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Kitabı oku: «La montanara», sayfa 10

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Così il nostro Gino era caduto nella rete; così, protestando qualche volta, e sentendosi dare del ragazzo, aveva finito con adattarsi alla sua servitù, decorata di un nome più grato, ma solamente a quattr'occhi. Dopo tutto, perchè lagnarsi? Quella donna apparteneva alla sua medesima classe sociale; egli viveva nell'ozio, e poteva obbedire senza fatica. Perciò si era avvezzato, aveva presa la piega, formata l'abitudine; andava oltre, placidamente, col trotterello dell'antico cicisbeo, e sarebbe potuto andare così, fino… Ah sì, parliamone: fino a quando? Una marchesina cresceva, accanto alla bella marchesa. Non crediate che fosse proprio al suo fianco; era in conservatorio; ma nelle vacanze faceva le sue piccole apparizioni, e spesso la bionda Polissena, con accento tra tenero e grave, amava ricordare che presto avrebbe ripreso il suo ufficio di mamma. Si rideva, intorno a lei, con aria incredula, e si diceva: «Mamma, Lei, signora marchesa? Vorrà dire sorella!» Era una consolazione quella, e il complimento poteva anche avere un aspetto di verità. Ma infine, o presto o tardi, il giorno doveva venire, in cui la marchesa Polissena, da regina giovane ch'ella appariva, passasse nel novero delle regine madri, e facesse anche ufficio di tappezzeria nelle feste, dov'ella aveva così graziosamente regnato. Baie! C'era tempo ancora a pensarci. La marchesa Polissena era così giovane, così bambina, alle volte! E sempre così bella, poi! Quando voleva, solo a mostrare i suoi denti, in un sorriso, e a muover gli occhi, sprigionandone un lampo, era ancora lei la più bella di Modena: una città dove le belle non sono poche, nè poco.

Il conte Gino andava dunque là, con quel suo guinzaglio lento, che lo tratteneva senza dargli noia, poichè si era adattato, da cane intelligente e mansueto, a misurare il suo passo su quello della padrona. E pensava che la cosa potesse durare così… Cioè, diciamo la verità tutta quanta, non pensava affatto; andava là, comandato, accarezzato, portando la sua felicità, come il soldato porta lo zaino, lamentandosi a mala pena nelle ore di sole. Qualche volta, lo sapete, egli deponeva il dolce peso, andando a prendere, nella società non sua, quelle boccate d'aria libera che dovevano essergli imputate a delitto dal sospettoso governo ducale. Forse per noia, non confessata a sè stesso, dell'ambiente afoso in cui viveva, si era buttato a cercar fuori le piccole consolazioni. Leale nell'amore, non le cercava già in altri amori, bensì in altra ragione di cose; la indipendenza del suo paese era il pensiero che lo consolava del fatto di aver perduta la sua. Il giorno della liberazione si sentiva vicino; così non poteva durare, per bacco! Non già per lui, che non osava pensarci neanche, e si sarebbe stimato meno, se gliene fosse venuto solamente il sospetto; ma per la patria sua, per l'Italia, no, mille volte no, così non poteva durare. Stato pericoloso dell'anima sua! Il governo ducale ci aveva messo, aveva creduto di metterci un termine, mandando il conte Gino Malatesti a confine in Querciola.

Cacciato con quella rapidità fulminea dell'ordine ducale, Gino Malatesti si era sentito spezzare il cuore. Niente si muta senza affanno, neanche una triste condizione in una migliore, o più grata. L'uomo liberato dai ceppi, non guarda forse con mestizia, breve, sì, ma profonda, alle pareti del carcere, a quelle ignude pareti che furono testimoni e confidenti di tante angosce, di tante afflizioni di spirito?

