Kitabı oku: «I rossi e i neri, vol. 2», sayfa 4
– Questione difficile! – notò il Pietrasanta. – Che ne pensate voi, signora?
– Io tengo per gli occhi; – rispose arrossendo la Giulia, a cui la dimanda era rivolta.
– E voi? – chiese il Cigàla, alla Torralba.
– Pel cuore; – rispose la soave Maddalena.
– Ed io per tutti e due! – sbruffò il lezioso De' Carli.
– Ma come fu sciolta la questione, allora? – chiese Ginevra, per dar la parola di bel nuovo al narratore.
– Non saprei dirvelo. Le cronache raccontano che fu portata innanzi alla corte d'amore di Pierafuoco e di Signa; ma non ci recano la sentenza che ne fu data. So bensì che in quella tenzone poetica, tra molte buone ragioni ed esempi per l'una parte e per l'altra, c'era una strofa che vi traduco così: «Tutti gli uomini di perfetto giudizio conoscono molto bene che il cuore ha signoria sopra gli occhi, e che gli occhi non servono punto nelle cose d'amore, se il cuore non acconsente; laddove, senza gli occhi, il cuore può francamente amare una cosa che giammai non abbia veduta, siccome avvenne al signore di Blaia.»
– L'esempio non scioglie la questione! – disse Ginevra.
– È un circolo vizioso! – aggiunse il De' Carli.
– Ma via, – ripigliò la marchesa, – continuate la vostra storia, signor Aloise, e perdonate le interruzioni troppo frequenti a un uditorio curioso ed attento.
– «Infiammato sempre più dal desiderio di veder la contessa, Goffredo deliberò di andarsene pellegrino in Terrasanta. Un suo dilettissimo, anch'egli buon trovatore, Bertrando di Alamannone, fu pronto, come suol dirsi, a tenergli bordone, e ambedue fecero il disegno d'imbarcarsi a quella volta. Doleva di quella partenza al Plantageneto, che usò d'ogni suo potere per distogliere il suo protetto da quel faticoso viaggio. Ma nulla valse; e finalmente, ottenuta licenza dal conte, il Rudel monta in nave coll'amico. Eccoli in viaggio, alla scoperta dell'ignota bellezza. Il vento fischia nel sartiame; la tempesta assale il naviglio; il masso di Gibilterra torreggia spaventoso frammezzo alle brume; Goffredo Rudel non ode il fischio del vento; non bada ai marosi che invadono la coperta, e canta dolcemente d'amore. Udite la canzone ch'egli ha composto nel tragitto, temendo di non poter subito parlare alla contessa, anzi d'aversene a tornare con suo estremo dolore, dopo un sì lungo e pericoloso viaggio:
Irat et dolent m'en partray.
S'yeu no vey est amour deluench
Et ne say qu' ouras la veyray,
Car son trop nostras terras luench.
«Ma scusate; senza badarvi, la recitavo nel testo provenzale, non rammentando che l'avevo tradotta.
«Corrucciato, dolente, io partirò,
Se pria non vegga l'amor mio lontano,
E non so quando mai lo rivedrò,
Chè nostre terre son troppo lontano!
«Quel Dio che quanto viene e va creò,
Che vita diede a quest'amor lontano,
Mi dia conforto al cor, perchè pur ho
Speranza di vederti, amor lontano!
«Signor, per vero e per leale io dò
L'amor che porto a lei, così lontano:
Giacchè per un sol gaudio che n'avrò,
N'ho mille affanni, tanto son lontano!
«Già d'altri amori ormai non gioirò,
Se di te non gioisco, amor lontano;
Chè donna pia leggiadra esser non so,
In alcun luogo, prossimo, o lontano!
