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Kitabı oku: «La montanara», sayfa 17

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Eppure, aveva tentato ancora di resistere; si era umiliato ai piedi della marchesa Polissena, piangendo, implorando il suo patrocinio. Polissena era stata dura, acerba, imperiosa più che mai. – «Vi ho conosciuto, – gli aveva detto, – e non vi amo; non m'importerebbe punto di avervi per genero, se in faccia al mondo, che ha troppo già chiacchierato di noi, non mi foste debitore d'una riparazione.» – Il poveretto aveva allora scritto una lettera addolorata al signor Francesco Guerri. Era la seconda, e come già la prima, scritta due giorni dopo il suo arrivo a Modena, non aveva ottenuto risposta. Il tempo stringeva; la relazione del commissario doveva essere restituita dal conte Jacopo alla marchesa Baldovini, con una risposta finale. O l'annunzio delle nozze, e la relazione, col benigno consenso del ministro, si sarebbe stracciata; o la rottura di ogni trattativa, e contro i Guerri si sarebbe avviato il processo. Il signor Francesco imprigionato? La sua casa perseguitata? Le sue industrie rovinate? Fiordispina, anch'ella, chiamata davanti alla sbarra di un tribunale? Forse incarcerata col padre e col fratello Aminta? Gino Malatesti era vinto; chinò la fronte, accettando che fossero annunziate formalmente le nozze. E la terza lettera ai Guerri, una lettera scritta col sangue del suo cuore, l'aveva impostata egli, per maggior sicurezza, a Bologna.

Come mai quella lettera non era pervenuta alle Vaie? Certo, le lettere di Gino erano intercettate all'ufficio postale di Modena. Ma anche qualcuno che conosceva la sua mano di scritto le intercettava in un altro ufficio, sulla via di Fiumalbo. Don Pietro ricordò allora che alcun tempo dopo la partenza di Gino Malatesti da Querciola, un ufficiale delle poste, mandato per l'appunto da Modena, col pretesto di verificare, di esaminare, di studiare Dio sa che, si era impiantato e Fiumalbo. Lassù, dunque, non bastando la vigilanza a Modena, lassù si sequestravano le lettere dirette ai Guerri.

Ma quella del signor Francesco al conte Gino, portata in Modena, consegnata alla porta del palazzo Malatesti da Pellegrino Menghi, come si era smarrita? Gino protestava di non averla ricevuta. Il poveretto non sapeva neppure che Pellegrino fosse disceso a Modena. Era stato custodito da tutte le parti, spiato, vigilato a dovere, e aveva ben ragione dicendo che una vasta congiura si era ordita contro di lui, stringendolo come in una rete di ferro.

Infine, a lui, ignaro di tutto, era parso d'indovinare che i Guerri non intendessero l'animo suo, nè la necessità del sacrifizio a cui aveva pur dovuto adattarsi. E questo era stato ben grave, più grave che il medesimo Don Pietro non potesse immaginarsi, dopo il racconto di Gino. Perchè, infine, doveva egli dir tutto? La cosa era brutta, orribile, odiosa, dopo un solenne giuramento da lui fatto, davanti agli altari; ma così era, egli non amava la donna che gli avevano data per forza. Tra lui e quella donna si frammetteva sempre un'immagine…

Don Pietro non avrebbe voluto sentirne più altro. Quei discorsi di immagini misteriose confondevano il suo spirito invecchiato nella ingenuità della vita campestre. Ma Gino incalzava, Gino che la vedeva ancora, l'immagine, Gino che la sentiva, bella come la passione, terribile come il rimorso. Ed anch'essa, anche Elena, doveva indovinarlo, quel non so che di arcano, di contrario a lei, ond'era occupato lo spirito di suo marito. Nè si attentava di chiedergli nulla? Nè si fermava a dolersene? Quella giovane sposa osservava, con la curiosità attonita dei bambini, quando stanno davanti a tal cosa, nuova per loro, che non sanno ancora se li farà piangere o ridere.

