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Kitabı oku: «La montanara», sayfa 9

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– Che cosa pensa? – gli domandò Fiordispina.

– Penso, – rispose Gino, – alla fantasia del nostro ottimo prevosto.

Egli è Pietro, e su quella pietra ha edificata una graziosa leggenda.

Mi dica lei, signorina, ora che ha quel bizzarro profilo sott'occhio.

Le par proprio quella una figura da innamorarsene a prima vista?

– È di sasso, – replicò la fanciulla, – e chi sa quanti sconcerti atmosferici hanno lavorato a guastarle il profilo! Povera ninfa del lago! Ci vuole sicuramente uno sforzo di volontà, per ricostruirne i contorni. Ma noi, fra cent'anni, – soggiunse la fanciulla, sospirando, – saremo più riconoscibili di lei?

– È un pensiero filosofico, signorina; – disse Gino; – ed anche molto pietoso per quella povera morta. Ma non basta a salvarla; ne conviene? —

La fanciulla non ebbe tempo a rispondere.

– Venite qua, Fiordispina; – gridò in quel punto il vecchio prevosto. – Ed anche Lei, signor conte. I due più giovani della brigata si stringano intorno al più vecchio. Così! E tutti gli altri in giro, perchè siamo al momento solenne. Che nome vogliamo noi dare a questo burchiello?

– Dica Lei, signor conte; – mormorò Fiordispina, a cui era rivolto il discorso di Don Pietro.

– Non l'oserò mai; – disse Gino, che avrebbe dato volentieri il nome della fanciulla.

– Bene, vedrò dunque io d'interpretare il suo pensiero; – rispose Fiordispina. – Facciamo una cosa alta, non è vero?

– Siamo in alto per questo; – disse Don Pietro. Fiordispina, allora, si accostò al vecchio prete e gli susurrò una parola all'orecchio.

Don Pietro si scosse, sospirò, levò gli occhi al cielo, come per chiamarlo testimone ed auspice di un voto del cuor suo; poi, con atto paterno, baciò in fronte la fanciulla.

– Che tu sia benedetta, – diss'egli, – come io benedico nel nome di Dio questa fragile barca. Va, – soggiunse allora, sospingendo il burchiello, – va nel nome d'Italia, che Fiordispina Guerri t'ha imposto, e conduci le sue fortune all'altra riva, alla meta sospirata dei nostri cuori. —

La scena, piccola com'era, aveva una grandezza semplice, una solennità commovente.

– Italia! – gridarono tutti. – Viva l'Italia! —

– Così l'avete chiamata? – mormorò Gino, volgendosi alla fanciulla, e dimenticando in quel punto le forme cerimoniose di discorso che aveva sempre usate con lei.

– Non è il vostro sospiro, conte? – diss'ella di rimando. – E non siete qui per amor suo? —

Così, senza lunghi discorsi, che non era il caso, senza bandiere, che non ce n'erano di pronte, ma con grande effusione di cuori, fu lanciata sulle acque l'Italia. Illustre signor commissario, e voi non eravate là per riferire del fatto!

Il conte Gino, preso da un impeto subitaneo, era saltato dentro il burchiello, e di là porgeva la mano a Fiordispina. La bella montanara, presa la mano del conte, balzò ardita e leggiera sul capo di banda, prima che alcuno pensasse a trattenerla, o a sostenerla nel salto.

– Che fate? – gridò la signora Angelica.

– Non vede, signora? – disse Gino. – Andiamo alla meta. —

E afferrava i remi, per adattarli sugli scalmi.

– Aspettino almeno che venga un uomo con loro; – disse il signor Francesco. – Aminta, entra anche tu nel burchiello.

– Crede al vortice, Lei? – chiese Don Pietro al vecchio Guerri.

– No, davvero; ma sono due giovani, e un po' d'esperienza…

– Li lasci andare, sor Francesco. È un viaggio che tocca ai giovani.

– Non temer nulla, del resto; – disse Aminta a suo padre. – Noi andremo lungo la riva, tenendo la fune. —

Il pensiero di Aminta parve buono al vecchio Guerri. Il lago, di forma elittica, non misurava che trecento metri nella sua maggiore larghezza, e la fune legata alla poppa, quando gli uomini che ne tenevano il capo andassero lungo la riva seguitando il corso della barca, poteva bastare per accompagnarla fino al piede della balza, obbligando all'uopo il rematore a piegare da un lato, anzichè a tenersi nel mezzo del lago.