L'amore, che forse languiva, si ravvivò nell'anima di Gino Malatesti, battè l'ali sulla via dell'esilio con lui. Ah, quella donna! Se avesse sparsa una lagrima! Se almeno gli avesse fatto sapere quella cosa tanto naturale, tanto facile alle donne, come a tutte le creature deboli, e gliel'avesse scritta in due sole parole: «ho pianto!» Come lo avrebbe consolato, confortato a soffrire! Che balsamo avrebbe recato alla sua acerba ferita! Ci sono anche le lontananze utili, quelle che i francesi dicono con modo felicissimo les absences heureuses. Son quelli, per così dire, gli sprazzi d'acqua fredda che ravvivano una fiamma vicina ad estinguersi. Ma la bionda Polissena non aveva dato cenno di sè al condannato; peggio ancora, non si era degnata di rispondere una buona parola al suo messaggero; peggio ancora del peggio, aveva ripresi, raddoppiati i suoi passatempi cittadini, come se nulla fosse avvenuto di doloroso, o solamente di spiacevole per lei. Era proprio la gran dama, che non perdeva il suo tempo a piangere sopra un capriccio svanito, e non voleva portarne il lutto, neanche per una settimana, come si usa nelle Corti.

Queste cose lo avevano profondamente ferito, ed io vi ho descritta la scena a suo luogo. Orbene, vedute alla distanza di un paio di mesi, queste… anzi quelle cose non lo ferivano più. E voi, senza che io ve l'abbia detto, ne sapete il perchè. La boccata d'aria sana aveva fatto il miracolo; quella apparizione celeste delle Vaie, quel senno e quella innocenza, quel fiore di poesia, di pensiero e di studi, avevano rivelato a Gino Malatesti un nuovo mondo, il migliore. Strana novità, in mezzo a quella agreste natura, dove noi per solito non vediamo che boscaiuoli e pastori, gente buona ma ruvida, menti vergini, anime schiette, qualche volta, ma ottuse!

C'è un fiore, nelle regioni alpine, uno strano fiore… Non l'edelweiss, badate, non l'edelweiss, di cui si è già tanto abusato. È un fiore umilissimo, confuso spesso tra cento, nello smalto allegro dei prati. Nel mezzo del calice slabbrato ha come una piccola lastra tondeggiante, e dall'orlo di questa si ripiega tremolante verso il mezzo una piccolissima forma, petalo, o lacinia del calice istesso, che vogliam dire, ma che vi dà l'immagine di un uccellino il quale stia a guardarsi nello specchio. È forse l'ophrys speculum. Lascio volentieri ai botanici la cura del nome. Il semplice curioso che vede il bizzarro fiorellino e lo ammira, non può trattenersi dal dire tra sè e sè: come mai, in questa selvaggia natura, un fiore così gentile nella sua figura, così bello nella sua novità?

Semplice curioso, lasciatevelo dire: non c'è nella vostra domanda, nella vostra maraviglia, che l'effetto di un pervertimento del vostro giudizio. Assuefatto a vedere i bei fiori dalle forme insolite e dalle figure strane entro le stufe dei giardini signorili, non ricordate più che quei fiori son nati all'aria libera, sono sbocciati spontanei, si sono educati per virtù naturale nel loro ambiente selvaggio crescendo a tal bellezza di forme sotto gli occhi di Dio fino a tanto non si posarono sovr'essi gli occhi di un viaggiatore, che ne raccolse i semi, o scavò dalla terra i loro bulbi preziosi.

Ammirato, affascinato dalla bellezza, dalla grazia del fiorellino silvestre, Gino Malatesti poteva dirsi guarito. E ripensando alla marchesa Polissena, dopo due mesi di vita alle falde del Cimone, poteva ragionare tranquillamente sul modo in cui ella si era diportata con lui, per conchiudere filosoficamente in questa forma:

– Era l'abitudine, la sola abitudine che ci teneva legati. Non la nostra volontà, che sarebbe parsa una mancanza di cortesia, ma un caso esterno, indipendente da noi, poteva solo troncare quel vincolo. E il caso è venuto, ha spezzato, ha interrotto, ci ha sviati ambedue. Si poteva, per altro, si doveva salvar l'apparenza delle cose. Io, senza pensare a questo dovere di cerimonia, ma credendo di amar tuttavia, mi ero bene affrettato a farmi vivo con lei. Ed essa, invece? Non è il caso di dire che le mancarono le occasioni. Io gliene avevo pure offerto una, e sicura. Ma no: silenzio, ripresa di passatempi, di distrazioni, a cui ha dato una bellissima chiusa il viaggio di Lucca. E passandomi davanti agli occhi, per giunta! Dunque?.. Dunque è da credere… Via, diciamo le cose come stanno, senza riguardi, senza ipocrisie, roba buona soltanto per le trattazioni in contradditorio, come dicono i legali. Dunque è da credere che la marchesa Polissena non fosse solamente stanca di un amore durato quattr'anni, ma che avesse già pronto l'altro, da sostituirgli. Il surrogante, ecco il segreto. Ma chi sarà, il surrogante? – Quello era un abisso, in cui si smarriva la mente del pensatore. Che, si fa celia? Trovare, fra i cavalieri che circondano una donna, quale sarà il preferito del domani? Tanto varrebbe attentarsi di pronosticare, fra cento api che ronzano intorno ad una rosa, quale fra tante giungerà seconda a rapire la sua parte di miele. Aggiungete, per render più difficile la cosa, che il fiore è inerte e il calcolo delle probabilità può favorire l'ape più forte e più ardita; laddove la donna, specie quando ha l'ingegno e l'esperienza della marchesa Polissena, sa sceglier lei, e fingere fino a tanto che le importi di fingere. Qualche volta ella sceglie fuori della cerchia conosciuta, ed allora addio indagini sottili, addio calcoli di probabilità. Direte che in tal caso, se è più difficile pronosticare, è più facile indovinare, andando sull'orma, poichè mentre la donna sa fingere, l'uomo, scelto da lei in una classe diversa, facilmente si tradisce e si scopre. Ma il nostro Gino non era là, per fare quello studio, e doveva almanaccare da lungi.

Del resto, se l'idea gli era venuta, il pensatore l'aveva anche scacciata. No, niente di fuori via. La città non era così grande, da dissimulare una di queste avventure. La marchesa Polissena, tutta sussiego, misura e riguardi sociali, non doveva aver scelto che tra suoi pari, tra coloro che potevano essere ad ogni ora da lei; a farla breve, tra i frequentatori della sua casa. Lì, non altrove, bisognava cercare e trovare.

Prima di tutto, non un cavaliere maturo. Ricordando parecchi esempi, Gino aveva ragione di credere che questi fossero piuttosto gli amori delle donne giovani. Ancora non ne aveva indovinata e svolta la teorica sottile; ma, come vi ho detto, aveva presenti alla memoria gli esempi. Sentiva in quella vece, aveva per certa la teorica contraria, applicabile alle donne che son vissute di più nelle consuetudini del mondo elegante, che hanno già acquistata l'esperienza, non avendo perduta ancora la bellezza, nè il desiderio di piacere. Quelle, si sa, amano i giovani, magari gli adolescenti. Si forma lentamente nella donna, e ad una certa età si rivela, l'istinto educatore. Si respira il profumo di un affetto giovanile, l'incenso di una ammirazione sconfinata, e si dà in ricambio la grazia, l'uso della civil compagnia, la garbatezza dei modi, la gravità precoce, tutte le virtù cardinali del moderno gentiluomo. Si prende un giovane ardente, rumoroso, matto, e se ne fa un modello di serietà, di discrezione, di tenerezza contegnosa, un cavaliere, insomma. E non per far concorrenza ai governi, nè in quel modo che essi sogliono fabbricare i lor cavalieri; quantunque al suo alunno, durante la veglia d'armi, e anche dopo, la nobile e dotta educatrice ami spesso far portare la croce.

Chi, dunque? L'indagine diventava scientifica; e il conte Gino aveva una bella equazione da sciogliere.

Il Mortanelli? No, non era più abbastanza giovane. E poi, era uno sciocco. Parlava sempre de' suoi cavalli, che non erano neanche belli, e spesso nelle conversazioni si rideva delle sue compere, in cui otto volte su dieci era ingannato dai mercanti. Il conte Sestoli? Che! Quello era un piccolo vanaglorioso, refrattario ad ogni educazione di quel genere. Proteggeva tutte le figuranti di teatro, e non istava bene che con quelle. Il principe Orsi di Frassinoro? Bello, assai bello, ma di una bellezza femminea. Le donne non amano negli uomini quel genere di bellezza che possiedono esse. Poi, il signor principe Orsi di Frassinoro era innamorato ferocemente di se stesso. Passava tre ore ogni mattina allo specchio, e la cosa era risaputa da tutti. Si diceva qualche volta di lui: – Oh Dio! Come è bello! Se non avesse quei pizzi biondi e quei baffettini, che cosa stupenda! Con quegli occhi azzurri, con quella tinta di cera vergine sul viso, si direbbe una donna, una bellissima donna, russa o svedese. Gran trionfatore tra le borghesuccie che aspirano all'alto, il principe Orsi di Frassinoro non era tagliato per ottenere la più piccola vittoria nella sua propria classe. Le donne eleganti e galanti sentivano per quell'effeminato l'antipatia istintiva che avrebbero sentita per ogni donna la quale potesse gareggiar con loro di bellezza o di grazia. Non poteva esser un amante, il Frassinoro; era troppo un rivale.