«L'amore è stato paragonato ad una lama che, troppo a lungo rinchiusa, irrugginisce e corrode la guaina. Al misero Goffredo, quell'amore fortissimo per una donna ignota, compresso per così lunga stagione nel profondo del cuore, aveva turbate, distrutte, le fonti della vita. I venti contrarii, le stazioni forzate nei porti del Mediterraneo, tutto concorreva ad accrescere i disagi del tragitto; laonde il desiderio di giungere si tramutò in febbre, e colla febbre si svolsero in breve ora i segni dell'interno struggimento di quelle membra affralite. La nave non aveva anche oltrepassata la punta estrema di Sicilia, che già l'infermo non era più in grado di muoversi dal suo giaciglio, e i governatori del legno pensavano di averlo tra pochi giorni a seppellire nei gorghi del mare.
« – Almeno vivessi io tanto da vederla una volta! – andava ripetendo l'infermo al cortese amico, che passava i giorni e le notti al suo fianco, studiandosi di consolarlo. Veder la contessa e poi morire, era il suo pensiero assiduo, incessante, e, diremo anzi, la sua agonìa.
«La nave giunse finalmente nelle acque di Soria, in vista di Tripoli. Trascinatosi a stento sul cassero di poppa, Goffredo Rudel salutò le bianche torri della sospirata città, che parevano accostarsi a lui sulla liquida superficie, e non volle smuoversi da quella contemplazione fuorchè per scendere a riva. Ma un tanto sforzo lo aveva stremato; e quando, a gran fatica di braccia amorevoli, calato in uno schifo, fu condotto a terra più morto che vivo, parve necessario portarlo immantinente allo spedale dei pellegrini, dove si credette che in quella notte medesima dovesse render l'anima a Dio.
– Poveretto! – esclamò la pietosa Torralba.
– «In tali distrette – proseguì Aloise – Bertrando di Alamannone fu sollecito a recarsi presso il conte di Tripoli. Ma il conte Raimondo non era in città, sibbene ai confini della sua vasta contea, per abboccarsi con un messaggero del Saladino, al quale egli, cristiano, doveva più tardi riuscire di così valido aiuto nella conquista di Gerusalemme. Vide in quella vece la contessa e n'ebbe le più oneste accoglienze che sperar si potesse. E allorquando egli ebbe detto a quella nobile dama com'egli fosse giunto in compagnia del signore di Blaia, la cui fama era pervenuta fino a lei, insieme coi suoi versi d'amore per essa (perchè allora le canzoni dei trovatori correvano il mondo, in quella stessa guisa che oggidì corrono i libri dei più famosi scrittori) e come il gentil trovatore fosse ridotto in fin di vita, ella fu presa da così forte turbamento che la costrinse a sorreggersi sulle braccia delle sue ancelle, per non cadere come corpo morto sul pavimento.
«La donna che sa d'essere amata, è facilmente pietosa (almeno così dicono): e la contessa di Tripoli sentiva nei canti celebrati di Goffredo Rudel e nella fama che del suo affetto correva da più anni in Europa e sulle spiaggie di Palestina, di essere la più amata tra tutte le donne della cristianità. Epperò, tornata in sè stessa, non volle mettere indugio a vedere il morente, e corse, volò, in compagnia di Bertrando, allo spedale dei pellegrini.
«Allorquando dalle labbra dell'amico, che era corso innanzi, udì Goffredo che la sospirata donna gli era già tanto vicina, non seppe resistere a quella grande allegrezza, e uscì per tal modo fuori de' sensi, che fu da Bertrando creduto morto senz'altro.
« – Ahimè, – gridò la contessa di Tripoli, entrando nella cameretta e vedendo quella pallida fronte supina sul capezzale – che questa mia infausta bellezza ha ucciso il più gentil cavaliere che al mondo fosse! —
«E corsa alla sponda del letto, ov'egli giaceva, strinse quella mano che pendeva prosciolta sul ruvido copertoio, e recatasela alle labbra, la baciò amorosamente più volte.
«Al tocco di quelle labbra, tornò in sensi, riaperse gli occhi il moribondo, e vide finalmente, ahi troppo tardi! quella immagine divina. Un'aria di supremo contento gli si diffuse sul volto; la sua mano strinse dolcemente quella di lei; i suoi occhi si affisarono estatici sul bianco viso, sul collo, sugli omeri, e sulla persona tutta quanta di quella gentile, quasi non volessero perdere un lineamento, un contorno, di tanta bellezza. Così guardandola, e palpitando, raggiando verso di lei con tutte le forze stremate dell'anima sua, notò Goffredo le lagrime che le sgorgavano copiose dagli occhi.
