Kitabı oku: «Il ritratto del diavolo», sayfa 5

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V

"Tutta Arezzo lo sa" aveva detto il Chiacchiera. Ma tutta Arezzo non lo sapeva ancora; bensì lo seppe, quando i tre fannulloni furono usciti dalla bottega di mastro Jacopo ed ebbero divulgata la nuova ai quattro punti cardinali. Spinello, il figlio di Luca Spinelli, quel giovinotto senz'arte, era un gran pittore…. Cioè, intendiamoci, le tre lingue tabane andavano dicendo tutt'altro: Spinello Spinelli, a sentirle, era un pittoruccio da pochi soldi che scroccava la nomèa di grande artista, facendosi fare il suo quadro da mastro Jacopo di Casentino. Il vanitoso si vestiva delle penne del pavone; laonde era giusto che fosse solennemente scorbacchiato. Ma accade di certi vituperi, che facciano effetto contrario alle intenzioni dei calunniatori. Rammentate che Spinello Spinelli era vissuto ignoto fino a quel dì. Se fosse stato davvero un gran pittore, o gabellato per tale, e qualcheduno fosse saltato fuori a dire che un altro dipingeva ed egli ci metteva il suo nome, sicuramente la cosa sarebbe stata creduta per intiero da molti, e per metà da tutti i restanti. Ma nessuno sapeva ancora che Spinello Spinelli avesse mai posto il pennello su d'un muro, e il richiamare così di schianto su lui l'attenzione dell'universale non poteva fargli che bene.

–Già, si capisce, invidiosi!—diceva la gente, crollando il capo in aria di compassione.—Il figliuolo di messer Luca è giovane, e ai suoi compagni gli sa male che il pulcino rompa il guscio prima di loro. Ma se Jacopo di Casentino gli ha dato a dipingere una delle medaglie che erano stale allogate a lui, bisogna dire che ha stima del suo discepolo, e come! Quanto al dipinger lui per lo scolaro, o come si potrebbe intendere? Per danari, no certo, che gli Spinelli fanno già molto ad accozzare il pranzo con la cena. Per un suo capriccio? La grazia di quel capriccio, che vi fa rinunziare alla fama e ai quattrini! E poi, che capriccio d'Egitto? Mastro Jacopo dà a Spinello Spinelli la sua bella figliuola, un bottoncino di rosa, un occhio di sole che non ha voluto dare neanche al Buontalenti, ad un ricco sfondato. Sapete che lui s'era messo in capo di darla ad un pittore. La darebbe ad un suo fattore, se questi non avesse ingegno e pratica da stargli a paro? No, no, le son chiacchiere d'invidiosi; tenete per fermo che questo Spinelluccio è uno sparviero nidiace, il quale ha già messe le penne maestre e può far caccia da sè.—

Così, contro l'intenzione dei tre sparlatori, il giovinetto andò in breve ora per le bocche di tutti, come un speranza dell'arte. Era inoltre aretino di nascita, e questo argomento della patria, per una volta tanto, faceva servizio. In quel risorgimento dell'arte italiana, Arezzo non aveva ancora un pittore di vaglia che fosse nato fra le sue mura. Quind'innanzi si avrebbe avuto lui, e si sarebbe detto: Spinello Aretino. Che vi par poco?

Nacque in tutti una gran voglia, una voglia spasimata, una voglia matta, di vedere il dipinto. Aspettando che fosse levata l'impalcatura e scoperto l'affresco, s'incominciava a salutare Spinello per via, anche senza essere in dimestichezza con lui.

–Buon dì, maestrino!—gli dicevano.—Come va l'opera vostra?

–Bene, grazie al cielo;—rispondeva il giovane facendosi tutto rosso;—ancora otto o dieci giorni di lavoro, e si leverà il ponte. Ma ho una gran paura di non rispondere alla vostra aspettazione. Se per avventura mi fosse riescita una ciambella senza buco?—

E si rideva, alle scherzose parole, e gli si augurava che anche quella riescisse, come tutte le ciambelle per bene.

Ma ciò che egli diceva per celia, temevano di buono i massari del Duomo vecchio. Che diamine era saltato in mente a mastro Jacopo, di commettere ad un suo fattore, novellino nell'arte, un'opera di quella importanza, che era stata allogata a lui? Per caso, mastro Jacopo si faceva beffe di loro? O si doveva argomentare da quel fatto che egli per ingordigia di mestierante usasse accettar commissioni a furia, che poi, non riuscendo a sbrigarle, doveva spartire tra i suoi pittorelli di bottega? A buon conto non intendevano di passargli la gherminella, e gliene muovevano rimprovero.

