'indiscreto non sarà mai un amante fedele». Ma tornando alla vostra, vi dirò che una donna si avvede mai sempre dell'affetto di un uomo, anco se gelosamente custodito nel profondo del cuore. E così i signori uomini si contentassero a lasciare indovinare i loro pensieri, che n'avrebbero assai più vantaggio. —
Aloise, il quale era stato muto ad udire quella tenzone, respirò più liberamente all'ultima frase della marchesa Ginevra, che gli parve uno zuccherino per lui. Ma il Cigàla, che non poteva averci le ragioni di Aloise a contentarsi di quella chiusa, s'impuntò ancora a rispondere.
– Voi dunque, signora, non ammettete nessuna uguaglianza tra le donne e gli uomini? Voi sarete un cortèo di regine, e noi un branco di schiavi?
– E che altro vorreste essere? – dimandò Ginevra, con piglio di leggiadra alterezza. – Non vi basta di avere lo scettro per tutte l'altre cose della vita? Lasciate a noi il regno del cuore, questo povero regno, questo alveare che abbiamo fabbricato noi, api pazienti, colla nostra industria sottile, cavando la cera e il miele dal calice dei fiori. Ma sapete che se questo regno grazioso cadesse per avventura anch'esso in vostra balìa, ne fareste un bell'uso!
– Non io certamente, marchesa!
– Lasciamo da parte i presenti, uomo di corta memoria! Vi arrendete?
– A discrezione.
– Bene! la Corte vi rimanda assolto, ma non già in grazia vostra, sibbene di Lanfranco Cigàla, vostro antenato, e gentil trovatore, che avete citato, in vostra buon'ora, testè. E poichè parliamo di trovatori, chi di voi, signori, saprebbe raccontarci la vita di Goffredo Rudel, e di Percivalle Doria?
IV
Qui si racconta di Goffredo Rudel, come per amor si morisse.
Si ricordano i nostri lettori della visita che fece Aloise alla villa Vivaldi, allorquando l'amico Pietrasanta lo condusse a fare la prima passeggiata di convalescenza là dalla parte di Nervi? Se essi non hanno dimenticato quella gita campestre, rammenteranno ancora che, innanzi di uscir dalla villa, e quando il giardiniere aveva additato l'albo dei visitatori, Aloise di Montalto si era fatto sollecito a pigliar la matita, e, dopo avere rivolta un'occhiata d'intelligenza al compagno, aveva scritto sull'albo due strani nomi: __Goffredo Rudel__ e __Percivalle Doria__.
Di questa bizzarria il Pietrasanta aveva chiesta la ragione all'amico; e questi gli aveva risposto con un'altra, ripetendo una frase detta da Enrico al giardiniere, quando erano per rimettersi in carrozza: «i nostri noi viaggiano nel più stretto incognito».
Ma perchè, tra tanti nomi posticci che potevano venirgli in mente, egli era andato a cercar proprio que' due nomi storici? Perchè all'innamorato senza speranze pareva di scorgere una certa somiglianza tra la sua infelicità e quella famosa del poeta provenzale. Un trovatore, poi, ne tirava un altro, e tra i nomi di trovatori da poter mettere accanto al primo, gli era balenato alla fantasia quello di un genovese; però aveva aggiunto Percivalle Doria, come pseudonimo di Enrico Pietrasanta. Si noti che mezz'ora innanzi il giardiniere, conducendoli sotto l'albero di sughero, aveva accennato ad una Corte di amore; si aggiunga che Aloise, a que' tempi, secondo l'uso di tanti innamorati, leggeva assiduamente il Leopardi e il Petrarca. Ora, dal cenno del giardiniere e dai versi del Petrarca, ai trovatori, al Rudel, non c'era altro che un passo, e ad Aloise tornava in mente ciò che aveva scritto messer Francesco nel suo __Trionfo d'amore__.
Gianfrè Rudel, che usò la vela e il remo
A cercar la sua morte…
Dopo quel giorno, molte cose erano avvenute, ed Aloise era introdotto solennemente in casa Torre-Vivaldi. La sua prima visita alla marchesa, dopo ch'ella era in villeggiatura, gli aveva fatto ricordare, non senza un pochino di trepidanza, i due nomi scritti sul libro, e l'altro inciso sulla tavola di lavagna; ma s'era poscia raffidato nel pensiero che i primi dovessero rimanere ignorati, confusi com'erano tra tanti altri forestieri e visitatori d'ogni risma, e l'altro celato sotto il tappeto, che era sempre disteso sulla tavola di lavagna, in quelle ore che la marchesa usava passare in quel suo luogo prediletto.
