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Kitabı oku: «La montanara», sayfa 18

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Capitolo XVI.
Delizie coniugali

La sera del martedì grasso dell'anno 1858, era una bella piena nel teatro Comunale di Modena. L'impresario avrebbe voluto tutte così le serate della stagione; ma gl'impresari son mostri insaziabili e non pensano, nel loro egoismo, che il bello delle cose belle è per la massima parte nella loro rarità.

Tutte le stelle del firmamento, tutte le dee dell'Olimpo modenese erano quella sera a teatro, dando coi loro vezzi naturali e con lo sfoggio delle loro abbigliature un'apparenza di vita più rigogliosa ad una società naturalmente ristretta e poco nutrita, poco rinnovata dal concorso o dal passaggio di elementi forastieri. Le città italiane, innamorate dell'arte, appassionate singolarmente per la musica, hanno queste occasioni solenni per mettersi in gala, per dare il loro sprazzo di luce, e in certe sere dell'anno, vedute nel recinto del loro massimo teatro, vi possono sembrare altrettante capitali.

Non dimentichiamo che allora la città di Modena era ancora la capitale di un piccolo Stato, e che intorno ad una Corte si raccoglieva una ricca aristocrazia, uno splendido stato maggiore di varie armi, una grassa borghesia, ed una magra ma numerosa falange d'impiegati dell'ordine politico e dell'ordine giudiziario. Oggi, aboliti i piccoli principati, le rispettive loro capitali hanno perduto tutte qualche cosa della vecchia loro importanza, e questo, che è un male, senza dubbio, ma non un mal così grave da non potersi sopportare, dà argomento di acerbi rimpianti a taluni nobili antichi. Perchè lagnarsi soltanto? Perchè non pensare mai a qualche onesto rimedio? Il gran male, il vero male è quest'altro, che tutti i ricchi corrono oramai ai grossi centri. Se i signori vivessero un po' più nella terra loro, o accanto ad essa, gioverebbero meglio al fine da cui ripetono la loro medesima origine. A buon conto, avrebbero assai meno ragioni per rimpiangere le vecchie consuetudini, ridando un po' di vita alle città loro e insieme un po' di lustro alle proprie corone. Così questa società italiana, che è stata la più ricca, la più varia, la più universalmente colta d'Europa, avrebbe speranza di rifiorire, in quella sua vivace varietà d'aspetti e di tempre, su tutte le altre del mondo.

Ma lasciamo da banda queste superbe malinconie, che molti non intendono più. Il romanzo, questa rappresentazione della vita, deve correre, obbedendo ai suoi nuovi maestri, sulla china della verità fisiologica, correre fino a rompersi il collo nei chiassi del casetto patologico, unico svago che gli sia consentito, e che anzi gli è molto raccomandato dai pratici. Impersonale, oggettivo, realistico, non si attenti di fermarsi un minuto, per dire una verità a chi lo segue, nè per cogliere un fiore sui margini del sentiero. Lo hanno chiuso a forza in una delle sue cento forme, che ad essi piaceva di più; lo hanno sigillato in quella col sigillo della loro dogana; hanno sentenziato quali saranno le vie che dovrà tenere, quali i mercati a cui dovrà fermarsi, quali le droghe di cui potrà essere infarcito. E poi, dopo aver promulgati tanti decreti e regolamenti dalle loro bigonce, i signori giudici e moderatori hanno il coraggio di annoiarsi, di sbadigliare in pubblico, di arricciare il naso, specie quando vedono il loro beniamino andar zoppo a certi usci. – Non di qua! Non di là! Volgarità eccessiva! Imitazione forastiera! Vita italiana vuol essere, vita italiana, per bacco! Dove s'è mai vista, negli usi nostri, tutta quella robaccia! Siamo noi così male ridotti! – Ah, poveri giudici! poveri moderatori supremi! Vuol essere una fatica da cani, la loro!