« – Madonna, – diss'egli allora, con un filo di voce, e traendo a sè, come gli veniva fatto, quella maravigliosa persona, – qui, qui, presso a me, ve ne prego, che quelle dolcissime lagrime non vadano perdute!
« – State di buon animo, messere! – soggiunse ella, accostando la sua alla faccia di Goffredo, per modo che i suoi capelli ricadenti gli sfiorarono le guance e l'alito della sua bocca scese come una divina ambrosia a rinfrescargli le labbra; – Voi risanerete, e la nostra corte udrà ammirata i nuovi versi di un sì gentil trovatore. —
«A queste parole della contessa di Tripoli, Goffredo crollò malinconicamente la testa sull'origliere.
« – No, madonna, – ripigliò; – io mi sento morire. Solo la speranza di vedervi una volta, mi ha serbato questo soffio di vita. Addio, madonna; io non mi dolgo ora della morte, ora che vi ho veduta. Il mio labbro ha bevute le vostre lagrime; il mio cuore le porterà nella tomba. —
«Furono le ultime parole di Goffredo Rudel, che poco stante, felicissimo nella morte, com'era stato infelicissimo in vita, esalava lo spirito tra le braccia della donna adorata. La quale compose la salma di lui in una ricca ed onorevole sepoltura di porfido, su cui fece intagliare alcuni versi in lingua arabica, a ricordo di un così grande amatore.
«E i versi tutti che Goffredo Rudel aveva composti in lode di lei, fece trascrivere in lettere d'oro e serbò gelosamente con sè. Ma, da quel giorno, mai più la contessa di Tripoli fu veduta con faccia lieta. Visse ancora, ma soltanto per ricordare quel giorno, quell'ora, in cui avea conosciuto, e perduto ad un tempo, il signore di Blaia.
«Il codice dei trovatori che si conserva a Roma, nella biblioteca Vaticana, racconta che la contessa di Tripoli, come potè farlo liberamente, si chiuse in un monastero. Tutti gli altri cronisti narrano che non tardasse molto a seguir nella tomba l'uomo che era morto d'amore per lei.»
V
L'uomo propone e la donna dispone.
Così finì il racconto di Aloise di Montalto, che, interrotto sul principio dalle gaie considerazioni della brigata, fu poscia, a mano a mano che si avvicinava alla catastrofe, ascoltato con molto raccoglimento da tutti, segnatamente dalle tre dame.
– Se amassero tutti come Goffredo Rudel! – disse la bianca Maddalena. – Ma, pur troppo, nella vita comune non sarà così; e il suo caso…
– Il suo caso prova, – interruppe prontamente Aloise, – che gli uomini non sono poi così brutti come le signore donne li dipingono.
– Non lo nego, – rispose la marchesa Maddalena, – ma il caso è tuttavia dei più strani. —
Aloise si preparava a rispondere; ma Ginevra, accennando col gesto di voler parlare, gli ruppe il filo delle sue argomentazioni.
– Io qui non sono dalla tua; – disse Ginevra. – Io so di un caso anche più strano. —
E così dicendo, ella aveva volto lo sguardo ad Aloise.
– E quale? – dimandò egli.
– Quello del signor Aloise, che sa così bene la storia di Goffredo Rudel, da raccontarcela con tanti particolari, e ricorda i suoi versi provenzali e li ha tradotti per giunta. Sareste per caso un dilettante d'anticaglie?
– Un pochino, signora; – rispose il giovine, cercando di vincere il suo turbamento. – Son sempre vissuto volentieri coi vecchi libri, e se la storia che ne ho cavata non v'è riuscita spiacevole…
– Che dite voi mai? C'è andata anzi a genio, e ve ne siamo gratissime. Peccato che non sappiate anche quella di Percivalle Doria, che vi pregheremmo di raccontarcela adesso. Ho letto questi due nomi in un libro francese, – soggiunse ella, a mo' di parentesi, – e m'era venuta la curiosità di sapere chi fossero. Il secondo, a giudicarne dal nome, dovrebbe essere un genovese. Spero che voi, così dotto nella materia, vorrete cercarne sui libri, e narrarci di quest'altro tra breve.