Gino Malatesti non lo intendeva, o non si fermava a pensarci, egli che tanto vedeva dentro di sè. Quand'anche lo avesse inteso e ci avesse pensato, probabilmente non se ne sarebbe doluto, fors'anche gli sarebbe parso un giusto riscontro alla sua medesima freddezza. L'animo di Elena si allontanava da lui senza sforzo, o, per dire più veramente, anche nella vicinanza più stretta non si fondeva con quello di Gino. E in quella calma noncurante, sotto l'aspetto di una confidenza superficiale, si maturavano i germi di nuove curiosità.

Un giorno la bella contessa Malatesti aveva detto a sua madre, con quel piglio d'ingenua che la sa lunga più che la parola non dica:

– Mio marito è uno smemorato, ma uno smemorato d'una specie nuova. Ha sempre l'aria di cascar dalle nuvole; ora diresti che vuol ricordarsi di qualche cosa, ed ora che vuol dimenticarsi di qualche altra. —

La marchesa Polissena aveva guardato attentamente sua figlia; ma la pupilla di Elena era serena, nessun pensiero sottile luccicava là dentro.

– Mi pare strano; – rispose allora, con tranquillità la sempre bella marchesa. – Egli ha già tanto dimenticato, a venticinque anni, con quel suo carattere d'uomo felice!

– Ah, lo credi anche tu un pochino egoista? – replicò la contessa. – Ma perchè prendono moglie allora? Non potrebbero contentarsi di amare sè stessi? —

La marchesa Polissena non reputò necessario di dire a sua figlia come e perchè Gino Malatesti si fosse ammogliato. Le bastava che di quel matrimonio non fosse molto dolente sua figlia. Carattere assai più felice di quello che essa riconosceva in suo marito, la contessa Elena Malatesti poteva anche consolarsi di una freddezza che veniva a lei come la prima e sola rivelazione dello stato matrimoniale. Non aveva da far paragoni, allora, per vedere in quella freddezza smemorata un'offesa. I paragoni li avrebbe fatti poi, e come! Il sangue non è acqua, e la contessa Elena Malatesti non per niente era figliuola di Polissena Baldovini.

Ritorniamo a Don Pietro. Egli aveva ascoltata la confessione di Gino Malatesti, lo compativa, era vinto; più ancora, egli stesso esortava quel disgraziato a dimenticare, a cacciar da se l'immagine importuna della fanciulla dei Guerri, a concentrare tutti gli affetti suoi nella donna che aveva sposata. Era il caso di venire a bella posta dalle Vaie, per far quella parte! Ma ricordate che in quel punto Don Pietro Toschi aveva la stola, esercitava il suo ministero di consolatore e di giudice. Ahimè, tra non molto avrebbe dovuto esercitarlo anche lassù, dove gli occorreva ritornare, e donde sarebbe stato meglio non muoversi affatto.

– Figliuol mio, soffrite! – diceva egli a Gino. – Tutto ciò è avvenuto per una suprema volontà, di cui non dobbiamo scrutare i fini reconditi. Soffrite, mio povero amico, ma soffrite in voi e per voi; che vostra moglie non veda sorgere un'ombra tra voi due. È un'ombra di dolore, lo so; ma dovete cacciarla egualmente, come se fosse un'ombra di peccato. Infine, voi siete legato da un nodo indissolubile, a quella giovane vita; nè per effetto di noncuranza vostra debbono sorgere altre ombre ad offuscare la mente di vostra moglie, a turbare nel cuor suo il sentimento dei più sacri doveri. —

Capitolo XV.
Anima forte

Il povero Don Pietro riprendeva in quel medesimo giorno la via dei monti. Ah sì, come lo aveva pensato dianzi, nel tribunale della penitenza, lo pensava ancora in carrozza, sulla strada di Sassuolo; gran fortuna sarebbe stata per lui non muoversi dalle Vaie. Santi gioghi d'Appennino, quanto meglio è il vivere sotto le vostre grandi ombre, anzi che scendere nei centri popolosi, a confonderci lo spirito in mezzo a tutte quelle passioni intricate e malsane, che muovono i desiderii e governano gli atti degli uomini civilizzati! Anche lassù, nei volghi agresti, hanno imperio le cupidigie, e generano il peccato; ma lassù non sono dotte complicazioni di colpa, non artificiose cospirazioni di più vizi, non raffinatezze di crudeltà e di scelleraggine.