Gino, allegro e superbo della sua piccola audacia, vogava arditamente, contemplando la fanciulla, che stava seduta a poppa, con una mano penzoloni fuori del capo di banda, sfiorando l'acqua fresca col sommo delle dita e segnando lo specchio azzurro d'una piccola striscia d'argento.

– Voi siete Minerva, o la saviezza incarnata; – disse Gino alla fanciulla. – Così fossi io Achille, per obbedirvi e giungere sotto il vostro patrocinio alla vittoria sperata!

– Sì, se non ci fossero altri pericoli che questo! – esclamò Fiordispina ridendo. – Ma per l'impresa a cui alludete, signor Gino, se anche io fossi Minerva, ci vorrebbe un Ulisse.

– E vada per Ulisse; – replicò Gino. – Siamo in acqua, di fatti, ed egli ne corse molta, con l'aiuto della Dea. —

La fanciulla sorrise, ma non rispose più altro. Pensava ella a tutte le avventure dell'eroe itacense? e alla lunga solitudine della casta Penelope?

Frattanto, il suo mite sorriso correva sulle acque, illuminando quella pace profonda, meglio che non facessero i raggi obbliqui del sole, penetrando a lunghi sprazzi dorati tra i faggi e gli abeti, lunga e fitta selva di lance vigilanti, ond'erano contornate e chiuse le verdi rive del lago.

– Eccolo, il famoso vortice! – disse Gino, mentre il burchiello sotto l'impulso dei remi giungeva quasi a rasentare il centro dello specchio azzurro. – Vedete che tranquillità d'acque!

– Mio fratello crede più di voi alla voce popolare; – rispose la fanciulla. – Egli ci tira insensibilmente da un lato e non ci lascia andar sopra al punto pericoloso.

– Ma ci permette di vederci dentro; – replicò Gino. Guardate là, come si distingue il fondo. Ci saranno sei metri d'acqua, a far molto.

– Avete ragione; le cose vedute da vicino pèrdono assai del loro carattere pauroso. Anche la ninfa del lago dà meno illusione agli occhi, quanto più ci accostiamo al suo trono di pietra. L'unica cosa che le rimanga è la sua capigliatura dorata. Infatti, al raggio del sole, la vetta dello scoglio par bionda. Non amate il biondo, voi, signor Gino?

– Sia il colore delle donne di pietra; – rispose il giovane, senza pure voltarsi sui remi a guardar la scogliera. – La donna vera, la donna vivente, sia ala di corvo… come voi.

– Ahi – gridò Fiordispina. – Il topolino bianco!..

– E vi dispiace, signorina? Qui almeno dovrebbe essere tollerato. Credete che sia mai stato detto un complimento, in questo punto del globo?

– No, davvero; è la prima volta di certo. Accettiamolo dunque. Ma se quella bionda vi sente, povera la nostra barchetta!

– A proposito! – disse Gino. – Mi fate pensare che bisogna tener d'occhio la riva. —

Così dicendo, si volse, e levatosi in piedi vogò con la faccia rivolta alla sponda. La balza, dalla parte del lago, offriva agli occhi uno scoscendimento di sassi, di lastroni sfaldati, che ingombravano il lido. Quello era un vantaggio per la barca, che poteva accostarsi, senza toccare con la chiglia il terreno, ed offrire un più facile approdo ai nostri due viaggiatori. Il conte Gino rallentò la voga, per non urtare nei lastroni sporgenti; e quando venne a rasentarli con la prora, fu lesto a disarmare i remi, per saltar subito a riva. Di là, trattenendo con una mano il piccolo legno, tese l'altra a Fiordispina, che lo imitò prontamente.

– Terra! terra! – gridò Gino alla comitiva, che dalla sponda opposta aveva seguito con gli occhi il viaggio dei due giovani argonauti. – Aminta, tira il burchiello a te, e seguici sull'intentato pelago.

– Con poco rischio, oramai; – rispose Aminta, mentre lavorava con la squadra dei boscaiuoli a tirare la fune.

Lasciamo che la barca ritorni indietro, rasentando la scogliera, e seguiamo i due giovani. Gino aveva presa la fanciulla per mano e la conduceva di sasso in sasso fino al piede della balza. La ninfa del lago era là, supina sul guanciale di pietra, ma ohimè, come aveva già detto Fiordispina, non più riconoscibile.