Gira rigira, la batteva tra due: il conte Nerazzi e il marchese Landi; ambedue amici suoi, belli senza eccesso, non sciocchi a prima vista, ma neanche spiritosi. Dei immortali! Anche noiosi la parte loro, con quel fare compassato, e con la cura astuta che mettevano a nascondere, facendola spiccar meglio, una piccola vittoria, o a darsi merito di non averne ottenuta mai una. Ma sono questi gli uomini che piacciono. – «Ebbene, Landi, qual è oggi la dea dei vostri pensieri? – Signora, non c'è dea, per me, e dubito perfino di aver dei pensieri. – Ah, molto spiritoso, ed anche discreto; due cose che ordinariamente non vanno molto d'accordo. Ve ne faccio i miei complimenti. E voi, Landi, non amate? – No, signora; il mio giorno non è ancora venuto. – Come! C'è un giorno ed un'ora da aspettare? – Sì, il giorno e l'ora del nostro destino. Se amerò, non amerò leggermente. – È giusto e vi lodo. Fossero tutti come voi!» – E la dama galante che ha fatta questa scoperta, la mette bravamente in serbo. Avrà un altro amore, lei; ma il Landi, o il Nerazzi, secondo i gusti, è un buon amico, e un grande amore non esclude una piccola amicizia, una certa simpatia, nata da conformità di pensieri, «siccome tra cortesi alme si suole.» E lo difende, il giovane amico, quando gli altri lo attaccano. – «Il Nerazzi è un buon giovane; c'è in lui la stoffa di un cavaliere perfetto. – Non mi dite male del Landi; è un uomo serio, d'una sensibilità molto rara, di una delicatezza a tutta prova.» —

O il conte Nerazzi, dunque, o il marchese Landi. Qui il nostro Gino Malatesti ricordò in buon punto la prima lettera ricevuta dal suo confidente Giuseppe. «Mi pare (scriveva il buon servitore) che la sua condanna abbia raffreddato molte persone, di quelle che V. S. credeva più amiche, e con le quali andava più spesso. Il conte Nerazzi, per esempio, e il marchese Landi, quando ho dato loro un cenno del suo viaggio, mi hanno risposto con un semplice monosillabo. Sarà forse perchè non hanno confidenza in un povero servitore; ma una notizia almeno me la potevano chiedere, e mostrare un po' di amicizia per la sua persona. Oso sperare che in questo Ella non troverà sbagliato il mio ragionamento.»

No, buon Giuseppe, il vostro padrone non lo aveva trovato punto sbagliato. Ed ora, poi, ripensandoci, lo trovava profondo, sottile, profetico. Forse, chi sa? Giuseppe aveva già fiutato qualche cosa del vero. Perchè indicava nella sua lettera piuttosto quei due, che tanti altri amici del conte Gino? Erano quelli con cui il conte andava più spesso. Sì, questa era la frase; ma non rispondeva intieramente al vero, perchè Gino andava con quelli, come con tutti gli altri, e non aveva preferenze. Ah, il suo servitore Giuseppe, volendolo o non volendolo, aveva messo il dito sulla piaga. Il conte Nerazzi e il marchese Landi erano i due più avanzati, per vogargli sul remo. Ma quale dei due il preferito?