Ma Jacopo di Casentino aveva risposto da par suo alle osservazioni dei massari.

–Vi ho promesso,—diceva,—di fare il meglio che sapessi. Ora, che cosa direste, miei degni messeri, se io vi dessi per il vostro danaro anche meglio di quello che so far io?

–Meglio!—esclamavano i massari!—Eh via.

–Sì meglio, vi ripeto. Non fo per chiasso. Spinello Spinelli è giovane, come sapete. Ma un uomo ha forse mestieri d'invecchiare, per farvi il suo capo d'opera? Quello è un ragazzo che vale assai, e passerà non solo avanti a me, ma anche a molti altri.

–Si vede che ci avete fitto ii capo;—notarono facetamente i massari.

–Sì, messeri, ci ho fitto il capo. Ma credo anche di poter dire che non fo ad ingannare nessuno. A quel giovinetto io gli concedo la mia figliuola, con duemila fiorini del sole e tutto il resto che ella potrà avere, quando io passerò a miglior vita, che sarà il più tardi possibile. Volete voi, messeri onorandissimi, reputarvi in ciò più avveduti di me?

–Mastro Jacopo, voi sapete il proverbio: ognun può far della sua pasta gnocchi. Ma noi non ispendiamo del nostro; noi amministriamo il denaro della comunità.

–È giusto. Ed io non vi chiederò nulla per l'opera di Spinello, se essa non sarà tale da piacervi. S'intende,—aggiunse prontamente mastro Jacopo, da quell'uomo prudente che egli era,—s'intende che in tal caso faremo rastiare il muro, e voi pagherete a me il prezzo pattuito, quando ci avrò dipinto io un'altra medaglia. Vi avverto, per altro, che la mia non sarà punto migliore della sua.—

I massari non avevano trovato nulla a ridire in una proposta così ragionevole. E la loro curiosità fu maggiormente stuzzicata dal tono di sicurezza con cui egli parlava.

Dieci giorni dopo l'affresco era condotto a termine e lo si poteva scoprire. Immaginate voi come si spargesse prontamente la notizia in città e quanta gente accorresse a contemplare il dipinto. In Arezzo non si parlava più d'altro.

Tolto nella notte il tavolato, nella mattina si erano levati i ponti; indi la chiesa era stata aperta ai visitatori. Primi avevano potuto vedere il dipinto i massari del Duomo vecchio, i canonici, il clero e gli anziani del Comune. Dopo questi maggiorenti era entrato il popolo, e tutti via via si erano inoltrati fin sotto l'arco della cappella, per guardare la vòlta, dove quel valentuomo di san Donato faceva il suo bravo miracolo con un crocione trinciato per aria.

Spinello non era presente, che non aveva ardito restar là, fatto segno alle occhiaie curiose dei suoi cittadini, e fors'anche ai loro appunti poco benevoli. Sapete già che egli non aveva più fede nella bontà dell'opera sua, quando gli era toccato di spolverizzarla dai cartoni sul muro. Figuratevi poi come dovesse parergli, quando la vide compiuta. Ma in suo luogo era mastro Jacopo, fiero in arme come un paladino al passaggio d'un ponte.

L'impressione fu buona, anzi ottima. Si maravigliavano che un giovane avesse saputo far tanto. E più cresceva lo stupore, quando si veniva ad osservare in ogni sua parte il dipinto. La composizione era saviamente ideata e distribuita con raro giudizio. Nobilissimo l'atteggiamento del Santo, e bene inteso. Naturalmente collegata, la doppia azione della figura, con quella destra levata a benedire e quella sinistra distesa indietro per accennare al suo popolo che volesse star cheto e tranquillo. Il terrore, l'ansietà, la speranza, erano efficacemente espressi in quei volti e in quelle mosse d'uomini e donne che si accalcavano nel fondo del quadro. Solo alle prese col serpente san Donato mostrava una serenità maravigliosa, giustificata dai primi effetti della sua benedizione. La belva, così minacciosa nell'orridezza delle forme e nel lampo degli occhi, da far rizzare i bordoni ai riguardanti, si contorceva nello spasimo dell'agonia; voleva ancora uccidere e si sentiva morire. Tutto ciò era reso stupendamente, e composizione e disegno facevano onore all'artista. Nessuno, degli intendenti, poteva dire che fosse opera di mastro Jacopo. Si notava un fare che non era il suo, per solito più leccato e più languido. E il colore? Bisognava vedere il colore, com'era pieno di vaghezza e di sugo.