– Siete qui, affascinatrice leggendaria? – diss'egli, accostandosi al sasso. – Vi tocchiamo, finalmente, e come il vortice non ci ha inghiottiti, così le vostre bellezze non ci faranno smarrire la ragione. La cosa, del resto, sarebbe stata impossibile, qualunque fosse il poter vostro. Vedete questa gentile fanciulla? Orbene, sappiate, vo' dirvi una cosa all'orecchio, com'ella dianzi ne ha bisbigliato una a Don Pietro. —

E si accostò al masso, mormorando parole indistinte.

– Ecco! – esclamò Fiordispina. – La Ninfa non è cortese come Don Pietro, che ripetè ad alta voce ciò che io gli avevo bisbigliato all'orecchio.

– La Ninfa è di pietra; – rispose Gino. – Se fosse viva, e se potesse parlare, ripeterebbe che io vi amo. Ecco una cosa che non è mai stata detta qui. Vi dispiace, signorina? – soggiunse egli, vedendo che la fanciulla si era turbata. – Son io stato troppo audace e vi ho offesa con le mie pronte parole? Perdonate, Fiordispina! Non è sempre dato tacere quello che si ha nel cuore. Il mio è pieno di voi.

– Non ho da perdonarvi nulla; – rispose Fiordispina, abbandonandogli con atto confidente la mano ch'egli aveva afferrata. – Siete sincero, e la sincerità è una bella cosa, che deve piacere ad ognuno. Ma dite, signor Gino, avete voi pensato… a tutto?

– Tutto!.. – diss'egli, perplesso. – Tutto… siete voi, oggi.

– Oggi! – ripetè la fanciulla, crollando mestamente il capo. – Son io, l'oggi, e siete voi, Gino. Ma il domani! Il domani è la vostra famiglia, che vi richiama. Il domani è il conte Jacopo, vostro padre, la cui volontà dovreste consultare… e rispettare. —

Gino rimase un istante sopra di sè.

– Mi fate pensare, – diss'egli poscia, – che dovevo parlar prima al vostro. Correggerò l'errore, non dubitate.

– No, non lo fate! – gridò la fanciulla. – Io non vi domanderò di leggere meglio nel vostro cuore, perchè vi offenderei, parlandovi così. Vi domanderò invece di essere ben certo di ciò che vostro padre potrebbe consentirvi, negarvi. Ho pensato molto a queste cose, sapete? Ci ho pensato lungamente, e da gran tempo. Io, signor conte, vi ho amato fin dal primo giorno che vi ho veduto. Non so se queste cose si debbano dire; ma voi attribuirete la mia sincerità alla inesperienza degli usi del mondo. Per me, eravate infelice, condannato a vivere tra questi monti, lontano da casa vostra e da tutte le vostre cose più care. Dovevano venire a voi tutti i cuori, per medicare le ferite vostre, per farvi dimenticare le amarezze della vita. Era naturale che io vi amassi, conte Gino; dirò di più, era fatale. Ma quando mi sono avveduta che anche voi mi amavate, – e qui, la voce della fanciulla fu quasi per ispegnersi in un singhiozzo, – allora ho incominciato a tremare. Che avverrà? ho detto allora a me stessa. Che avverrà? vi ripeto oggi ancora. Per me, conte Gino, io non lo so, non oso cercarlo. C'è buio, nel futuro, ed ho paura di andare innanzi, perchè temo di trovarci un gran vuoto, un terribile vuoto.

– Qual pensiero! – esclamò Gino. – Perchè questi timori? Non avete voi fede in me? Non l'ho io meritata?