Una volta aveva tremato davvero, ma non al tutto di sgomento. Egli era, con altri, vicino alla signora, e il discorso era per l'appunto caduto su quella rustica tavola, che il marchese Antoniotto avrebbe desiderato mutare in un'altra di marmo.
– No, essa m'è troppo cara così! – aveva esclamato la marchesa.
Ma il subitaneo timore e il dubbio dolcissimo di Aloise erano tosto svaniti. La marchesa, proseguendo, aveva narrato com'ella non volesse mutar nulla in quel luogo. La disposizione d'ogni cosa, la consuetudine di andarvi a passare le calde ore del giorno, il nome istesso di Corte d'amore, rimontavano alla sua bisavola, a quella «__celebrata – Per ingegno e beltà Tullia divina__» siccome l'avea cantata un poeta famoso del suo tempo. Agli orli di quella tavola si erano appoggiate le crespe rigonfie della sua veste di broccato; su quel piano s'era posato il suo ventaglio piumato, il suo occhialino, il suo libro; quella rozza lastra era sacra; sacri i rozzi sedili fatti di quel medesimo schisto nericcio, sorretti da scabri pilastrini; nient'altro di nuovo ci aveva da essere, salvo l'aggiunta dei sedili di maiolica, poichè i primi non sarebbero bastati alle geniali adunanze dei visitatori moderni.
Tornando ad Aloise, egli, poichè Ginevra niente aveva detto, o lontanamente accennato, s'era facilmente condotto a credere che non si fosse addata di nulla. E inoltre, come avrebbe ella potuto rintracciare in quei muti segni la mano di lui? Il giardiniere, nel quale s'era imbattuto due volte, non aveva mostrato di raffigurarlo; oltre di che, non avrebbe potuto affermare chi, dei tanti forestieri, avesse scritto que' nomi. E li aveva forse pur letti? In queste argomentazioni s'era chetata l'apprensione di Aloise, ed egli non ci pensava già più.
Ma bene, per contro, ci pensava Ginevra, come potrebbe dimostrarvi una lettera di lei alla Roche Huart, scritta ne' primi giorni del giugno, e già debitamente copiata da padre Bonaventura nel noto volume delle Opere di santo Agostino.
Volete leggerla? Tanto, per udire la continuazione dei lieti ragionari e la vita del trovatore Rudel, che qualcheduno si farà pure animo a raccontare, ci sarà sempre tempo, e noi, cronisti patentati, non ve ne faremo perdere neanche una sillaba.
È tempo, d'altra parte, che vi diciamo qualche cosa intorno al cuore della marchesa Ginevra, che fu una delle più notevoli donne della nostra generazione, in quella guisa che è una delle più importanti nel viluppo di questa veridica storia. Già minutamente ve l'abbiamo dipinta nella prima parte del libro, nè abbiamo tralasciato di accennarvi le egregie doti del suo intelletto; del cuore abbiamo detto soltanto che ancora non aveva dato segno di vita, così restando ella una donna della quale non si capiva un bel nulla. Tentiamo ora di capirne qualcosa; la lettera è qui:
«Sono finalmente nella mia tranquilla dimora di Quinto, dove mi è dato di respirare, di vivere. Sei mesi di agitazioni, di feste, di cure, di molestie parigine, non fanno anche a te, mia bellissima, desiderare la quiete della tua Bretagna? Le veglie, i teatri, le visite, le mille cure della città, opprimono me pure, m'infastidiscono per cinque o sei mesi colla monotona sequela dei loro trabalzamenti, e mi fanno parere cento volte più bella, più cara, questa mia vita campestre. Vivo in città, come il fiore nell'aria soffocata d'una stufa; qui torno all'aperto, dove il tepore è sano, dove la luce ravviva.