–Pieno, fin troppo;—aveva notato uno di quei critici che cercano il pel nell'uovo e non disperano di trovarcelo.

–Il dipinto è ancora un po' fresco;—rispondeva un vicino;—aspettate.

–Vuol dire che non abbiamo ancora la tinta vera;—ripigliava quell'altro.—Come giudicarne allora? Seccando l'intonaco, non potrebbe sbiadire il dipinto? Già nell'affresco, l'essenziale è di conoscere il valore delle tinte. Come volete che lo conosca lui, a vent'anni, o giù di lì?—

Ad onta di questa critica, che già voleva tirare in ballo il futuro, l'opera di Spinello Spinelli fece un chiasso da non dirsi a parole. E per tutto quel giorno e per altri alla fila ci fu grande concorso di popolo nel Duomo vecchio d'Arezzo. Per giudizio universale, la città poteva rallegrarsi; il suo pittore era nato.

Mastro Jacopo accoglieva con la sua aria burbera le congratulazioni dei cittadini.

–Non parlate di me, che non c'entro;—rispondeva egli a coloro che volevano riferire agli insegnamenti suoi il merito di un così valente discepolo.—Io non gli ho insegnato quasi nulla. È venuto da me come poteva andare da un altro, e da un altro sarebbe riescito lo stesso che è riescito da me. L'unica differenza che io posso ammettere è questa, che un altro si sarebbe ingelosito di lui, lo avrebbe tenuto giù, molto giù, e non gli avrebbe certamente dato da dipingere una tra le medaglie a lui allogate. Io, invece, ho fatto per Spinello Spinelli quel che si fa, o che si dovrebbe fare, per un amico. Ma, per carità, non mi parlate d'insegnamenti. Quel benedetto ragazzo aveva già la scintilla in testa, l'ha portata nel mio focolare e s'è acceso il suo fuoco da sè. Un'occhiata a ciò ch'io facevo, ecco tutto. Perchè, infine, la parte manuale, la praticaccia dell'arte, bisogna apprenderla da qualcheduno. Ma qui si ferma il merito mio. La verità è una e va detta senza risparmio.

–Per altro,—gli rispondevano,—Spinello Spinelli si loda molto di voi e ripete a tutti che vi è debitore d'ogni cosa.

–Spinello ha buon cuore e parla come il cuore gli detta. Ma scusate, come sarebbe possibile che io nel giro di pochi mesi gli avessi insegnato tanto? Volete che vi dica io com'è andata? Spinello aveva la testa fatta in quel modo che l'hanno i grandi pittori, piena di verità e di magnificenza. Aveva il sentimento del colore negli occhi; l'argento vivo sulle dita; la febbre dell'arte nel sangue. Tale era Giotto di Bondone, e tale sarebbe stato, anche se, scambio di Cimabue, lo avesse veduto e preso con sè un pittoruccio da dozzina. Per intender Giotto non occorreva, in fede mia, esser neanche una cima; bastava non essere a dirittura un bue.—

Con questa celia mastro Jacopo si liberava dai piaggiatori ostinati. Forse caricava un po' troppo la dose; ma era necessario far così, per levar di mezzo la diceria del Chiacchiera e de' suoi degni colleghi, secondo i quali mastro Jacopo doveva aver messo mano nel dipinto di Spinello.

–Non lo diranno più, per bacco baccone,—borbottava egli tra i denti,—non lo diranno più che il San Donato è farina del mio sacco.—

Ai massari del Duomo vecchio, poichè ebbero veduto il dipinto e udita quella gara di lodi, mastro Jacopo parlò in questa guisa:

–Orbene, messeri onorandissimi, che vi pare? Dobbiamo noi rastiare l'intonaco e dipingere un altro Miracolo di san Donato?

–Ah, mastro Jacopo, avevate ragione voi;—risposero quei valentuomini.—Ecco uno scolaro che vi farà onore.