– Ho fede in voi; – rispose la fanciulla. – Ma su di voi, su di me, su di noi tutti è il destino. Ho pensato molto, vi dicevo poc'anzi. Qui si pensa molto, quando si pensa; nulla ci distrae, nulla turba il quieto ed assiduo lavoro dello spirito; nessun pensiero, nessun affetto si diffonde o si perde; si raccolgono, si fortificano tutti nel profondo dell'anima. Che voi abbiate dei doveri, lo so; che abbiano a cozzare con le inclinazioni del vostro cuore, lo prevedo. L'idea che vi ha meritato il confine, non è sicuramente un'idea leggiera, se ad essa avete sacrificati gli affetti della famiglia e le consuetudini della vita. Chi sa quali altri sacrifizi non vorrà essa da voi? La patria, Gino Malatesti, sta sopra ad ogni cosa. Avete un bel nome; i vostri padri, prima di essere gentiluomini di corte, furono soldati, e sperarono tutti di collegare il loro nome al ricordo di qualche utile impresa; italiani di nascita, furono certamente italiani di pensiero, ed anche servendo a barbari, a predatori, ad avventurieri fortunati, si dolsero di veder correre la patria loro da tanti ladroni stranieri. Sventurati nell'esito delle loro fatiche, non vi hanno lasciata una patria rifatta, gloriosa e felice; ma hanno potuto lasciarvi un titolo ed una corona, come obbligo e incitamento a proseguire un'opera grande, da essi intravveduta, da essi vagheggiata. Per qual ragione ci sarebbero dei nobili, in un paese, se non fosse per dare l'esempio alle turbe? Lo stemma e la corona non furono inventati, che io creda, per dare un bel rilievo ai suggelli delle lettere, o per adornare gli sportelli delle carrozze, ma per offrire un segno di collegamento nella battaglia. Oggi, poi, tutti coloro che hanno potuto nutrir meglio lo spirito, hanno l'obbligo sacro di trovarsi ai primi posti, per l'ora delle prove solenni. Voi non credete già che l'Italia poserà sempre sotto lo scettro, o sotto il bastone dei suoi sette signori. C'è chi veglia e lavora a destarla. Forse lo scoppio dell'ira è vicino.

– Non tanto, – replicò Gino, – non tanto da impedire che voi portiate il mio nome. Sarò più forte, nell'ora delle prove, se voi sarete la contessa Malatesti. —

Fiordispina chiuse gli occhi, come per non vedere l'altezza a cui egli voleva trascinarla con sè.

– Bella cosa! – mormorò ella, dopo un istante di pausa. – La mia mano nella vostra; la vostra fede suggellata nella mia! Ma è forse un sogno. Vostro padre vorrà? Non dovrete combattere? E un combattimento di questo genere non porterà obblighi di molta delicatezza, e per voi e per me? Pensate anche alla mia famiglia, conte Gino. Ci chiamano i re della montagna, ed abbiamo il nostro orgoglio anche noi, sotto la semplicità dei nostri costumi. Noi non dobbiamo e non vogliamo sapere che il conte Jacopo Malatesti possa aver ricusata per un giorno, per un'ora, l'alleanza dei Guerri. Il carico della battaglia sarà tutto per voi. Potrete sostenerlo? Dio lo voglia, come io lo desidero. Ma se è troppo grave rinunziateci.

– Perdonate! – interruppe Gino. – Quali difficoltà immaginate voi ora?

Perchè mio padre non dovrebbe volere? Se egli vi vede, Fiordispina…

– Ecco, voi ne trovate un'altra, di difficoltà; – replicò la fanciulla. – Vostro padre dovrebbe ancora vedermi. La cosa è più lontana che non vi sembri, accennandola. Gino, ve ne prego! Nessuna leggerezza, in un così grave argomento! Con l'amore e con l'onore non si scherza, e voi stesso, voi cavaliere perfetto, potreste insegnarlo ad una povera montanara come son io. Pensate a me, qualunque cosa avvenga di noi. Giuratemelo, e questo mi basterà, perchè il vostro giuramento sarà quello di un uomo leale.

– A voi lo giuro e al cielo che ci vede; – disse Gino. – Il mio cuore è vostro; siete voi l'amor mio. E voi, Fiordispina?..

– Non chiedete di me; – rispose ella, con accento di nobile alterezza. – Voi avete forse già amato, signor conte. Io non ho amato mai, e vivrò di questo amore per sempre. Con queste poche parole io vi ho detto ogni cosa. O la felicità con voi, o la infelicità per tutta la vita. —

Il burchiello si accostava alla scogliera, portando il fratello di Fiordispina.

– Ebbene? – gridò Aminta. – Non venite a darmi il benvenuto nella vostra isola? —

Gino accorse, stese la mano ad Aminta, lo abbracciò stretto e lo baciò su ambedue le guance. Era anche la sua risposta alle ultime parole di Fiordispina.

– Dov'è questa Ninfa, che io non la vedo? – disse Aminta, volgendo gli occhi al sommo della balza.

– Eccola! – disse Gino, indicando Fiordispina.

La fanciulla era seduta sul masso, e la sua bella testa di Minerva Glaucopide spiccava con la precisione di un antico cammèo sul fondo azzurro del cielo.