– Anche domani! – rispose Aloise. – Questa sera medesima andrò a scartabellare i miei vecchi amici.
– Non tanta fretta! – esclamò Ginevra. – Noi leggeremo stasera, se vi piacerà rimanere, quel proverbio di Alfredo de Musset che dicevamo ieri, e che reciteremo sul nostro teatrino rustico, all'aria aperta. Non volete voi che vi diamo una parte? —
A quel cortese invito di Ginevra, la gioia balenò sugli occhi del giovine. Ma tremò in cuor suo l'amico Pietrasanta, a cui la lettera di Lorenzo Salvani bruciava, stiam per dire, nella tasca della giacca.
Come vengono le inspirazioni? Gli antichi, per cavarsela dai viluppi psicologici, le facevano discendere senz'altro dal cielo. Per non metterci a nostra volta nel ginepraio, le deriveremo anche noi di lassù, raccontando che dal cielo venne una ispirazione ad Enrico Pietrasanta; sebbene egli, facendo l'atto di grattarsi una certa protuberanza dietro l'orecchio, dimostrasse che gli veniva dal cervello, posto in quel momento a tortura.
– Voi dicevate dunque, o signora, – entrò egli a dire sollecito, – che vi piacerebbe sapere la vita e i miracoli di Percivalle Doria?
– Sì, per l'appunto, la vita… e i miracoli, se pure ne ha fatti; – rispose sorridendo la marchesa.
– Oh, ne ha fatti, ne ha fatti! – soggiunse il Pietrasanta, colla deliberata prontezza di un uomo che, dovendo affrontare un pericolo, si butta disperato innanzi, per non rimanere più oltre perplesso.
– E li sapete voi?
– Da capo a fondo.
– E perchè non dircelo subito?
– Perchè… perchè volevo anzitutto raccapezzarmi… Ho letto anch'io la mia parte di libri vecchi.
– Benissimo! – saltò su a dire il Cigàla. – Anche a te, Pietrasanta, s'è dischiusa la vena?
– Sicuro, e perchè no? Certo, non racconterò così bene come il mio amico Aloise; ma ognuno fa quel che può, e in fin de' conti, meglio poco e male, che nulla.
– Sentiamola, – disse Ginevra, – sentiamola dunque, la vostra storia!
– La mia, signora?
– Sì, quella che sapete voi. Ho detto forse male?
– Tolga il cielo che io voglia correggervi! – rispose Enrico, che pure avea sentita la botta, e l'aveva per tale. – Voi ci avete le labbra d'oro!
Questa volta fu Ginevra che s'inchinò, per ringraziar l'oratore.
– I complimenti del nostro amico Pietrasanta, – ella soggiunse, – ci fanno pensare che udremo un'altra storia da mandar superbo il nostro sesso.
– Oh no, signora, no!
– Come, no! – interruppe la Giulia. – E avreste allora il coraggio di raccontarla?
– Certamente! Le storie si seguono, e non si rassomigliano. Quella di Aloise incominciava coll'amicizia, e finì coll'amore. La mia rimane da capo a fondo fedele alla amicizia. Io non posso già inventare di pianta! Questa è storia perfetta, la storia, che è donna, non fa complimenti mai, nè a donne, perchè eguale, nè ad uomini, perchè superiore.
– Via, consoliamoci! – disse Ginevra. – Questo almeno è uno zuccherino per noi.
– Voi lo vedete; – ripigliò il Pietrasanta, – finora la storia non è cominciata, e son io che parlo. Ma torniamo al fatto; che cos'è poi l'amicizia? L'amore senz'ali.
– Perciò rade la terra! – notò asciuttamente la Giulia.
– Ma almeno non vola via; – disse Enrico di rimando.