–Dite un genero, messeri, un genero che mi farà contento.

–Ah, sì, quello è il premio che gli date. Se è buono d'indole come è valente di mano, fortunata la vostra figliuola, e fortunato voi, mastro Jacopo.—

Il vecchio pittore tornava a casa con un cuore tanto fatto. Egli era il più felice tra tutti i babbi d'Arezzo.

Spinello, dal canto suo, era oppresso dalla gioia. Quel vincitore aveva l'aria d'un corbello. Scusate il paragone, ma io mi son sempre figurato così i trionfatori romani, e più particolarmente il Petrarca, quando lo portarono a prendere la corona d'alloro sulla vetta del Campidoglio. Doveva essere abbattuto il povero messer Francesco; doveva essere come sbalordito col pensiero della grandezza di Roma nell'anima e l'immagine di madonna Laura negli occhi. L'amore e la gloria, il fuoco vivo e la luce rutilante; ma altresì i due pesi più grandi che possa portare un uomo, nel sentiero della vita, che è così pieno di ciottoli insidiosi e di buche traditore.

Il maestro lo aveva abbracciato, con le lagrime agli occhi. Parri della Quercia gli aveva stretta la mano dicendogli: "bene!" con tutte le forze dell'anima. Tuccio di Credi, venuta la sua volta, gli aveva soggiunto:

–Godete gli applausi; essi vi aiuteranno a sopportare le fischiate. Perchè, badate, la vita è tutta così; oggi in alto, sul candeliere, domani giù, e costretti a correre come cani bastonati.—

Tuccio di Credi era un filosofo pessimista. Ma il suo ragionamento non dispiacque a Spinello. Si ascoltano bene anche i pessimisti, quando si è nella pienezza della felicità. Il richiamo alle ingiustizie che v'aspettano, fa l'effetto d'una dissonanza armonica, che produce una bella varietà nel pezzo e vi fa solletico non ingrato all'orecchio.

Del resto, le noie erano un retaggio del futuro, e Spinello viveva affondato nel presente, si beava negli occhi di Fiordalisa, anche lei oppressa dalla gioia, piena d'un senso nuovo, che non aveva tempo a studiare. Perchè, poi, ci avrebbe studiato su? Il mondo le pareva una gran bella cosa, e questo era l'essenziale. L'aria aveva tesori ineffabili, fragranze arcane, che le assopivano il sangue nelle vene. Presentiva una beatitudine, un'estasi, come il corpo mollemente adagiato in un morbido letto attende e pregusta un bel sogno. In quella soave dormiveglia dei sensi, la bella fidanzata porgeva orecchio al susurro dell'aura e al bisbiglio d'una voce sommessa. Quel susurro le diceva: la vita è bella così; quel bisbiglio le diceva: io t'amo.

Nell'amore ogni più piccola cosa è un mondo; e un mondo nuovo per giunta. Ci si ferma piacevolmente intorno a certi nonnulla, che in ogni altro momento della vita a mala pena si avvertono. Guardando un viso amato, poi, quante meraviglie si scoprono! Che tesori, che rapimenti, che ebbrezze! Quand'anche un occhio esercitato, e memore delle sue esercitazioni, scoprisse un lieve difetto, verrebbe subito a piacere il difetto, quasi bellezza nuova, quintessenza di perfezione, suggello di verità, come il marchio nell'oro! Perchè, infatti, che cosa si cerca più avidamente nel bello, se non la sua incarnazione? E la nota del vero non è essa che distingue la donna dalla statua, la realtà dal sogno?

Mettendo qualche necessario intervallo nelle sue contemplazioni, Spinello andava ogni mattino al Duomo vecchio, dove erano ancora da finire nuove opere di mastro Jacopo. Ma il vecchio pittore si vergognava di occupare in troppo umili uffici il suo famoso scolaro.

–Senti,—gli disse una volta,—non è da te raccattarmi i pennelli e mesticarmi i colori. Hai fatto testè un'opera bella e giustamente lodata; ma non devi riposarti sugli allori. Ti consiglio di provarti subito in un'altra, e di maniera diversa dalla prima. Il buon arcadore, quando va alla battaglia, porta sempre con sè due corde di rispetto. Non ti basti di essere un frescante. Il fresco è un bel modo di dipingere, e forse il migliore tra tutti, poichè esso sfida i secoli e si raccomanda alla memoria delle più tarde generazioni. Ma anche una bella tavola dipinta a tempera può avere i suoi pregi agli occhi dei posteri. Ed ora che mi rammento, i tuoi nemici ti accusavano di non aver mai copiato dal vero. Fa un ritratto, e sia quello della tua fidanzata. Sicuro; tra due mesi me la rubi; lasciami almeno il suo ritratto in casa. Ti va?