Il conte Nerazzi era un bel giovane; ma, per mentire in qualche modo al suo nome di famiglia, aveva i capegli rossigni. La marchesa Polissena, che li aveva di un bel biondo acceso, poteva amarli rossigni? Le simpatie, ordinariamente, non si formano sulla somiglianza del colore, e meno ancora nel sopraccolore, che rende più intensa una tinta e la esagera. Il marchese Landi era bruno, ed anche leggermente più stupido del Nerazzi: due ragioni forse per piacer di più alla marchesa Polissena. Qui il conte Gino faceva un gran torto a se stesso, poichè egli era piaciuto prima di quell'altro alla dama, e il suo ragionamento gli portava per conseguenza legittima un grado maggiore di stupidità, in confronto di quella che egli attribuiva al Landi. Ma voi sapete che l'onestà, la probità, la lealtà, e via via tutte le virtù umane, non salvano il più perfetto cavaliere da un po' d'ingiustizia, quando egli deve nell'interno della propria coscienza giudicare il suo simile.

Ritornando al paragone fra i due supposti pretendenti, il Landi era di più antica nobiltà. Apparteneva ad un ramo trapiantato da tre secoli a Modena, dei Landi di Piacenza, grande famiglia principesca, che aveva posseduto città e castella, ed esercitato diritti di vera sovranità. Si diceva infatti: lo Stato Landi, per indicare i possedimenti di quell'antica famiglia. Aggiungete che tra il casato dei Landi e la marchesa Baldovini si era notata una sera, in conversazione, una affinità casuale, ma strana. E di quella conversazione e di quella affinità si ricordò il conte Gino in buon punto.

Si era venuti a parlare dei Landi di Piacenza, e il marchese Baldovini, forte in araldica e in genealogia (non sapeva altro, il brav'uomo!) aveva detto al marchese Landi, modenese:

– Sapete, Emilio, che i vostri maggiori avrebbero potuto vantare qualche diritto alla successione della grande famiglia omonima, quando ella venne a spegnersi in una donna, come la casa Farnese?

– Ah, è vero! – aveva risposto Emilio Landi. – Ricordo la cosa, molto confusamente, per altro.

– Ve la spiego io. L'ultima di casa Landi fu Donna Polissena, che entrò nella famiglia dei Doria Pamfili, di Roma, e furono questi che ereditarono ogni cosa.

– Polissena! Come me! – aveva esclamato la marchesa.

– Già! – rispose Emilio Landi. – Polissena è un bel nome antico. —

Ed era diventato rosso, facendo quella scoperta.

Gino Malatesti aveva osservato la cosa, ma senza fermarcisi troppo. Infine, non era che un complimento, reso necessario dalla somiglianza, dalla identità d'un nome di battesimo.

Ma ora, ritornandoci su, capì meglio; indovinò la cagione di quel rossore; e sorrise e si stropicciò le mani. Perchè oggi, lo sapete, non si grida più: eureka! Quando si scopre qualche cosa, ci si stropiccia le mani e si ride.

Nel caso di Gino Malatesti, la risatina indicava ancora che egli non era solamente felice di avere scoperto un segreto, ma anche perfettamente guarito dell'amor suo per la bionda marchesa.

– Infine, – diss'egli, conchiudendo lo studio, – sia Landi, Nerazzi, e magari tutt'e due, che importa a me? Buona fortuna, signori! —

Capitolo IX.
Due lettere

O Fiordispina! Voi foste allora la donna più felice d'Italia, per non dire del mondo; amante, amata, e sul mattino dell'amore. Perchè, infatti, qual cosa è più bella del principio, nel giorno, e del mattino nell'amore? L'alba promette il meriggio, la luce, la vita, il piacere. Ogni sensazione è fresca, in quell'ora; ogni pensiero è gaio, e la speranza involge tutto de' suoi grati colori. Sull'alba, poi, il calar delle nebbie, il dileguarsi delle nuvole, vi scopre da principio le vette dei monti, vi mostra a mano a mano più ricisi i profili delle colline, vi rischiara le insenature delle convalli, dove la bella luce del giorno nascente illumina ad un tratto qualche ceppo di case, e va a cercare sotto un pergolato la graziosa figura di una fanciulla mattiniera, escita sul terrazzino a respirare la fragranza dei fiori. Così nell'alba dell'amore, i cuori si scoprono a vicenda le loro delicatezze arcane, le loro virtù recondite, i tesori del sentimento e tutto il meglio della nostra povera creta. Ed è grato lo studio, ed ogni novità che si scopre è un'allegrezza per noi.