«Anche quassù s'alternano le visite e i passatempi; ma questi non sono comandati dalla consuetudine; la mia mente li trova e li varia a sua posta; quelle poi si ristringono a un picciol numero di famigliari, uomini sempre, e spesso adoratori molesti, ma sotto la comportabile maschera dell'ossequio, o della amicizia.
«Uomini! stirpe volgare, la cui ammirazione ti rimpicciolisce, il cui amore ti offende! Io non so intendere, per verità, come ci possano essere di così stolte donne, le quali commettano il cuore, la vita loro, al facile, insolente entusiasmo di un uomo. Or vedi che cosa avviene, sotto i nostri occhi, ogni giorno. Perchè una donna è giovane e bella (ardisco scrivere in tal guisa a te, mia bellissima, che m'hai guastata colle tue lodi e che solevi chiamarmi la tua __petite madone italienne__), si ascrivono a debito di ammirarla, di farle intendere in mille modi, non escluso quello della persecuzione, che ella ha l'altissimo onore di piacer loro non poco. Perchè questa donna ha un marito, tal volta severo e uggioso, tal altra maturo d'anni e logoro di cuore, eccoli tosto ad arrogarsi il diritto di amarla e di sperare che li ami. Questa è villania, insulto universale e continuo, che ognuna di noi è costretta a patire, e la più parte ne godono; tanto è vero che la servitù ci ha invilito lo spirito!
«Mi chiedi del Montalto, se continua a fare il malinconico. Sì, mia bellissima, continua, e va peggiorando; ma ti giuro che tutto ciò mi dispiace. Io lo stimavo assai più, allorquando, scrivendoti della mia prima comparsa di donna in questa società genovese, ti accennavo com'egli fosse il solo che non avesse cercato di farsi presentare a me, e in teatro, mentre tutti gli sguardi erano rivolti alla tua __petite madone italienne__, egli solo ostentasse di volger le spalle. Fui curiosa di conoscerlo, questo bizzarro giovinotto, del quale tutti erano, e sono ancora, invaghiti; e ciò forse ha potuto darti di me un concetto disforme dal vero. Egli è venuto, come sai, alla mia veglia annuale di congedo, e mio marito se n'è innamorato come tutti gli altri, egli che non va pazzo per alcuna cosa al mondo. Ma di lui ti ho già parlato a lungo, e di tutti i suoi amori colla politica: laonde non ti sarà difficile indovinare che la sua amicizia pel Montalto ha le sue radici nella ragion di Stato, che a noi donne mette i brividi addosso. Per fartela breve, il giovine amico è già venuto tre volte a Quinto, e mio marito vorrebbe vederlo ogni giorno. Intanto, sai che scoperta ho fatto io? Potrei dartela alle cento, alle mille, come madama Sevignè nella sua famosa lettera, che ci hanno fatta leggere tante volte in collegio, e tanto non la indovineresti. Figurati che quel suo contegno, quella sua arcana severità, nascondevano un antico affetto. E per chi? Per la madonnina italiana.
«Il primo giorno della mia villeggiatura, vado a salutare la Corte d'amore della marchesa Tullia, e quella tavola di lavagna che sai. Sull'orlo di quella tenera lastra di pietra che cosa trovo? Inciso il mio nome, __Ginevra__. Tutto ciò mi dà molto da fantasticare. Chi è stato? Vo a squadernare l'albo dei visitatori della villa. Son tutti nomi di Francesi, di Tedeschi, d'Inglesi, e di persone ignote. Ma l'incisore del mio nome, dico tra me, ha da essere uno del nostro ceto, e che mi conosca per bene. Ora io non so raccapezzarmi tra i nomi scritti nell'albo; due soli mi tengono dubbiosa, due nomi strani, due nomi d'antichi trovatori, Goffredo Rudel e Percivalle Doria. Piglio lingua dal giardiniere. Il brav'uomo si ricorda della venuta di due gran signori, giovani ambedue; l'uno pallido, biondo e svelto della persona, taciturno e infermiccio in apparenza; l'altro di capel bruno, spigliato nei modi, chiacchierino e sempre in moto. Sono certamente costoro che hanno lasciato quei due nomi nell'albo; il giardiniere ha notato che s'era negli ultimi giorni di febbraio, e sulla pagina c'è appunto scritta la data di quel mese. Essi visitarono la villa per ogni verso; ma, il biondo, che pareva stanco, non era andato più oltre della prateria, e, mentre il compagno scendeva nella grotta, era andato a sedersi presso la tavola di lavagna. Ci siamo, ho detto tra me; l'ignoto incisore è il giovine biondo.