Crudeltà e scelleraggine, erano queste le parole che venivano alla mente di Don Pietro Toschi. Infatti, era ben crudele, ben scellerato il disegno che aveva oppresso la onesta volontà di Gino Malatesti, e di cui aveva a soffrire per sempre una povera fanciulla innocente. Don Pietro aveva indovinato, frammezzo a tutte le reticenze di Gino, come il suo giovine amico sarebbe stato alieno, riluttante ad ogni idea di matrimonio con Elena Baldovini, anche se il cuor suo non fosse rivolto e consacrato all'amore di Fiordispina Guerri. E pensava allora con raccapriccio che le città, le città sole, celano di cosiffatti orrori sotto la superficie levigata delle loro consuetudini.

Il vecchio prete aveva ignorato fino allora tutte quelle combinazioni sapienti con cui la società elegante aggiusta ogni cosa, confidando perfino di aver nascoste altrui le sue piaghe, perchè le ha dissimulate a se stessa. Indovinando il vero, Don Pietro si turbava profondamente, pensando che Elena Malatesti potesse un giorno indovinarlo anche lei. Quale sventura, se la giovane contessa giungesse a sapere di qual mercato fosse stata vittima, a quali convenienze l'avesse sacrificata sua madre! Anima candida nella sua semplicità montanara, Don Pietro Toschi non si sarebbe persuaso mai che la contessa Elena sapesse, immaginasse già tutto, e non ci vedesse niente di strano. Il dabben uomo ignorava che su queste cognizioni del passato, così facilmente raccolte dalla innocente fanciulla nella gran confusione della vita odierna, si preparano gli argomenti del proprio diritto a fare altrettanto, o almeno si tengono in serbo come giustificazioni per tutte le debolezze del futuro. Non si può dire che la società moderna ami distruggere le vecchie istituzioni; essa le conserva molto rispettosamente e le adatta ai nuovi usi, come si fa dei vecchi palazzi. Perciò, anche dal matrimonio ella ha saputo cavar profitto, conservando le belle forme monumentali, rafforzandone le fondamenta, ove occorra, incatenando con dotta arte le mura maestre, cementando le crepe, rinfrescando l'intonaco; ma dentro… oh, dentro, ella è stata felicissima nelle sue novità, aprendo usci e corridoi, dando aria da una parte e levandone il soverchio da un'altra, mutando in salotti i loggiati, dividendo in gabinetti le spaziose gallerie, adattando insomma, adattando sempre, con giudiziosa sollecitudine, affinchè nell'antico edifizio trovi comodità maggiore la gente nuova, con le sue nuove miserie, che sono poi, a ben guardare, le vecchie miserie trasformate. Non vi piace la immagine del palazzo antico? Eccovi una quercia, tre, quattro volte secolare. Ha cento rami, che stende in largo ombrello sul sentiero, e alle vecchie frondi ne aggiunge ogni anno di nuove, tanto che la direste un esempio di eterna giovinezza. Vi accostate; il suo tronco è aperto nel mezzo, cavernoso, smidollato addirittura. Ma che importa? L'apparenza da lontano è stupenda; il pittore paesista si ferma, mette mano alla tavolozza e ne fa un bozzetto per la prossima esposizione; poi, avvicinandosi anch'egli, vede l'antro scavato nel tronco, ed esclama: – oh guarda! c'è posto per due! —

Ah, Don Pietro! Don Pietro! Che vi serve essere stato prevosto quaranta e più anni, e avere studiato da mezzo secolo il trattato De Confessario? La società moderna ha più complicazioni di debolezze, che non ne abbiano veduto e segnato i vostri casisti più famosi. Buon per voi esser vissuto sempre tra la gente dei campi, dove è rustico, feroce qualche volta, ma semplice, indotto, quasi senza cognizione di sè stesso, il peccato.

Il povero prevosto aveva un aspetto compassionevole, quando giunse co' suoi drappelloni nuovi, e con le sue cognizioni anche più nuove, alle Vaie. Lo aspettavano tutti con ansia, e primo fra tutti il signor Francesco Guerri, a cui raccontò per filo e per segno quanto aveva udito dal conte Malatesti.