I giorni delle Vaie si seguivano e si rassomigliavano; cosa piacevolissima, quando i giorni son belli. Gino Malatesti si era fatto grave, di quella dolce gravità che nasconde la beatitudine, ma lascia indovinare i gaudii anticipati di un'anima, la quale sa e può trattenere i suoi desiderii nella certezza del possesso. Dio, quante parole inutili! Ma le ho buttate là, e rimangano pure. Il giovanotto scendeva ogni mattina da Querciola, ma quasi sempre a piedi, e faceva per via un bel mazzolino di fiori selvatici. Giungeva alle Vaie ogni giorno alla stess'ora, cioè verso le undici, ed ogni giorno, a quell'ora, una bella forma di fanciulla appariva sul terrazzo, di fianco alla casa dei Guerri. Gino salutava, e si fermava ad un certo punto, per gittar sul terrazzo i suoi fiori, senza fallar mai il colpo, che sarebbe stato di mal augurio sbagliar la parabola. Poi, fatto un altro saluto, entrava in casa, presentava i suoi omaggi alle signore, chiedeva notizie di tutti, dava le sue, quando ne aveva, e faceva un po' di musica con Fiordispina, o leggeva qualche pagina di libro, ad alta voce, aspettando l'arrivo degli uomini, degli amici suoi, che ritornavano per l'appunto sul mezzodì, dalle loro occupazioni quotidiane.

Dopo il pranzo si scendeva in giardino, a far quattro passi e a visitar le piante rare. Esse non erano più tutte nella stufa, poichè la stagione calda permetteva a molte di rimanere all'aperto; ma alcune si tenevano sempre là riparate, perchè le notti, alle falde del Cimone, quantunque di estate, non erano calde abbastanza. Per altro, nelle ore del giorno, le finestre della stufa erano tutte spalancate, perchè i fiori bevessero la loro parte d'aria e di luce.

Fiordispina e il conte Gino correvano sempre a visitare la bella raccolta di eriche del capo di Buona Speranza. Sentivano forse che il nome era di buon augurio per essi? Fiordispina ammirava i grappoli di campanelluzzi eleganti, variamente colorati, che pendevano dalle asticciuole ramose; Gino la seguiva nelle sue osservazioni, ma non così attentamente com'ella avrebbe voluto, e vedeva le guance di Minerva tingersi di un incarnato più vivo, quando ella si accorgeva che il compagno guardava troppo un mazzolino di fiori selvatici, sporgente dalla gala di mussolina che ornava e nascondeva ad un tempo lo scollo della sua veste di lana.

Anche le gite lontane si seguivano frequenti, ed un giorno si andò fino a Bismantua. Si era parlato tante volte di far quel viaggio! Fiordispina non c'era mai stata, e Gino moriva dalla voglia di guadagnar quella vetta, che rassomigliava tanto al profilo di una gran testa arrovesciata, in atto di guardare il cielo. Si dice questo in grazia di un naso colossale, che è raffigurato dal colmo della montagna, a chi lo guardi da lunge.

Quel giorno, si sa, venne in campo la famosa terzina dantesca, dove il sasso di Bismantua è ricordato. Il Poeta passa in rassegna le più difficili strade da lui fatte ne' suoi continui viaggi, per paragonarle alla faticosa salita del suo Purgatorio.

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, Montasi su Bismantova in cacume Con esso i piè; ma qui convien ch'uom voli.

– E qui è stato il padre della patria; – disse Gino, salendo anch'egli «con esso i piè» ma non senza fatica sull'erta del monte. – Di qui ha veduto il nostro Cimone e l'Alpe di San Pellegrino, l'Alpe di Succiso, il Mal Passo e l'Orsaro; qui gli si è stesa davanti agli occhi quella fila di giganti che sono laggiù i monti Apuani. Non credete voi, Fiordispina, che tutte queste scene di sassi, orridamente belle, ammirate da lui sul colmo di Bismantua, siano entrate per molta parte nella composizione del Poema sacro?