– Vada per il complimento! – rispose Aminta, ridendo. – Ma non ha i capegli d'oro, che ci ha promessi Don Pietro.

– In pochi minuti tutto ciò è stato cambiato; – disse Gino. – Adesso la Ninfa li ha neri come ala di corvo. Aggiungi che non affascina più i cacciatori, ma dà eccellenti consigli agli ospiti di casa Guerri. Sai di che cosa abbiamo parlato, aspettandoti?

– Dell'Italia, ne son certo; – rispose Aminta. – Mia sorella non pensa ad altro, non vede altro, e noi salutiamo in lei una Romana antica.

– È troppo poco; – disse Gino. – Permettimi di credere che se fossero state così le Romane antiche, Roma comanderebbe ancora alle genti.

– Hai sentito, Fiordispina?

– Sì; – rispose la fanciulla, dall'alto.

– E ti pare?..

– Che il conte Malatesti abbia ragione. Prendiamo senza finta modestia quel che ci viene. Non è il valore, non è l'altezza della mente, che mi regala il nostro ospite, riconoscendo in me l'amore della patria. Oggi il culto dell'Italia nel segreto delle nostre case, o sulla vetta dei monti, lontano dal sospetto dei tiranni e dall'orecchio dei delatori; domani l'impeto della rivolta, il riconoscimento e l'alleanza delle libere volontà alla luce del sole. Ma allora voi combatterete, e noi pregheremo. —

Gino era in estasi, e taceva, come tutti gli estatici. Aminta, che non aveva le sue ragioni per rimanere a bocca aperta, ma che aveva pur sentito profondamente il discorso di sua sorella, stette un momento sopra di sè, poi scosse la testa con atto risoluto, e rispose:

– Combatteremo! —

Proferì quella parola, come se avesse giurato. Il conte Gino, scosso a sua volta da quell'accento solenne, prese la mano di Aminta e la strinse fortemente, associandosi al giuramento.

Il resto della giornata non si racconta. La scampagnata fu gaia, piacevole, amena, con momenti di grato riposo alternati da scoppi di pazza ilarità, con aliti di frescura che rianimavano gli spiriti, con ondate di tepore che scaldavano il cuore. Infatti, c'è questa sequela di sensazioni materiali in tutte le gioie intense, in tutte le belle riunioni e scorribande all'aperto, dove la natura è scena, e i nostri pensieri si effondono senza timore o sospetto.

Quella sera, appena giunto co' suoi ospiti alle Vaie, il conte Gino volle ritornarsene al suo eremo di Querciola. Sentiva il bisogno di raccogliersi, di meditare, di assaporare la sua felicità.

Nell'atto di separarsi da Aminta, che secondo il solito lo aveva accompagnato un tratto, sul limitare del bosco, Gino disse all'amico.

– Ti ho chiamato fratello, e vorrei esserlo davvero.

– Grazie! – rispose Aminta. – Questo sarebbe anche il mio desiderio.

– Amo tua sorella; – rispose Gino, chinandosi sulla sella e parlando a bassa voce, come se temesse di farsi udire dagli alberi della foresta.

– Oh, il gran segreto! – esclamò Aminta, ridendo.

– Come? Già lo sapevi?

– Me n'ero avveduto da un pezzo. Sfido io, a non avvedersene! Credo che lo sappiano a quest'ora tutti i sassi della montagna.

– E dimmi… – ripigliò Gino. – La cosa non dispiace a te?

– No, davvero. Sei un uomo leale e la mia mano stringe volentieri la tua. Conte Gino Malatesti…

– Non parlar, di contea, te ne prego! – interruppe Gino, turbato. – Vorrei che i re della montagna non isgradissero la mia alleanza.

– Ebbene, – rispose Aminta, – se tu mi avessi lasciato finire, non avresti da domandarmelo ancora. Volevo dirti per l'appunto questo, con tutta la solennità possibile ed immaginabile. Conte Gino Malatesti, i re della montagna in questa stretta di mano ti accettano. —

Capitolo VIII.
La marchesa Polissena

Fu una gran luce, quella notte, nella solitaria cameretta di Querciola. Si narra che una gran luce sfolgorasse pure da una capanna di Betleem, dove era nato il nuovo signore dell'universo. Meglio di tanti re della terra, quel nuovo nato doveva regnare con l'amore; ed era l'amore, non altro che l'amore, quello che diffondeva la gran luce improvvisa fra le tenebre del mondo.