«Ma ciò non bastava ancora; ho cavato le parole di bocca al Pietrasanta, l'amico inseparabile del Montalto, e lì, tra mille chiacchiere sbadatamente fatte, ho potuto sapere che egli era stato, in un tempo non molto lontano, a visitare la nostra villa. Non ho chiesto di più, per non metterlo in sospetto; ma il mio dubbio s'è fatto certezza; il tenue filo della mia logica mi ha guidato a questa scoperta: Aloise di Montalto aveva un segreto, e questo segreto lo ha confidato ad una tavola di lavagna, credendola muta. Ma oramai non parlano anche le tavole?
«Scriva a suo talento, il signorino: cada egli pure ed affoghi nella consuetudine di tutti gli uomini suoi pari. Ahimè, mia bellissima! non ci sono creature perfette quaggiù; salvo te, s'intende, salvo la prediletta, la lontana dagli occhi, ma non dal cuore di Ginevra.»
Di questa lettera, come dell'altre scritte prima e poi alla viscontessa di Roche Huart, come, a farla breve, di tutto ciò che pensasse la bella Ginevra, nulla poteva sapere Aloise. Però, argomenti il lettore come rimanesse sgomentito a quella improvvisa dimanda della marchesa, intorno ai due trovatori. Un fulmine, caduto a ciel sereno, non lo avrebbe scosso più forte. Per un tratto rimase muto; e fu ventura che altri parecchi gli fossero compagni, ai quali la domanda era rivolta come a lui; se no, impacciato come un pulcino nella stoppa, non avrebbe trovato niente da dire, e, quel che è peggio, il rossore lo avrebbe tradito.
Primo a rompere il silenzio fu il Cigàla, che rispose candidamente di non conoscere que' due personaggi. Il piccolo Riario fece una ugual confessione; altri due si strinsero nelle spalle; perfino il De' Carli tartagliò le sue quattro parole di scusa. Il Pietrasanta stette duro, come se la cosa non lo risguardasse punto, e se la cavò mandando una languida occhiata alla marchesa Giulia, che si fece tutta rossa nel volto. Ma i lettori non facciano sospetti temerarii; la marchesa arrossiva facilmente, perchè a ciò la traeva il suo color naturale.
Restava Aloise; ma, in quella che gli altri parlavano, il nostro giovine s'era fatto un cuor da leone. Non si diventa prodi, se non guardando in faccia il pericolo. Cotesto occorre in battaglia, e molti che leggono ne avranno fatto sperimento in sè stessi. Chinar la testa una volta al sibilar delle palle, conduce a chinarla per sempre; mettersi al riparo dietro un ciglione, persuade a non trarne più fuori la testa; e l'occasione, che potrebbe fare dell'uomo un eroe, la occasione se ne va, lasciando il soldato nella sua codarda postura.
Aloise aveva veduto il suo segreto scoperto; ma, tocco sul vivo, aveva pure considerata in un batter d'occhio la sua condizione disagiata, e fatto il proposito di uscirne. Però, a mala pena ebbe il marchese Onofrio tartagliate le sue scuse, volse lo sguardo animoso a Ginevra, e le disse:
– Orbene, se gli amici non la sanno, vedrò di raccontarvela io; ma quella soltanto di Goffredo Rudel, che l'altra del Doria non l'ho presente ora.
– Ci contenteremo di quella; – rispose Ginevra.
– Incomincio, dunque; ma badate, signora, che è lunga.
– Oh, non ve ne date pensiero; il tempo è tutto nostro.
– Aloise, – bisbigliò il Pietrasanta all'amico, – ero venuto per parlarti di un negozio…
– Me ne parlerai più tardi! – interruppe Aloise, con un accento che non isfuggì al fine udito della marchesa Ginevra.