– Infine, – conchiuse il buon prete, sospirando, – il signor Gino è stato mosso da un buon sentimento, Ha voluto salvar tutti noi da molte noie, anzi da gravissimi dispiaceri, che per la casa vostra sarebbero stati anche una vera rovina. Me lo ha giurato, e per dare maggior solennità al suo racconto, ha voluto dirmi ogni cosa in confessione. —

Non c'era nulla da rispondere a quel ragionamento di Don Pietro. Il signor Guerri capì benissimo che il conte Malatesti si era trovato colto in mezzo a troppe difficoltà, e che il meno male per tutti era per l'appunto il partito a cui s'era appigliato. Ma pensò anche a sua figlia, il vecchio Guerri, a sua figlia che tutte quelle spiegazioni non avrebbero persuasa egualmente, o non sarebbero bastate a guarire.

Aminta fu più aspro e più schietto.

– Meglio tutti noi in carcere e la casa in rovina, se potevano trovarci in colpa per amor di patria; ma egli doveva mantener la sua fede. —

Anche Fiordispina seppe ogni cosa; ma non volle essere consolata.

– L'avevo immaginato; – diss'ella. – Il conte Gino è infelice, io gli ho perdonato. Non mi si dica più altro. —

Da quel giorno il nome di Gino Malatesti non fu più pronunziato alle Vaie. Al padre, che la esortava a dimenticare, l'animosa fanciulla rispose:

– Quello che ti ho promesso ho mantenuto; non ho pianto, non piangerò.

– Grande promessa! – esclamò il signor Francesco. – Amerei meglio vederti piangere.

– Perchè, padre mio? Perchè sfogassi il mio dolore? No, non sarà mai! Vedi? Sento un piacere molto profondo a non piangere. Non creder dunque che io divori le mie lagrime. Mi par d'essere in sogno, e che il sogno duri. Aspetto io che finisca? Non so; vado avanti così, senza desiderare, senza aspettare, senza temere. I giorni passano, ed io sono ancor lì a vivere con le mie care memorie. È forza? è debolezza? Non so neppur questo. Qualunque cosa sia, ringrazio il Signore che me la manda. —

Il vecchio padre non chiese di più. Ella era grave, tranquilla, operosa; attendeva alle solite cure, e niente era mutato per lei nella casa dei Guerri.

L'avrete già veduta, anche senza fermarvi a considerarla, quella casa severa, dove tutti, vecchi e giovani, son gravi nell'aspetto, misurati nelle parole, riguardosi negli atti, uniformi, quasi monotoni nelle consuetudini della vita, non sorridendo mai che a fior di labbra, attendendo con fredda regolarità a tutte le cure della giornata. «Gente metodica!» si esclama, e pare di aver detto ogni cosa. «Come possono trovarci gusto, a viver così?» soggiunge qualcheduno. E infatti, non ci trovano gusto; tirano avanti così, perchè questo è l'obbligo, e sopportano la vita come un fardello. Pensateci un poco, guardate attentamente, e vedrete che tutte quelle persone vivono sotto il peso di una grande sventura, o d'una piccola che credono grande, perchè ognuno ha il suo modo di vedere e di sentire le noie e le afflizioni di questo mondo. Se cogliete quelle persone sul punto in cui si raccolgono insieme, a tavola, per esempio, osserverete ancora che si guardano in viso, come interrogandosi a vicenda, ma che tutte egualmente si chiudono in sè, per un sentimento che pare di diffidenza scambievole, e non è in quella vece che un delicato riguardo. Così vivono, così tirano innanzi, noverando i giorni della loro tristezza.