– Ben parata! – esclamò il Cigàla, a cui quelle scherme piacevano; – che ne dite, signora?
– Dico, signor Cigàla, che udremo di belle cose, in verità! – rispose la Giulia, fingendo lo sdegno. – Ma via, signor Pietrasanta, raccontate la storia del vostro Percivalle; la Corte d'amore, qui sedente, vi giudicherà. —
Così posto alle strette, Enrico incominciò il suo racconto ai maravigliati uditori. Ma la più gran meraviglia era quella di Aloise, il quale ben sapeva come il Medio Evo non fosse il forte dell'amico Pietrasanta. Che diamine racconterà egli? chiedeva Aloise tra sè. Certo, Enrico ha le sue gravi ragioni, per mettersi in questo garbuglio!
Frattanto, come abbiam detto, Enrico Pietrasanta prendeva il largo.
– Percivalle Doria, – incominciò egli, – fu buon poeta provenzale, come i suoi due concittadini Lanfranco Cigàla e Folchetto, che molti s'ostinano, contro l'autorità del Petrarca, a reputar marsigliese. Io spero che la gravità di questo esordio mi concilierà l'attenzione della nobilissima udienza.
– Contaci su! – rispose il Cigàla, discendente di Lanfranco.
– Grazie! – ripigliò il Pietrasanta. – Ora, perchè il mio eroe si allontanasse da casa e di cittadino genovese diventasse trovator provenzale, non saprei raccontarvi. Ben so che uscì giovanissimo dalla terra natale, e andò alla corte del re di Francia, Odoacre… cioè, Faramondo… anzi no. Luigi Filippo… Insomma, il nome non mette conto saperlo.
– Lasciamo stare il nome del re; – disse Ginevra ridendo, – ma almeno diteci il secolo, per non farci correre su e giù, quanto è lunga, la storia di Francia.
– Il secolo, signora? Avete ragione! Percivalle Doria fiorì (notate la bellezza del verbo) nel secolo decimoterzo, o giù di lì.
– Sta bene; e adesso, proseguite!
– Proseguo. Percivalle Doria era alla corte del re di Francia…
– Odoacre! – notò sarcasticamente la marchesa Giulia.
– No, Alboino! – rispose il Pietrasanta, sul medesimo tono. – Adesso me ne ricordo; era proprio Alboino. Or bene, il mio Percivalle era un fior di cavaliere, sebbene non credesse all'amore, nè ad altre cose parecchie.
– Era un miscredente, adunque? – dimandò Ginevra.
– No: era un uomo che conosceva il mondò e amava la vita, senza concederle una soverchia importanza. E non istate a credere che avesse patito gravi disinganni, perchè era giovine, e la fortuna gli era sempre stata propizia. Ma egli, più felice di tanti e tanti, i quali non acquistano l'esperienza delle cose umane se non a proprie spese, l'aveva acquistata alle spese altrui, vedendo ciò che agli altri accadeva, e facendone tesoro per sè.
– Come può esser ciò? – chiese a sua, volta la Torralba.
– Non saprei, signora, darvene una spiegazione plausibile, se non col dirvi che nella grande famiglia umana ci sono i caratteri privilegiati, i quali imparano nelle miserie altrui a cansare per se medesimi i dolori della vita.
– Privilegiati! – soggiunse la marchesa Ginevra. – Dite piuttosto senza cuore.
– Oh, vedrete se non ci avesse cuore, il mio Percivalle! – disse di rimando il Pietrasanta. – Egli era, ripeto, alla corte d'Alboino, dove gli avvenne di stringersi in salda amicizia con messere Alardo di Anglona gran siniscalco del re; il quale messer Alardo, a sua volta, era amicissimo di un povero ma gentil cavalier normanno, chiamato Laurent di Sauvaine.
– Erano in tre! – disse il piccolo Riario.