– Sì, – disse Fiordispina, – dovete aver ragione. Ma io penso ancora un'altra cosa, quassù. Penso che in molti versi, sparsi qua e là nella Divina Commedia, il Poeta mostra di credere alla grandezza del suo lavoro; ma che nessuna cosa indichi meglio questa sua fede, che il fatto di aver vedute o descritte con un cenno maestro tante regioni d'Italia. Da ogni terra ch'egli ha visitata, Dante prende un'idea, un colore, una immagine, e le aduna nel suo poema, che sarà la Bibbia degli Italiani, quasi volesse rappresentarci la penisola già unificata nella sua mente profetica.

– Ah! – gridò Gino. – Si avverasse presto il gran sogno! —

Così la gita di Bismantua si era mutata in un pellegrinaggio di voto, come se i nostri due innamorati fossero andati ad un santuario antico, per venerare gli Iddii della patria. Ma a tutti fa questo senso Bismantua, anche senza aver compagna nella salita una bellissima donna, che abbia letto Dante e lo ami.

Quel giorno, sotto la vetta del monte, Gino Malatesti incise tre nomi sulla corteccia di un faggio: il nome del Poeta su in alto; più sotto il nome di Fiordispina ed il suo. Oh, non c'era pericolo che facesse errori, scrivendo il nome di lei! Questi malanni non occorrono che in sogno.

Nella realtà, piuttosto, ne occorrono degli altri. Il conte Gino, per esempio, al suo ritorno di Bismantua, trovò una lettera, che aveva lasciata per lui il procaccia. Da qualche tempo, sapendo che il conte Malatesti faceva capo ogni giorno alle Vaie, era uso del procaccia di consegnargli le sue lettere laggiù, o di lasciargliele, se non lo avesse trovato.

– Notizie di casa tua; – disse Aminta, separando la lettera di Gino da quelle dei Guerri, e consegnandola all'amico.

– No, – rispose Gino, dopo aver dato una guardata alla soprascritta, – non è il carattere dei miei. —

Ma dopo aver guardato il carattere, guardò anche il bollo postale. La lettera non veniva da Modena; veniva invece da Lucca.

Chi poteva scrivergli da Lucca? Erano già scorse parecchie settimane senza che Gino Malatesti ricordasse la esistenza di quella graziosa città. Da Lucca? Ah, gli tornava allora la memoria del passato, e sebbene quello della soprascritta non fosse il carattere di una certa persona, la provenienza della lettera lo seccò molto, molto, molto; lo seccò tanto, che egli cacciò la lettera in tasca, senza darsi la briga di aprirla.

– Tu fai sempre complimenti con noi; – disse Aminta, che aveva veduto quell'atto.

– No, sai? non ne faccio; – rispose Gino.

– Ah, dico bene! Non ne sarebbe il caso; – replicò Aminta. – Noi intanto leggiamo bene le nostre.

– La mia è la lettera di un noioso; – disse Gino. – Ci sarà sempre tempo a leggerla. —

E gli parve di respirar meglio, poichè l'ebbe seppellita nel fondo della tasca, con quel po' po' d'epitaffio.

Bel coraggio! direte. Bella tranquillità d'animo! E il più bello fu questo, che non sapete ancora. Gino Malatesti non lesse quella lettera neanche a Querciola; non la lesse il giorno appresso, nè l'altro che seguì. Passarono otto giorni, a farvela breve, e la lettera di Lucca stava sempre là suggellata; non più in una tasca dell'abito, ma in un angolo del suo cassettone. Ciò avviene qualche volta a tutti, e non è sempre una prova di coraggio, ahimè, nè di tranquillità d'animo; ve ne ricordate? Si è messa quella lettera in disparte, rimandandone la lettura fastidiosa ad un momento più tranquillo; ma quel momento non vien mai; e i giorni passano, frattanto; e quando, rovistando le vostre carte, quella lettera malaugurata vi viene davanti, fremete, vi adirate con voi medesimi, e paghereste qualche cosa perchè non ve l'avessero scritta.

Dunque, coraggio e tranquillità d'animo, no; piuttosto una diffidenza, un sospetto, che confinavano con la paura di legger cose spiacevoli, di esser tirato in altre difficoltà, solamente (ma era già abbastanza per lui) di rinnovare sensazioni dolorose. E perchè le noie sono come le disgrazie, loro sorelle maggiori, che non vengono mai sole, otto giorni dopo l'arrivo della lettera, rimasta suggellata nel suo cassettone, e mentre Gino se ne stava alle Vaie, seduto nel salotto dei Guerri, capitò una fantesca ad annunziare: – sono arrivati due signori. —

– Ebbene, – disse il signor Francesco, – falli entrare.