Così andava la casa dei Guerri, poichè l'aveva colpita la sventura di un alto disinganno. E lei, la figliuola prediletta, l'angelo della famiglia, per cui tutti vivevano, su cui tutti avevano gli occhi, era calma negli atti, serena nell'aspetto, e niente tradiva l'interna pena di quella giovane esistenza. Pareva una di quelle soavi creature dei primi secoli cristiani, che santificavano la casa, non potendola più rallegrare, e già consacrate al nuovo Iddio, vivevano quiete e forti nel mondo. Una pietà non sempre più ardente, quantunque più rumorosa, doveva inventare i cenobii, le fastose solitudini, i violenti sagrifizi e le spettacolose penitenze; ma per allora tenevano il campo, non abbandonando la casa, le semplici virtù umane, fedeli al culto di tutti i doveri domestici: e figlie e spose e madri esemplari, accettando il posto in cui le aveva collocate la sorte, venerando il loro Iddio, pronte ad affermarlo con l'olocausto della vita, ma desiderose di edificargli un tempio nelle loro famiglie, vivevano le Cecilie e le Moniche, combattendo in un modestissimo campo non oscure battaglie.

Fiordispina Guerri non aveva più facile il sorriso, nè la parola lieta; e di ciò si doleva profondamente, ma non le era dato mutarsi. Pronta a tutti gli sforzi morali che non dimandassero gaiezza di umore, quando vedeva i suoi troppo accigliati, andava a sedersi davanti al pianoforte e ripassava la sua musica, senza scegliere, come le veniva alle mani. E le mani obbedivano agli occhi, e gli occhi seguivano l'indicazione delle note. Così sembrava prender diletto nella sua occupazione musicale, e le armonie suscitate da lei, se non allietavano nessuno, sortivano almeno quell'effetto che sempre ha prodotto la musica: rasserenavano gli spiriti.

– Chi sa? – disse un giorno fra sè il signor Francesco Guerri, dopo qualche mese di quella vita monotona, mentre la sua bella figliuola, seduta al pianoforte, passava da un preludio delicato di Bach ad un'aria allegra di Mozart. – Chi sa? Potrebbe fare un miracolo, il tempo! —

Appunto in quei giorni capitò alle Vaie una lettera dei cugini Guerri, che vivevano sul Reggiano. Annunziavano ai loro congiunti del Modenese il prossimo matrimonio di Ruggero con una Campolonghi di Modena. Famiglia ottima, i Campolonghi, ed eccellente partito; perciò si affrettavano a darne l'annunzio, sicuri che la cosa avrebbe fatto piacere ai loro cari parenti. Il signor Francesco aveva appena mandata la sua lettera di congratulazione, quando ne giunse un'altra da Modena; e questa la scriveva Ruggero, il semplice ed affettuoso Ruggero. Non accettato da Fiordispina, per ragioni che non offendevano il suo amor proprio, il cugino Ruggero mandava di tanto in tanto sue nuove alle Vaie. Quella volta, poi, era felice di mandarne un'altra più importante, sperando che i suoi buoni congiunti avrebbero veduto volentieri quella unione, che rispondeva a tutte le esigenze della famiglia, come a tutti i voti del suo cuore.

– Ne sono veramente felice! – disse Fiordispina, poi ch'ebbe letto anche lei. – È un bravo giovane, il nostro cugino Ruggero. —

Il vecchio Guerri tentennò la testa, e battè ripetutamente le labbra, come se volesse trattenere una osservazione, che era lì lì per saltar fuori.

– Capisco; – riprese la fanciulla, notando l'atto, e andando risolutamente incontro al pensiero di suo padre. – Ma tu lo sai bene, babbo; io non ero fatta per lui.

– E per chi, Dio buono, per chi? – gridò il signor Francesco, che oramai non poteva più stare alle mosse.

– Per te, per voi tutti; – rispose la fanciulla. – E non è già una bella sorte? Fatemi il piacere, se mi amate davvero come io vi amo, non mi state così aggrondati da mattina a sera! Che è ciò? Pare che qualcheduno vada a morire, e che voi dobbiate accompagnarlo. Non ho da voler nulla, io, che son l'ultima della casa; ma una cosa mi permetterete di volere, ed è questa, che non siate più tristi di me. Sono tranquilla, io, sono contenta; potete esser tranquilli e contenti anche voi. Ma basta, non aggiungo altro; se no, quando viene Don Pietro, gli direte che ho fatto una predica. Scriveremo invece al cugino Ruggero, e lo pregheremo che ci mandi il ritratto della sposa. Ho una grande curiosità di vedere com'è. —

E scrisse lei la lettera, un miracolo di temperata festività e di buon gusto, congratulandosi col cugino della sua scelta ed augurandogli ogni bene. Le suonava graziosamente all'orecchio il nome della sposa, Marianna, che ne raccoglieva due egualmente belli, Anna e Maria, Non le restava che un desiderio, e vivissimo, di veder la figura.