–Padre mio!—gridò Spinello, confuso.—Se osassi!…

–Già, dovevo rammentarmelo, che tu non osi mai. Strano ragazzo! Ma se son io che ti permetto! se son io che ti prego!

–Oh, non dicevo per questo;—rispose il giovane.—Non oso, perchè temo di non venirne a capo. L'idea di ritrarre il volto di madonna Fiordalisa m'è già passata più volte per la testa. Anzi, ve l'ho a dire? Quando sono a casa mia, quando mi trovo solo nella mia cameretta, cerco di consolarmi dell'assenza, segnando sulla carta il profilo di madonna. E mi vien sempre male, sempre male, che è una morte a pensarci.

–T'è pur venuto la prima volta; te ne ricordi?

–Sì, ma erano appena quattro segni. Davano l'aria di madonna Fiordalisa, ma non erano il suo ritratto. A fare una cosa che meriti questo nome, si vogliono giusti contorni; non basta accennare, bisogna dipingere, e tutte le parti più minute debbono essere fedelmente rese. Ora, vedete, padre mio, quando io mi metto all'opera, risoluto di non contentarmi ad una vaga somiglianza, mi trovo subito impacciato, e mi accade che…. con tutte le migliori intenzioni del mondo… con tutti i più saldi propositi.

–-Vuoi dire che ti casca l'asino? Ho capito;—disse mastro Jacopo.—Ma questo è naturale. È di pochi il ricordare appuntino tutte le fattezze d'una persona assente, per modo da poterle rendere con precisione sulla carta. Questa è una bella memoria; ma non gli è da questa qualità che si conosce il pittore. Val meglio, assai meglio, saper copiare con diligenza quel che si vede, anzi che rammentare a un dipresso quello che si è veduto una volta. Abbi l'originale sott'occhio, e se non ti verrà fatto di esprimerlo con verità, allora soltanto dovrai disperarti. Dunque, siamo intesi; comincierai da domani.—

Spinello accettò l'invito del maestro con un misto di timore e di desiderio. In fondo in fondo, non avrebbe fatto niente più di quel che faceva ogni dì. Non era egli sempre con gli occhi addosso a madonna Fiordalisa? Ma il guaio era questo, che egli ci sarebbe stato quind'innanzi, non più per far tesoro di sensazioni dolcissime, bensì per esprimere su d'una tavola ingrata ciò che i suoi occhi vedevano così bene, e che le dita avrebbero reso così male.

–Madonna,—diss'egli a Fiordalisa quella medesima sera,—vostro padre desidera che io mi provi a ritrarre le vostre sembianze. Lo consentite voi?—

La fanciulla arrossì e chinò gli occhi a terra.

–Che idea!—diss'ella poscia, con aria di confusione, ma non senza un po' di malizietta femminile.—Dovendo guardarmi tanto, finirete col trovarmi brutta.

–Volete dire che non mi riescirà di farvi bellissima come siete?—disse di rimando Spinello.—Pur troppo sarà così. La natura, gelosa dell'opera sua, non vorrà mica lasciarsi agguagliare da me!—

La fanciulla sorrise; e Spinello vedendo schiudersi quelle umide labbra coralline, perdette la testa senz'altro.

–Angiola!—le bisbigliò, avvicinandosi in atteggiamento d'umiltà.—Perdonatemi in anticipazione. Si fa per contentare il babbo.—

Così dicendo, osò (egli che non osava mai) prendere una bella mano, che gli fu amorevolmente concessa, e l'accostò alle sue labbra. Baciava la mano, non potendo baciare quello spiraglio del paradiso, che v'ho accennato poc'anzi. Ma che cosa sarebbe stato di lui, se lo avesse potuto? Solo a baciar quella mano, parve che una scintilla elettrica lo avesse subitamente investito, perchè tremò tutto, dal capo alle piante.