– Cercano del signor conte Malatesti; – ripigliò la fantesca.

– Falli entrare egualmente; – replicò il vecchio Guerri.

A quell'annunzio il conte Gino si era fortemente turbato. Chi diamine poteva cercar di lui? E là, poi, in casa d'altri, quando il suo domicilio era a Querciola?

– Aspettate; – diss'egli, trattenendo col gesto la donna, che già si moveva per obbedire al comando del signor Francesco. – Non è conveniente che io regali questa seccatura ai miei ospiti. Andrò a ricevere questi importuni nell'anticamera. —

E prima che il signor Francesco potesse rispondergli, escì dalla sala, per entrare in quella cameretta che conoscete.

Poco stante, avvisati dalla fantesca che potevano salire, apparvero i due forastieri sull'uscio. Gino riconobbe il commissario di polizia e l'applicato che aveva già ricevuti una volta, sul principio della sua dimora a Querciola.

L'atto suo fu di meraviglia, e non lieta. Il commissario se ne avvide benissimo, e cercò di rimediare con una buona parola.

– Non si turbi, signor conte, la prego; – diss'egli. – Portiamo notizie allegre. —

Non c'erano notizie allegre da quella parte, per il conte Gino Malatesti, e il suo viso non si rasserenò punto punto.

– Siamo stati a Querciola; – ripigliò il commissario; – ma abbiamo avuto il dispiacere di non incontrarla. Ci han detto che forse avremmo potuto trovarla qui, dai signori Guerri, dov'Ella usa venire…

– Sì, a far visita; – interruppe Gino, seccato e confuso ad un tempo.

– Ottima cosa avere dei buoni vicini! – osservò il commissario. – Si passa gradevolmente qualche ora del giorno, in attesa d'un fortunato cambiamento.

– Ha qualche cosa da annunziarmi? – disse Gino, riconducendo il signor commissario all'argomento della sua visita.

– Sì, e tale che le farà piacere. Ma io non ardirò sostituirmi al suo signor padre, cui spetta il piacere di dargli la notizia, dopo avere avuto il merito di provocare il fatto. Eccole una lettera del signor conte Jacopo, che le spiegherà meglio la cosa. —

Gino prese con mano tremante la lettera che gli porgeva il commissario; l'aperse, non senza fatica, e lesse quel saggio della prosa paterna.

«Mio caro figlio,

«Avrei dovuto, per i torti vostri e per il danno morale che essi hanno recato alla mia casa, lasciarvi dove il giusto rigore del Governo vi aveva confinato. Ma son padre, e mentre la mia severità non muta i suoi giudizi, il mio cuore e lo stesso decoro della famiglia non potevano che farmi desiderare di veder cancellata con un atto di clemenza sovrana quella macchia che i vostri diportamenti hanno fatta al buon nome dei Malatesti. Sua Altezza Serenissima ha voluto accogliere benignamente le mie preghiere, ed esagerando nella sua grazia qualche merito mio, non vedere nei vostri atti che l'effetto di una leggerezza giovanile, che il tempo e i consigli correggeranno, se già non è bastato l'esempio salutare di tre mesi di confine. Quasi sarebbe inutile il dirvi che io mi sono impegnato formalmente e solennemente per Voi, promettendo che d'ora innanzi avreste mutato intieramente il vostro tenore di vita, e in particolar modo per quel che si attiene alle relazioni, alle amicizie. Meno amici avrete, e più potrete sperare di averli sicuri. Del resto, vi sarà libera la scelta nella vostra medesima classe, con maggiore onor vostro e rispetto al principio di autorità, di cui tutti, se onorati del favore sovrano, rappresentiamo una parte. Nutro speranza che non mi farete bugiardo, e non mi costringerete a considerarvi straniero alla nostra famiglia. Desidero frattanto di rivedervi presto, e a quest'effetto mi recherò giovedì mattina ad incontrarvi a Sassuolo. La mia età non mi permette di fare un più lungo viaggio. Vi aspetterò dunque colà, nella giornata di giovedì, lasciandovi in questo modo il tempo di fare le vostre valigie.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
440 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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