Il ritratto fu presto mandato, e non da Ruggero, ma dalla stessa fidanzata di lui, dalla signorina Marianna Campolonghi, alla vezzosa e cara Fiordispina Guerri, che era tanto felice di poter chiamare cugina, anche anticipando di due mesi, che tanti ne dovevano correre ancora da quel giorno alla celebrazione delle nozze. La lettera era semplice, ma piena di garbo; faceva fede di buoni studi e prometteva una cara donnina, degna del cugino Ruggero e nata a bella posta per farlo felice. Allo scritto corrispondeva poi la figura; il dagherrotipo mandato dalla signorina Marianna alle Vaie recava l'immagine di una bella ragazza, alta e snella, di capel bruno, di carnagione pallidina ma sana, con due begli occhi grandi ma espressivi, come se ne vedono tanti, per fortuna sua, nella regione Emiliana.

Il matrimonio si faceva tra due mesi, cioè a dire verso la fine del carnevale. Peccato che la stagione, così fredda ancora, non permettesse agli sposi di fare una corsa alle Vaie! La cosa spiaceva tanto a Marianna; spiaceva a Ruggero; spiaceva anche ai parenti di lui. Nè poteva spiacer meno ai congiunti loro delle Vaie, e Fiordispina, nelle sue risposte, non rifiniva di esprimere col suo il rammarico di tutta la famiglia.

Perchè ella scriveva assai volentieri quelle lettere, quasi volesse scusarsi con altrettanta amabilità, della freddezza dimostrata parecchi mesi prima al cugino Ruggero. Le donne hanno di queste delicatezze, le quali spesse volte vanno sprecate come i fiori gentili del prato, che nessuno li avverte, quando sono sbocciati, e poi li recide, insieme con tutte le altre erbe pazze, la falce del villano.

Ma per allora, anche non intese in quel modo, le cortesie della cugina e di tutti i parenti delle Vaie erano molto gradite da Ruggero Guerri, e non meno dalla famiglia Campolonghi. E la conseguenza di tanto gradimento fu una argomentazione come questa:

– Se non possono gli sposi andare a Fiumalbo, per la stagione che sarà ancora troppo rigida, perchè non potrebbero discendere i signori Guerri a Modena? L'inverno, gli ultimi giorni di carnevale, dovrebbero esser anche un potente incentivo a questo viaggetto, che recherebbe un po' di novità nelle loro consuetudini. —

Ed anche quei del Reggiano, messi a parte del disegno, incalzavano con le loro preghiere. Quella del matrimonio di Ruggero, infine, era una buonissima occasione per raccogliere insieme i due rami dei Guerri. Buonissima, in verità, e solenne per giunta; non andava trascurata.

Il disegno fu ventilato anche alle Vaie, non già perchè sembrasse accettabile, ma perchè bisognava trovar ragioni da opporre, scuse oneste da metter fuori. Ma l'idea di quella gita piaceva tanto ai signori Campolonghi, che l'avevano avuta per i primi! Ma piaceva tanto alla signorina Marianna! La graziosissima sposa voleva conoscere Fiordispina, e non si dava per vinta alle ragioni, dichiarava fiacche le scuse.