Fiordispina lo amava! Fiordispina glielo aveva confessato! Come? Egli avrebbe voluto rammentar le parole, ad una ad una, e per che modo, per quale artifizio di trapassi, anch'egli fosse venuto al punto di manifestarle i suoi sentimenti più intimi. Ma era proprio vero che aveva parlato? Proprio vero che la fanciulla dei Guerri aveva accolto benignamente l'amor suo? Accade sempre così, quando si vuol ricordare in che modo si è palesata questa gran fiamma del cuore, e non si riesce a trovare come si sia dichiarato l'amore, in quella stessa guisa che il più delle volte non si sa come sia nato. Egli sapeva almeno come fosse nato quello di Fiordispina. – «Vi ho amato dal primo giorno che vi ho veduto» – gli aveva detto la fanciulla. Santa innocenza del cuore! Ed egli poteva rallegrarsi di essere la prima immagine che si fosse specchiata in quel terso cristallo. E si ricordava ancora in buon punto che la dolce confessione gli era stata fatta assai prima, sebbene con altre parole, a proposito di un albo dalle pagine bianche, su cui egli sarebbe stato il primo a scrivere… e l'ultimo.

Primo ed ultimo! Unico, dunque? Divina cosa! Non c'è amor vero che questo.

Sì, tutto bene; ma dava egli il ricambio di una simile innocenza? Non aveva egli già amato, e parecchie volte in sua vita? Riandando nella onestà della sua mente il passato, quanti amori, grandi e piccini, non avrebb'egli trovato, morti d'ogni età, lungo i meandri della memoria, nè tutti pure onorati di sepoltura! Timidi fiori dapprima, turbamenti, desiderii, cessati per mancanza di oggetto, svaniti per la sua indegnità; poi matte imprese, ripeschi, galanterie, illusioni del senso, che vuol decorare di un nome più nobile i suoi ardori fumosi! Tale, a dirne uno, non era stato l'amor suo per la marchesa Polissena?

Quel nome, di fatti, veniva ancora alla mente di Gino. Ma egli, oramai, poteva fermarcisi senza terrore, senza rimorso, per sola ragione di studio. La marchesa Baldovini egli l'aveva conosciuta ed ammirata da lungi, essendo ancora giovinetto. Ella non si era neanche degnata di guardarlo, non si era forse neanche accorta della presenza di lui, di quell'adolescente, che serbava ancora, studente d'università, l'aspetto del collegiale. Lo aveva veduto poi, aveva scambiato qualche parola con lui, per convenienza, per uso di società; ma quel po' di frasi comuni non era neanche da mettersi in conto. Ahimè! In quel modo non nasce l'amor vero. Fiordispina, a buon conto, lo aveva amato il primo giorno che lo aveva veduto. Polissena, no. Lo aveva sentito parlare, e non si era mostrata punto commossa; neanche gli aveva lasciato indovinare o sperare che i suoi discorsi le piacessero più che tanto. In quei primi tempi, se egli ben ricordava, la marchesa Polissena prestava molta attenzione alle gentilezze di un colonnello austriaco, giunto in missione presso la corte di Modena. Nè egli se n'era impensierito; neanch'egli amava quella donna, sebbene gli paresse bella e fatta per ispirare una passione in piena regola.

Dopo quel primo incontro con lei, Gino Malatesti era stato distratto da altri pensieri, aveva avuto le sue piccole avventure, i suoi ripeschi, i suoi capricci, tutti decorati di quel gran nome che sapete, e mutati ad ogni tanto, come si mutano le figure in un caleidoscopio, ad ogni voltata del cannocchiale. Un giorno, anzi una notte, incontratolo in una festa da ballo, la marchesa Baldovini si era degnata di ballare una quadriglia con lui, e tra una suonata e l'altra, così di punto in bianco, guardandolo fissamente negli occhi, gli aveva detto: – È vero che amate la tale? —

Gino era rimasto un po' sconcertato da quella domanda improvvida. Avrebbe voluto negare, perchè in verità quell'amore, a cui alludeva la dama, non era, e sopratutto non gli pareva più in quel momento, una cosa tanto bella da vantarsene, o da accettarne il dolce peso con l'atto d'infinita modestia di chi vuol dire e non dire. Ma la marchesa Polissena aveva subito soggiunto:

– Lo so di certa scienza, e mi ha fatto pena… per voi.