Il giorno dopo, per obbedire al comando di mastro Jacopo, egli era seduto davanti al cavalletto, con la sua tavola preparata a ricevere i contorni di quella stupenda figura. Confuso, trepidante, incominciò a descrivere i primi segni col lapis rosso di Lamagna. Ma la prova non parve contentarlo, poichè subito cancellò quello che aveva fatto, e tornò a segnare, per cancellare da capo. Nove o dieci volte rifece la stessa fatica, sudando freddo, come un povero principiante, a cui si domandi alcun che di superiore alle sue forze. Quante volte fu assalito dalla disperazione! Quante volte s'augurò di aver da fare, non uno, ma dieci Miracoli di San Donato, e con l'obbligo per giunta di farsi dir bravo da tutti gl'invidiosi dell'arte! Anzi, per dirvi tutto, il povero Spinello si sarebbe adattato perfino ad essere nei panni del santo, e a doverlo uccidere lui, il serpente, con una benedizione, anche a risico di esser divorato dal mostro, se la benedizione non gli fosse riescita efficace.

Immaginate le difficoltà che gli si paravano davanti agli occhi, pensando che la bellezza, nella figura umana, non è un composto di linee geometriche. Con la geometria fate una donna brutta, o mediocre; ma una bella figura è un tal complesso di curve, di prominenze, di sottosquadri, di delicatezze, che non si possono copiare con esattezza, ma si debbono indovinare, esprimere di primo achito, nella stessa fusione e con quella medesima felicità di trapassi in cui si è incarnato il disegno della natura. E prima di tutto, il contorno della testa di madonna Fiordalisa offriva allo sguardo una linea così soave, un molleggiamento così indistinto tra il fondo e l'ovale, che era già un'impresa sommamente difficile a coglierlo con sicurezza. Inoltre, bisognava pensare che la tavola era una superficie piana, e il contorno della figura desumeva le sue apparenze dal digradare delle estremità, dallo sfuggir delle curve, dal lumeggiarsi delle parti in rilievo. Spinello pensò che l'ottenere un contorno perfetto fosse quistione di luci e d'ombre, che s'avessero a mettere col pennello più tardi, e si rassegnò ad accettare una linea, che pure non finiva di contentarlo.

Mentre egli cerca di cogliere una somiglianza che gli sfugge, vediamo di dipingere anche noi il volto di madonna Fiordalisa. Ne verrà un pasticcio, suppergiù, come quello del povero pittore innamorato; ma non importa. Nelle cose difficili, l'aver tentato è già molto.

Il contorno della figura lo avete veduto. Immaginate ora la fronte, breve, ma pura ne' suoi timidi rilievi, ombreggiata dai riccioli dei capegli castagni, traenti al bruno, e fatti parer quasi neri dal contrasto della carnagione bianca di latte, d'onde trasparivano gentili velature di rosa e di azzurro. Gli occhi non erano grandi ma conferiva loro un aspetto di nobile ampiezza sotto l'arco sottile e spiccato delle sopracciglia, sotto cui si disegnavano leggermente infossate le palpebre. Dalle ciglia lunghe e fitte aveva spicco il bianco delle pupille, un bianco perlato e vivido, che faceva parer nero un occhio castagno dai riflessi dorati. Le guancie tondeggiavano, senza troppo rigoglio; il naso era fine e diritto; breve lo spazio tra le nari elegantemente modellate e le labbra sottili, che non erano già fatte a festoncini come le ha dipinte o scolpite un'arte altrettanto falsa quanto leziosa, ma semplicemente rigirate in una delicatissima curva; labbra di corallo tenero, facili al sorriso, che increspandole un tratto, lasciava scorgere due file di perle rilucenti. Divina bocca, nido d'amore, e veramente spiraglio di paradiso, come sembrava a Spinello!

Tralascio molti altri particolari e vi dico alla svelta che madonna Fiordalisa era una piccola perfezione. Un non so che di virgineo, d'infantile, di fresco, traluceva, traspariva da quei soavissimi contorni. Si pensava, vedendo lei, ad Eva appena nata, a Venere uscente dalle spume del mare, e insieme a quei frutti saporiti, giunti a maturità sul ramo natio, sui quali ama fermarsi la rugiada in impercettibili gocce, e che (Dio mi perdoni, se ardisco dir tutto) invitano il riguardante ai morsi, mentre gli fanno correre l'acquolina alla bocca.