Donde tanto amore e tanto desiderio? Lettori miei, non bisognerebbe guardar tanto nel sottile, sopra tutto in questa materia già di per sè molto delicata. L'amore, l'amicizia, la simpatia, nascono perchè vogliono nascere, e i germi non possono sempre cercarsi col microscopio. Le grazie di Fiordispina, decantate dal cugino Ruggero, il piacere cagionato da quelle sue lettere così gentili e garbate, quell'altro non meno grande di poter vedere riunita ad una sola mensa tutta la schiatta dei Guerri, sarebbero ragioni bastanti a spiegare, a giustificare l'insistenza delle preghiere. Un'altra ragione si può trovare nella insistenza medesima. Incominciamo tutti a manifestare un desiderio per mostra di gentilezza, ci torniamo sopra per civiltà, e finiamo con invaghirci della nostra idea. Non vi basta? Mettete ancora che la signorina Marianna aveva un fratello, avvocato, che stava per finire le pratiche, ed era come suol dirsi un giovane di belle speranze. Quale speranza più bella, da aggiungere a tutte le altre? Anche il signor Campolonghi padre, pensando alla venuta di Fiordispina a Modena, diceva come il vecchio Guerri, ma per altra ragione: – chi sa? —

Bisognava dunque rispondere a quelle reiterate preghiere, a quelle istanze continue, che venivano a gara da Modena e dai monti Reggiani.

– Che altre ragioni si trovano? – diceva il signor Francesco. – Perchè già, capisco, a nessuno di voi questo viaggio piace, e a Fiordispina meno che agli altri.

– Perchè? – domandò la fanciulla.

– Come? – esclamò il vecchio Guerri. – Ti decideresti ad andare… laggiù?

– Laggiù come in ogni altro luogo; – replicò Fiordispina. – Non siamo mica proibiti, a Modena. Nè io ho da vergognarmi di nulla, o da temere di veder chi si sia.

– Ebbene, – disse il signor Francesco, – allora decidi tu. Si ha da risponder sì all'invito dei nostri parenti?

– Io, allo stato delle cose e per non aver aria di gente ostinata, risponderei sì; – disse Fiordispina. – E tu, babbo? —

Il vecchio Guerri meditò ancora un istante il suo «chi sa?»; vide nella risoluzione di sua figlia un principio di mutamento felice, e conchiuse:

– Andiamo dunque a Modena e raduniamo ad una tavola tutta la progenie dei Guerri. —

Quando la cosa giunse all'orecchio di Don Pietro, il bravo prevosto delle Vaie rimase a dirittura di sasso. Ma da queste pietrificazioni dello stupore si rinviene poi sempre, ne rinvenne anche Don Pietro, restandogli tuttavia in corpo una grande curiosità.

– Figliuola mia, che novità è questa? – domandò egli a Fiordispina, appena ebbe occasione di parlare da solo a sola con lei. – Perchè questa risoluzione di andare a Modena?

– Un invito formale, e già ripetuto più volte da due parti; – rispose la fanciulla. – Non gliel'ha già detto mio padre?

– Sì, capisco l'invito; – disse Don Pietro; – ma non capisco egualmente l'accettazione.

– Vuol saperlo, il gran perchè? – ripigliò la fanciulla. – Glielo dirò, a patto che mi serbi il segreto.

– Posso prometterlo; – disse Don Pietro. – Ma avete dei segreti per vostro padre?

– No, e sì. Non ne ho, se si tratta di cose che possono avere una buona e una cattiva interpretazione, e per cui resti dubbio se vadano fatte o non fatte. Ne ho, se si tratta di pensieri miei, che possono parere ridicoli. E questo è il caso, per l'appunto; – conchiuse Fiordispina. – Ho la speranza di rivedere quell'uomo.

– Ed ecco per l'appunto ciò che temevo; – rispose Don Pietro.

– Che male c'è? Turbo io la pace di qualcheduno?

– Mettete a repentaglio la vostra, figliuola mia, e vi par poco?

– Non tema per me, Don Pietro. La mia testa è salda e il mio cuore è già provato ad ogni scossa.

– Tanto meglio, figliuola mia, tanto meglio. Ma che curiosità è la vostra?

– Curiosità di montanara; – rispose Fiordispina, sorridendo. – Non mi sarà dunque concesso di vedere se quell'uomo è felice? E noti che io desidero ardentemente di saperlo felice; – soggiunse ella, animandosi. – Ella mi conosce, Don Pietro, e sa che non ho l'uso di mentire. Un cuore che ama ha tesori di bontà e di compassione per tutti.

– Anche per gl'ingrati?