– Per me, marchesa? – aveva egli balbettato.

– Sicuramente. Queste son forse conquiste degne di un giovanotto vostro pari? Una plebea, che ha la bellezza del diavolo e nulla più. Non vi vergognate? A me, vedete, signor conte, voi fate l'effetto di un gentiluomo, che ha tenute e foreste per far la gran caccia, e se ne va, umile borghese, la mattina di domenica, fuori porta San Francesco, a contendersi, con altri dieci o dodici suoi pari, una cingallegra smarrita.

– Smarrita!.. in dodici, poi! – mormorò Gino tra i denti.

Ma rise, perchè bisognava ridere; e quella risata fu l'orazione funebre recitata sulla tomba… di una cingallegra smarrita.

– Ah! la gran caccia! – esclamò egli poi, sospirando. – Ne parlate facilmente, voi, bella signora. La gran caccia è molto faticosa, e più ancora difficile. Essa, ad ogni modo, richiede cacciatori più esperti.

– Non mi parlate degli esperti! – replicò la marchesa. – Io non li amo. —

Che c'entrava lei? Questa domanda si affacciò naturalmente al pensiero di Gino.

– Neanch'io, se penso come han guadagnata la loro esperienza; – rispose allora, umilmente. – Ma per seguitarli, per oltrepassarli, che sarebbe meglio, bisognerebbe sempre osare…

– Siete anche timido? Dopo tutte le vostre avventure, di cui non mi congratulo niente con voi? —

– Timidissimo, marchesa. Soltanto, come tutti i timidi, potrei avere un giorno il coraggio della disperazione. —

Così avevano chiacchierato, negli intervalli della quadriglia; così avevano seguitalo a chiacchierare argutamente, nell'angolo di una sala, dove la marchesa Polissena teneva corte d'amore. E quel dialogo, dond'era incominciato il suo romanzo con la bella marchesa, lo rammentava egli allora, dopo quattro anni. Egli, capite? Egli che non ricordava più, dopo dodici ore, come avesse detto: «vi amo» alla fanciulla dei Guerri. Da una conversazione, mezzo audace e mezzo frivola, in una festa da ballo, era nato un amore di quattro anni. Com'è il caso di ripetere col poeta che «poca favilla gran fiamma seconda!»

All'alba, sul finire della festa, dopo un cotillon in cui non era stato egli il cavaliere della marchesa Polissena, ma più d'una volta il rapitore fortunato o il ballerino prescelto, il conte Gino Malatesti aveva trovato il modo di accompagnar la dama fino al portone del suo palazzo, e si era separato da lei raccomandandole di dormire fino a sera, per aver cura de' suoi occhi, che erano senza fallo «i più belli di Modena.» Tanto cammino si era fatto in cinque ore! Ma notate che erano cinque ore di notte, e di notte, lo sanno tutti i camminatori, si va più svelti del doppio, in paragone del giorno.

Aggiungete che la marchesa si era lasciata cadere quella notte dallo scollo della veste un mazzolino di violette di Parma; che il conte Gino lo aveva raccolto e che la marchesa glielo aveva lasciato ritenere, mostrando a tutta prima di non avvedersi neppure del fatto. Più tardi, avendo il giovane accennato il suo piccolo bottino, la marchesa si era degnata di sorridere, e con aria di benevolenza regale gli aveva detto: – Vedremo se saprete conservarlo, anche appassito, e più, disseccato. —

– Vedrete, bella signora; – aveva risposto Gino. animandosi. – Vi porterò questi fiori un altr'anno, in questo medesimo giorno. —

La bella signora aveva dato in uno scoppio di risa.

– Ma bravo, conte! Prendete di queste scadenze, per le vostre visite?

Ed io che ne aspettavo una da voi entro gli otto giorni… almeno? —

La risposta, s'indovina. Ed anche la visita che seguì. Gino Malatesti lasciò passare a mala pena il giorno dedicato al riposo dei «più begli occhi di Modena» e la mattina dopo, fra le due e le tre del pomeriggio (scusate è sempre mattina, per chi non lavora e non ha ancora pranzato), si presentò al palazzo Baldovini per chieder notizie e lasciar due biglietti di visita. Due biglietti, si sa, per dire ad una signora e a suo marito: – «sarei tanto felice di entrare in relazione d'ossequio ed amicizia con voi due.» – Se la signora è vedova, si lascia un solo biglietto. Se è vedovo il marito, non si lascia nemmeno quello. Desiderio d'ossequiare, di entrare in relazione di amicizia, non ce n'è più, e pare già troppo l'obbligo del saluto per via.