– __Omne trinum est perfectum!__ – rispose, senza turbarsi, il Pietrasanta. – Ora udite che cosa avvenisse al povero Laurent di Sauvaine. A cagione di un suo alterco con un possente barone, egli era tenuto lontano dalla corte, Messere Alardo, in quella vece, ci viveva da mattina a sera, e per ragione dell'ufficio suo, e per altro ancora, che gli faceva dimenticare ogni altra cosa che al mondo fosse. Notate, nobilissime dame, come parlo anch'io in pretta lingua del Trecento! Ora, poichè Laurent di Sauvaine, lontano dagli occhi, era anche lontano dal cuore di Alardo d'Anglona, il trovatore, che li aveva in gran pregio ambedue, e si doleva di questa dimenticanza di Alardo, scrisse una canzone bellissima, che io pur troppo non rammento in provenzale, e che in italiano non ho saputo voltare, nella quale erano fortemente biasimati coloro che dimenticano gli amici, poichè l'amicizia, com'è superiore alle mondane ambizioni, così deve essere superiore all'amore.
– In verità, – interruppe la marchesa Giulia, – era poco galante, il vostro Percivalle, e voi, signor Pietrasanta, non siete da meno di lui.
– Badate; – aggiunse Ginevra, – se andate innanzi di questa guisa, non vi daremo più ascolto.
– Lo volesse il cielo! – disse in cuor suo il narratore impacciato, che le buttava fuori a bella posta, quelle massime, tanto per essere interrotto e guadagnar tempo alle sue faticose invenzioni.
– Questa non sarebbe giustizia; – rispose egli poscia ad alta voce, – e voi non vorrete dannarmi prima che sia finita la storia. Ora la mia storia dice che Alboino… cioè, messere Alardo d'Anglona… anzi, no, volevo dire Laurent di Sauvaine, fosse stato colto ad un agguato tesogli dal suo nemico e chiuso per comando di questi in un carcere donde non avrebbe potuto toglierlo se non un altro e più possente barone, come il signore d'Anglona. Ma il siniscalco, già ve lo dissi, non pensava all'amico Sauvaine, e questi sarebbe rimasto anco un mese senza comparirgli dinanzi, che egli, immerso com'era nelle delizie della corte, non si sarebbe pur ricordato di lui, non avrebbe pur chiesto a sè stesso: che diamine è egli avvenuto del nostro Sauvaine? Per fortuna, Percivalle vegliava, e saputo del caso del cavaliere di Sauvaine, n'andò da messere Alardo, il quale stava appunto allora architettando un torneo, per far cosa grata alla regina…
– Rosmunda! – saltò su a gridare, non senza sbruffi, il marchese Tartaglia.
– Ah! l'avete pigliato proprio sul serio, il mio Alboino? – chiese il Pietrasanta, voltandosi all'interruttore. – Orbene, sì, Rosmunda, figlia di Cunimondo, re del Belgio, la quale poi volle un mal di morte a Percivalle Doria, per averle guastata la festa, e fu cagione che re Alboino lo cacciasse dalla sua corte.»
– Ma che cosa aveva egli fatto, il vostro Percivalle? – dimandò Ginevra.
– Ecco! La corte era adunata e il siniscalco era tutto in faccende. Il trovatore lo tira in disparte e gli dice: messere, l'amico Sauvaine ha bisogno di voi, e subito subito. – O come? Ed io che non posso muovermi! Il re, la regina… – Non c'è re, nè regine, che tengano; l'amico ha bisogno d'aiuto; ponete che sia in fin di vita; lo abbandonereste voi? – A Dio non piaccia… – Orbene, gli è appunto il caso; partiamo, e si dimostri per voi che l'amicizia non è un nome vano. Il siniscalco, cedendo alle istanze di Percivalle Doria, andò con esso lui, e fu tratto il cavaliere di Sauvaine dall'unghie del suo mortale nemico. Ma la corte era rimasta senza il siniscalco; il torneo non fu fatto; la regina si dolse; Alboino strepitò, e il povero trovatore, che aveva turbato le gioie della corte, fu mandato con Dio, senza la croce d'un quattrino; contento tuttavia, nel profondo del cuore, di aver fatto sì che l'amico non fallisse all'amico. __Amen.__
– E finisce qui? – dimandò maliziosamente Ginevra, alla cui perspicacia non era sfuggita la titubanza del narratore, nè certe occhiate ch'egli andava tratto tratto gettando, a mo' di chiosa, all'amico Aloise.