– Anche e sopratutto per questi. Ma non mi ha detto Lei che quell'uomo è stato costretto a far ciò che ha fatto? Perchè lo chiama Ella un ingrato?

Don Pietro si smarriva tra gli assalti di quella logica femminile, ed amò meglio darsi per vinto.

– Il cielo vi guardi; – conchiuse, dopo una mezza serqua d'interiezioni, che non dicevano nulla. – Infine, credo anch'io che possa essere una crisi felice. Vi auguro, figliuola mia, che possiate guarire del tutto.

– Di che? D'un male che è la mia vita? – replicò Fiordispina. – No, padre mio, non voglio guarire, nè del tutto, nè in parte. Mi conceda di parlare una volta, una volta almeno, con libertà piena ed intiera; ho conosciuto per quell'uomo l'amore, l'amore de' miei poeti, che è il nobile, l'elevato, il gentile, e dica pure quanti aggettivi vorrà, purchè conduca a questo, che un amore elevato è il solo che sia degno della creatura umana, e come il solo degno, è anche il solo vero. Che uomo fosse il conte Gino Malatesti, nel tempo ch'egli visse tra i nostri monti, Ella sa quanto me, se non forse meglio di me. Il mio pensiero s'innalzava col suo. Come due profumi confusi si son levati ambedue, vaporando al cielo. E dovranno essere separati? È impossibile, padre mio; lo dica anche Lei, che è impossibile.

– Il conte Gino si è pur separato da Voi; – disse Don Pietro. – Lascio stare le ragioni onorevoli, accenno il fatto com'è.

– Ebbene, qui per l'appunto è la mia giustificazione; – riprese la fanciulla. – Egli si è separato da me; non l'amor suo, che è stato per me, e a cui mi son serbata fedele. Vede, Don Pietro, che questo non è un sentimento volgare. Unica volgarità, – soggiunse Fiordispina, chinando la testa ed abbassando il tono delle parole, – unica volgarità, poichè neppur io sono una creatura perfetta, è questo piccolo sentimento di curiosità che ha preso me, povera montanara, di vedere quella gentil cittadina, che ha saputo rapirlo. —

Curiosità montanara, diciamolo anche noi, ma soggiungiamo subito: Quanta altezza di pensiero in quella curiosità! Don Pietro Toschi non lottò più; era vinto e convinto. Del resto, i signori Guerri avevano già scritto a Modena, annunziando la loro andata, e oramai, per fare quel gran matrimonio, non si aspettava che la loro presenza.

Quando si dice «i signori Guerri» s'intende il capo della famiglia, con una larga rappresentanza. Nel fatto non andavano mica tutti. Aminta, per esempio, non volle muoversi dalle Vaie, quantunque lo zio Orlando dichiarasse che sarebbe rimasto egli volentieri.

– No, no, resto io. Che cosa andrei a fare io, a Modena? Le città non mi divertono. E se qualcheduno ha da rimanere a custodire la casa, questo qualcheduno vo' esserlo io. Andate voi altri, andate. —

Non ci fu verso di smuoverlo; Aminta era saldo nelle sue risoluzioni, come il monte Cimone al suo posto.

Ed anche saldo ne' suoi risentimenti, aggiungiamo. Egli non aveva perdonato a Gino Malatesti; egli non aveva tesori di bontà e di compassione da spandere. A qual pro', del resto? Aminta lasciava questi tesori a sua sorella. Era già molto avere un angiolo in casa; quanto a lui, uomo, aveva già fatto assai chinando la testa ai voleri di suo padre, mentre pure sentiva una voglia feroce, una voglia pazza di calare a Modena e di battere la sua mazza alpigiana sulla faccia del conte Gino.

– Prendi, vigliacco ingannatore, in cui la mia famiglia ha creduto! Prendi, bugiardo proscritto, che hai avuto paura di farti fare un processo. Si grida, perdio, si strepita, quando si è il primo colpevole! e se vogliono fare il processo agli altri, si chiede la parte propria, si reclama il proprio posto al pericolo, si va in carcere, in galera, alle forche, ma con la fronte alta, fieri di non avere che una parola e di saperla mantenere! —

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
440 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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