E Spinello doveva dipingere! Povero Spinello! Incomincio anch'io a capire come andasse che non indovinava i contorni, e che al terzo giorno di lavoro fosse ancora lì, impacciato con le tinte, che non gli rendevano mai il tono giusto.

Il degno mastro Jacopo, togliendosi un'ora prima dell'usato dai suoi lavori in Duomo, andava a vedere come procedesse il ritratto, e stava là, dietro a Spinello, guardando la sua bella figliuola e le pennellate che il suo prediletto discepolo veniva gettando nel quadro.

–Ah, padre mio!—diceva Spinello, sospirando.—Non va, pur troppo, non va.

–Tira via, ragazzo incontentabile,—brontolava allora il maestro.—Lo so anch'io che non va, se tu vuoi ad ogni costo la perfezione, che non è di questo mondo. Vedi? Ti riesce tormentato, per la smania di notare ogni nonnulla.

–O non bisogna render ragione di tutto?—chiedeva Spinello.—Non debbo io far risaltare quell'impasto di rosa e di azzurro che si vede nella carnagione, attraverso il bianco ed il giallo?

–Sicuro, ed anche l'arancione e il violetto, il gridellino e il pavonazzo;—rispondeva mastro Jacopo, ghignando,—Ti consiglio di metterceli tutti. Se non sarà il ritratto di Fiordalisa, sarà il ritratto dell'arcobaleno.—

Persuaso dalla celia del maestro assai più che da ogni ragionato parere, Spinello si faceva a cambiare, ma sempre in peggio. Il guaio era questo, che i contorni della figura, quantunque rifatti una dozzina di volte, non lo contentavano affatto; ed egli, mettendo giù i colori, pensava sempre a quel difetto originale dell'opera. Ma dove era, dove si nascondeva, il difetto? Impossibile rintracciarlo. Le proporzioni delle parti c'erano tutte; ma la linea mancava, la linea misteriosa che le collega e le fonde nel complesso armonico della verità. Indovinate la linea, ecco il gran punto. Vedete quanti pittori ci si son beccati il cervello, e non ci sono riesciti! Checchè ne dicano i moderni, è a gran pezza più facile diventar coloristi, che afferrare la linea. So bene che si mette in campo la fotografia, la camera lucida e la camera oscura, aiuti potentissimi a trovare ciò che l'occhio non può dar sempre all'artista. Ma forse che il sole non inganna anche lui? La differenza di piano tra due parti, anco vicinissime, della cosa veduta, produce un errore da nulla, il quale s'ingrandisce a mano a mano nel giungere fino a voi, e vi guasta l'euritmia del modello; di guisa che la linea, la misteriosa linea del vero, non vi è data neanche dai fedeli riflessi delle camere oscure, lucide, ottiche, nere, e via discorrendo.

Spinello, povero lui, si struggeva di rabbia e faceva ridere madonna Fiordalisa. La bella fanciulla aveva capito istintivamente che quello era l'unico modo di consolarlo. Sembra a tutta prima che debba essere l'opposto. Ma voi sapete, lettori umanissimi, che c'è riso e riso. Quello di una bella bocca, per esempio, fa l'effetto di un raggio di sole agli occhi, combinato con un effluvio odoroso alle nari e con un suono piacevole all'orecchio. Pensateci, e vedrete che ho ragione io, cioè, no, che aveva ragione madonna Fiordalisa a sorridere.

La fanciulla, del resto, non si annoiava punto di stare in quel modo, per cinque o sei ore al giorno, seduta davanti a Spinello. Da principio arrossiva, vedendosi guardare con tanta attenzione, e via, diciamo le cose come stanno, anche con tanto desiderio. Ma la consuetudine aveva portati i suoi frutti. Non era necessario che Spinello la guardasse a quel modo? Si sa, un ritratto non è un'impresa da nulla; complesso di linee, impasto di colori, luci ed ombre collocate al loro posto, non sono cose che si possano improvvisare; è necessario tener conto di tutto, e perciò bisogna vedere, notare diligentemente ogni cosa, spesso anche tornarci su cinque o sei volte. E quando le sei non bastano, Dio buono, ci vuol pazienza, arrivare anche alle dodici.

Inoltre, ci sono di certe minuzie, che vogliono esse sole un tempo assai lungo, e perfino un'intiera seduta; specie se il pittore è diligente e se ha la consuetudine di rimanere incantato davanti alla bellezza.