– Finisce qui, marchesa; – rispose Enrico.
– Non mi piace.
– Pure, è storia pretta.
– Mi date licenza di non crederlo?
– Questa ed ogni altra che vi piaccia di ottenere, o di prendervi; ma, per non aggiustar fede ad una storia, bisogna averci le sue brave ragioni. E fino a tanto non venga fuori una storia più autorevole della mia, non mi darò certamente per vinto.
– Qual è l'autore che avete letto voi?
– Non lo ricordo.
– Ha da essere il… Pietrasanta! – disse, tra le risa di tutti gli astanti, la marchesa Ginevra.
– E per questo non v'è piaciuta la storia! – notò di rimando Enrico.
– Non mi fate dire ciò che neppure mi era passato per la fantasia; – soggiunse Ginevra; – ho detto soltanto che di voi, sviscerato campione dell'amicizia, non bisognava fidarsi.
– Mano agli altri autori, dunque, se li trovate!
– Oh non temete, li troverò. Venite qua, voi, Antoniotto! – proseguì la marchesa, volgendosi al marito, che s'innoltrava a lenti passi verso l'allegra brigata. – Avete qualche libro intorno ai poeti provenzali nella vostra biblioteca?
– Credo di sì; il Crescimbeni… Anzi, aspettate, ci ha da essere perfino un vecchio esemplare del… del… Aiutatemi a dire, Aloise!
– Intorno alle vite dei poeti provenzali ha scritto il Nostradamus; – rispose il Montalto.
– Sì, per l'appunto, un esemplare del Nostradamus. Volete che vada a cercarlo, Ginevra?
– Mi farete cosa gratissima.
– Spietata giudichessa! – esclamò con aria malinconica il Pietrasanta. – Voi mi volete morto, senz'altro?
– No, voglio la giustizia e nulla più. Anzi, perchè abbiate a riconoscere la nostra imparzialità, deleghiamo il vostro migliore amico ad accompagnare Antoniotto nelle sue ricerche in libreria. —
L'invito di Ginevra era accompagnato da un sorriso così lusinghiero, che Aloise, quantunque avesse capito il senso della storiella del Pietrasanta e gli premesse di rimaner solo due minuti con esso lui, fu pronto ad alzarsi e rispose all'amata:
– Grazie, signora; vado subito.
– Vado anch'io, se lo permettete… – soggiunse Enrico, che voleva ad ogni costo trovar l'occasione di tirare in disparte Aloise.
– No, Pietrasanta, la Corte non può concedervi tanto. Non siete voi l'accusato? E come abbiamo delegato il vostro amico per le indagini, così deleghiamo la nostra amica Giulia a tenervi in custodia.
– Ed ecco le catene! qua i polsi! – soggiunse la Giulia, mostrando una nuova matassa di lana.
Enrico Pietrasanta, che si era morso il labbro alle prime parole della marchesa Ginevra, non seppe resistere alla dolce violenza della Giulia.
– Non si faccia resistenza a un così vezzoso carabiniere! – diss'egli, sorridendo. – Eccomi in vostra balìa! —
E porse le mani per accettar le catene.
Al marchese Antoniotto, frattanto, non tornò difficile metter le mani su quell'esemplare del Nostradamus che aveva accennato a sua moglie. E fu uno scoppio universale di risa, un nembo d'arguzie, una gazzarra di festosi motteggi, quando venne fuori, da quelle pagine ingiallite dal tempo e rose dai tarli, la vera storia di Percivalle Doria, trovatore di Carlo d'Angiò, poco dianzi svisata, anzi rifatta di pianta, dall'amico di Aloise.
Ma a lui poco importava delle risa universali: se la cavò ridendo ancor egli da quella tempesta di motteggi, alla quale era già preparato, e allorquando la marchesa Giulia notò malignamente che gli allori di Aloise lo avevano ingelosito, non si provò neanche a contraddirla.