E mentre tutta la nobile brigata si raccoglieva ad udirlo, Aloise, non senza arrossire un tantino, così incominciò la la narrazione:
– «Goffredo Rudel, signore di Blaia, è uno dei primi trovatori di cui facciano menzione le cronache di Linguadoca. Da giovine, amò, o credette di amare, una Guglielmetta di Benagues, viscontessa guascona, la quale doveva essere una gran lusinghiera, e amica del numero tre, poichè le piaceva tenere a bada, nel medesimo tempo, lui Goffredo, Elia Rudel suo cugino, e Savary di Mal Leone.»
– Povera viscontessa! – interruppe Giulia. – Non sareste per caso un po' crudele con lei?
– No, marchesa, imparziale. «Narra la storia che in una conversazione tra la dama e i tre gentiluomini anzidetti, ella sapesse diportarsi per modo che ognuno di loro, uscendo di là, si tenne il prediletto di lei. Infatti, venuti a disputa, si chiarì che a Goffredo avea data una dolcissima occhiata; ad Elia una eloquentissima stretta di mano; a Savary aveva premuto il piede, sotto la tavola. Così narra Nostradamus, ed io lo ripeto, per dimostrarvi in che guisa Goffredo Rudel si allontanasse da lei. Per ventura, quell'amore del giovine per la Guascona, era un capriccio, uno scherzo, non già un affetto profondo…»
– Non amano tutti ad un modo i signori uomini? – chiese argutamente Ginevra.
– La storia di Goffredo Rudel vi dimostrerà il contrario; – soggiunse Aloise, – ed io vado innanzi senza paura. «Fatto esperto da quel primo disinganno, Goffredo Rudel non volle metter più la sua fede fuorchè in nobili cuori. Ora i nobili cuori erano rari al suo tempo tra le donne, e per lunga pezza il signore di Blaia visse soltanto per l'amicizia, nè altro ebbe a celebrare ne' suoi versi che questa. Il signore d'Agoult era l'amico suo, e il castello dell'amico lo trattenne a lungo tra le sue mura ospitali. Ma giunge in Provenza il conte Goffredo Plantageneto, fratello a Riccardo Cuor di leone, re d'Inghilterra, e nella breve dimora fatta al castello di Agoult, s'innamora cosiffattamente del gentile poeta, che lo vuole con sè alla corte d'Inghilterra. Il trovatore si schermisce; ma il signore d'Agoult, liberale com'era, nè volendo rimandare scontento un così potente barone, prega a sua volta l'amico di cedere allo invito del conte Goffredo. Ed ecco i due Goffredi, il principe e il trovatore, in viaggio, alla volta d'Albione.»
– Dell'__avara Albione__! – tartagliò il De' Carli.
– Ma non avara di lusinghe pel nostro provenzale; – soggiunse il Cigàla. – Egli certamente avrà fatto dar volta al cervello di molte __ladies__!
– Può darsi; – soggiunse, continuando, Aloise: – «Quel che avvenisse alle dame inglesi non so; ma posso starvi pagatore che Goffredo Rudel non n'ebbe il cuore commosso, e in quella vece s'accese del più gagliardo affetto che uomo sentisse mai, per una donna la quale egli non aveva mai vista, per la contessa di Tripoli, la quale viveva nella sua corte, sulle spiagge di Soria. Innamorarsi di veduta, è cosa agevole e naturale; innamorarsi d'udita, è cosa strana, che molti stenterebbero a credere. Ma che volete? Udendo dai pellegrini, che tornavano da Terrasanta, narrare i pregi della contessa, celebrare la prestanza delle forme, la soavità dei modi, l'ingegno acuto, e virtù d'ogni maniera che la facevano superiore all'altre dame del suo tempo, il povero trovatore tanto se ne invaghì, che non ebbe più pace. E certo quel suo insolito e strano amore diventava la favola di tutta la corte d'Inghilterra, se le canzoni che egli scriveva in lode della lontana sua dama, della sconosciuta beltà, destando l'ammirazione universale, non avessero fatto tacere il sarcasmo.»
– Voi pure ammettete, – interruppe Ginevra, – che fosse strano non poco, questo amore d'udita?
– Non lo nego; sebbene, a que' tempi, la cosa poteva parere meno bizzarra. Le cronache provenzali ci hanno conservata una tenzone tra due poeti, Gerardo e Peronetto, intorno alla quistione, chi più ami la sua dama, se il presente o l'assente, e chi più possente amore introduca, o il cuore o gli occhi.