Voleva dunque lasciare i due biglietti di visita. Ma per il conte Gino Malatesti non si faceva anticamera. Il servitore aperse il salotto. La marchesa Polissena era là, e Gino fu ammesso alla presenza della Dea. Forse era il suo giorno di ricevimento? No, ma le belle dame son fatte così; hanno il giorno solenne, in cui vedono venti, trenta persone, e si annoiano a vicenda, o si divertono qualche volta, sentendo le notizia e mettendo la frangia alle notizie del prossimo. Ne hanno poi altri due o tre, in cui non ricevono visite, o non escono a farne; sono in casa, ed ammettono gl'intimi. Nè sempre al plurale, si capisce; perchè non è sempre dato, o non sempre piace, di averne più d'uno.

Le violette di Parma erano a mala pena appassite; ma la marchesa Polissena non aspettò che il mazzolino fosse disseccato, par confidarne un altro a quel grazioso custode. Ne ebbe due, ne ebbe tre, ne ebbe quattro, nello spazio di un mese, il conte Gino Malatesti; a mezza primavera, quando le violette cessarono, ne aveva già una provvista sufficiente per le infusioni di tutto l'anno. Questo ve lo dico io, poco rispettosamente per i fiori della marchesa Polissena; ma voi non dovete credere che il conte Gino pensasse a far servire quei dolci pegni di un amore al primo stadio, per curare i suoi raffreddori.

Frattanto, la marchesa Baldovini aveva preso ad esercitare una grande autorità sull'animo di lui. Pareva essersi dimenticata del ripesco che aveva rimproverato al conte Gino, poichè non le era più occorso di farne cenno; ma gli domandava, ad ogni visita, come avesse passati quei giorni in cui non si erano veduti che un'ora a teatro, a caso per via. Più tardi, spesseggiando le visite e le occasioni di trovarsi insieme, prese a domandargli come avesse passate le ore e i minuti; ed egli, grato a lei di tanta cura amorevole, si avvezzò volentieri a dar ragguaglio, non che dei minuti, dei secondi, a raccontarle atti e pensieri, opere ed ommissioni. Inebriato dalla passione, si era fatto schiavo senza avvedersene, come quei contadini (scusate il paragone), come quei contadini del tempo andato, che i sergenti arruolatori ubbriacavano ben bene, e che il giorno dopo, con loro meraviglia grande, si accorgevano di aver firmato l'ingaggio. Polissena comandava a bacchetta; diceva brevemente: «fate la tal cosa» come se il farla, senza aver sentite le ragioni, fosse nell'ordine prestabilito dai fati. «Non andrete più dalla tale» era un comando che poteva anche piacere, poichè indicava un sentimento di gelosia, e agli innamorati piacciono le donne gelose. «Non parlerete col tale» era più difficile, qualche volta, ma si poteva anche obbedire, non portando altra conseguenza che un risparmio di cappello, due chiacchiere di amici comuni, e raramente uno scontro sul terreno, ottimo per una mezza cavata di sangue, e per il crescere che si fa, con queste imprese, nella estimazione della gente. «Andrete a Reggio, domani», oppure: «mi seguirete fra due giorni a Bologna, lasciando credere di essere andato a Sassuolo» era anche meglio, poichè prometteva uno o due giorni di allegre scorribande, da cui era bandita la cerimoniosa serietà del salotto, o la trepidazione dell'incontro fuori via. Lo stesso si dica del viaggio a Torino, quantunque allora, dopo quattro anni di quella vita, la scorribanda potesse parere un po' lunga. Polissena era una donna imperiosa; ma aveva momenti di grazia incantevole, giorni in cui pareva una fata benefica, una bambina capricciosa, tanto più cara quanto più erano frequenti i capricci. Poi, tutto ad un tratto, diceva: «finiamola, con le pazzie»; e allora ridiventava la signora, marchesa Baldovini, chiusa nel suo sussiego, bastionata nella sua severità, tutta magistrati, ciambellani, generali, diplomatici, gran giustizieri, e patrona per giunta di non so più qual opera pia, congregazione divota, od altro che vi piaccia d'immaginare, in un tempo e in un ambiente come il suo.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
440 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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