Pure, con tanta diligenza, con tanto desiderio di far bene, non riescire che ad un'opera mediocre, era doloroso, e il povero Spinello ne aveva un profondo rammarico.

–Ci dev'essere una malìa!—diceva egli a mastro Jacopo, che si sforzava di consolarlo.—O sulla tavola, o nei pennelli, o nella mia mano, o in qualche altra parte di me, ci dev'esser una malia. Vedete, maestro? Non mi vien fatto di cogliere certi piccoli rapporti tra l'ovale del mento e il tondo della guancia. Infatti, qui è sbagliato il contorno; non c'è che dire, è sbagliato. L'ho già rifatto una ventina di volte. Quell'altra piegolina impercettibile tra il naso e la guancia! Non l'ho mica saputa indovinare. E l'espressione dell'occhio, Dio buono! E la bocca! Vedete come mi riesce stentata.

–Già, vorresti che parlasse;—notò mastro Jacopo.

–Almeno che ci avesse un po' di moto;—rispose Spinello.—Qui m'è venuta dura, che è una pena a vederla.

–Ragazzo mio, te l'ho già detto, ti tormenti per trovar l'ottimo, e il buono ti sfugge. Daresti tu ragione a Parri della Quercia?

–A Parri! Che c'entra Parri, nel mio ritratto?

–Sì,—ripigliò mastro Jacopo,—rammento una disputa curiosa che è avvenuta tra i miei riveriti scolari. Parri della Quercia sosteneva che il ritratto della mia figliuola era un'impresa difficile, anzi addirittura impossibile, perchè Fiordalisa ci ha un'aria mutevole. Intendeva dire che il suo viso muta aspetto ed espressione ad ogni tratto. E Tuccio di Credi, quell'altro sapientone, soggiungeva che il guaio era tutto nelle parti mobili del viso. Secondo lui, le parti mobili del viso sono gli occhi e le labbra.

–Eh,—disse Spinello,—potrebbe aver ragione Tuccio di Credi.

–Un altro che perde la testa!—esclamò mastro Jacopo.—Forse non li abbiamo tutti, quanti siamo, gli occhi e le labbra? E in che dovrebbe esser difficile di indovinare le parti mobili di un volto, e facile di indovinar quelle di un altro?

–Scusate, maestro, ma mi pare d'intenderlo;—replicò Spinello.—Per cogliere la somiglianza d'un volto, ho il più delle volte un aiuto nelle fattezze risentite, nelle prominenze più forti, nella barba, secondo che è piantata, nelle basette che nascondono il labbro, e via discorrendo. Un volto di donna è più difficile a ritrarre, e tanto più difficile quanto più s'ingentiliscono i lineamenti, quanto più son delicati i trapassi da una parte ad un'altra. E allora, se voi aggiungete che gli occhi e le labbra, che sono tanta parte del viso, mutano spesso di espressione….

–Vedete che sciocco son io!—gridò mastro Jacopo, interrompendo la cicalata del suo discepolo.—Non credo alle alchimie di Tuccio e di Parri, e le tiro in ballo, io, per appiccicare a Spinello la malattia de' suoi compagni. I quali, in fede mia, non sanno nulla di nulla e parlano a vanvera da quei gaglioffi che sono. Perchè, vedi, ragazzo mio, l'arte si guasterà, quando verranno fuori i chiappanuvoli con le loro dottrine. Ti dico che la è quistione di lavorare e non d'altro, di lavorar sempre e di lasciare che i fannulloni cantino. Copiare e immaginare, immaginare e copiare, ecco il punto. Una cosa non ti vien fatta alla bella prima? Si prova da capo; verrà alla seconda volta, o alla terza. Non verrà neanche alla dodicesima? Pazienza; sarà per la ventiquattresima. Ritieni in mente questo, che manda a rotoli tutte le dottrine dei fuggifatica; è sempre un errore di veduta, quello che guasta il lavoro e ti fa perdere il tempo nelle rabberciature. Che ti serve ritornare col pennello su questa parte e su quella, se il disegno è squilibrato da bel principio? Rifai di sana pianta, e sarà molto meglio.—

Yaş sınırı:
0+
Litres'teki yayın tarihi:
01 aralık 2018
Hacim:
250 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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