Dal canto suo, Aloise pensava, e andava cercando da sè che diamine avesse inteso di fare il Pietrasanta con quella sua pazzesca narrazione. Come gli parve di aver trovato, si accostò discretamente all'amico, e, cogliendo il destro che gli era offerto da alcune frasi impacciate del marchese De' Carli che tiravano altrove l'attenzione delle dame, gli domandò sommessamente:
– Dimmi, il tuo Laurent di Sauvaine sarebbe egli…
– Sicuramente; – rispose l'altro, – sarebbe Lorenzo Salvani. —
Ma in quella che Aloise stava per ripigliar la parola, i ragionari della brigata furono interrotti da un servo, che, fermatosi ad una rispettosa distanza dal crocchio, annunziò esser l'ora del pranzo. E qui Aloise fu sollecito ad offrire il suo braccio alla Ginevra; il marchese Antoniotto alla Maddalena; laddove ad Enrico Pietrasanta fu preso, più ch'egli non l'offrisse a lei, dalla vezzosa Giulia, che si avviava con lui, come i lettori discreti hanno già inteso, in quelle amene regioni del Tenero, che ci lasciò descritte, nella sua famosa carta, madamigella di Scudéry.
La faccenda del pranzo occupò due ore buone. Il Pietrasanta, seduto lontano da Aloise, aveva un bel saettarlo d'occhiate; Aloise era tutto nei discorsi di Ginevra, e non poteva badare a lui. Le occhiate, d'altra parte, se bastano talvolta a significare un sentimento, un affetto, non giungono mai ad esprimere un ragionamento.
Per pochi minuti, quando si furono alzati e la consuetudine li ebbe condotti in giardino, Enrico potè finalmente tirare in disparte Aloise. Ma il loro dialogo era a mala pena cominciato, che le dame inoltrandosi da quella banda, vennero a rompergli il filo.
– Voi siete un guastafeste, Pietrasanta; – disse la Ginevra, con un accento che imparadisò il giovine Aloise; – le dame escono a passeggio; e voi rapite loro i cavalieri.
– Perdonatemi, signora; parlavo ad Aloise di un mio negozio piuttosto grave…
– Parlatene a me! – entrò a dire la Giulia. – Le donne ci hanno spesso di buoni consigli in serbo. —
E prese, come aveva già fatto da prima, il braccio di Enrico. Ed egli, che non era sant'Antonio, cedette a quella dolce violenza.
Qui certamente era da scorgersi un deliberato proposito delle signore. La Giulia voleva far ricredere il Pietrasanta di tutte le sue chiacchiere contro l'amore, e questo era facile ad immaginarsi. Ma Ginevra! Che cosa pensava Ginevra? Ella mirava a trattenere Aloise, ed anche questo s'intendeva facilmente. Ma perchè? Voleva forse fare ammenda con lui della sua solita severità? O non era che un capriccio di donna, che aveva notato un segreto tra i due giovani, e s'impuntava a tenerli divisi? O c'era ad un tempo dell'una cosa e dell'altra?
Comunque fosse, la fine fu questa, che suonarono le undici di sera e il Pietrasanta non aveva anche potuto ragionare da solo a solo coll'amico. E bisogna poi dire che ad una cert'ora della sera, il nostro diplomatico aveva fatto di necessità virtù, e tra per le difficoltà moltiplicatesi intorno a lui e i rapimenti di una conversazione geniale, s'era adattato allo __statu quo__, com'era voluto da que' potentati femminei.
Ora, il partire così, presso alla mezzanotte, non metteva più conto; poichè, fossero pure andati di galoppo avrebbero trovate chiuse le porte per rientrare in città. E il Pietrasanta, pensato assai ragionevolmente che avrebbero potuto alzarsi per tempissimo nella mattina vegnente, pose il suo animo in pace.
Tutto il suo correre, il suo almanaccare, il suo beccarsi il cervello, non avevano trovato nulla contro i sottili accorgimenti del sesso gentile. L'uomo propone e la donna dispone.