Le dame più cospicue di Modena erano quella sera a teatro. Non poteva dunque mancare la marchesa Polissena Baldovini, più bionda che mai, imbellettata, incipriata e felice. Sedeva davanti a lei, nel suo palchetto di seconda fila, Sua Eccellenza il ministro, dimenticando per un'ora le gravi cure dell'ufficio (severas super urbe curas), discutendo amabilmente di musica antica col suo buon marchese Baldovini, e mandando tratto tratto qualche occhiata assassina alla gentile marchesa.

In un altro palchetto, ma della prima fila, era la bella figlia di Polissena (matre pulchra filia pulchrior), la contessa Elena Malatesti. La madre aveva la società più grave, oramai, la più autorevole, e la più monumentale, senza rinunziare per altro a qualche saggio della più gaia e della più elegante. Ma questa si raccoglieva più volentieri intorno alla figliuola, e vi si aggiungeva altresì la più risonante per tintinnìo di sproni e di sciabole. Cappa e spada, una volta riunite, si dividevano allora; gli uomini di cappa si volgevano naturalmente alla madre; gli uomini di spada alla figlia.

Ma per allora, essendo in principio di spettacolo, non si vedevano che due cavalieri, nel palco della contessa Elena. Suo marito era in visita, e di quei due che vi ho accennati uno era il marchese Emilio Landi, che conosciamo per una sua lettera dai bagni di Lucca. In verità, stando a quello che ve ne ho detto a suo tempo, il marchesino Landi avrebbe dovuto esser piuttosto dalla marchesa Polissena. Ma bisogna anche sapere che il regno di lui era durato poco, nel cuore della Baldovini. L'orgoglio aveva vinta la tenerezza, e un ministro di Stato, che si tingeva i capegli (molto bene per altro, e la cosa non si riconosceva che alla luce del sole), era succeduto nel regno. La maestà scoronata di Emilio Landi si era facilmente consolata di quel piccolo guaio. Infine, non ci sono trionfi graditi che a patto di durar poco. Anche il divo Cesare dovette annoiarsi parecchio, ad averli così lunghi, col peso della corona sulla testa, il tintinnìo de' trofei nelle orecchie, e il continuo sobbalzo di un cocchio senza molle, sul maledetto selciato della Via Sacra, inerpicantesi per il clivo Capitolino.

Emilio Landi era entrato allora allora nel palco, e prendeva, di rincontro alla signora, il posto d'onore che l'altro personaggio gli aveva ceduto, mettendosi con discreta familiarità al fianco di lei.

– Siete maravigliosa, stasera; – disse Emilio, incominciando.

La contessa Elena accolse il complimento ad occhi socchiusi e tirando indietro la sua testina bionda. Era quello un atteggiamento che andava stupendamente alla sua figura rosea, un tal po' irregolare nelle fattezze, ma fine, e che di graziosa e piacevole la rendeva affascinante senz'altro: un atteggiamento studiato se vogliamo, ma che tra tanti artifizi a cui ci ha avvezzati la bellezza, poteva anche sembrar naturale: un atteggiamento, insomma, che un pittor ritrattista del secolo scorso avrebbe invidiato, se pure non è più giusto il dire che ad un pittor ritrattista del secolo scorso la contessa Elena Malatesti lo aveva audacemente rubato.

– Che ve ne importa a voi, Landi? – domandò la signora, dopo aver preso quell'atteggiamento lezioso.

– A me? moltissimo; – rispose il giovanotto. – Si gode tutti, alla vista di un bel fiore, o di un bel frutto dorato. Sia pure nell'orto delle Esperidi, e custodito da un drago, è già grande fortuna ammirarlo da lungi.

– Custodito! da un drago! Ma sapete, Landi, che siete antico, stasera!

E il drago sarebbe il nostro buon Lesarini? —

Così rispondeva la contessa Elena; e il Lesarini, che era per l'appunto il personaggio seduto al fianco della signora, sorrise beatamente, tra i due pizzi grigi, che gli vestivano con aristocratica prolissità le guance scarne.

Non era nobile, il signor Lesarini, che debbo ora descrivervi; era abbastanza ricco per vivere ozioso, e amava consumare i suoi ozi fuori del ceto in cui l'aveva fatto nascere il caso. Tra i suoi pari sarebbe stato un signore; ma ognuno ha i suoi gusti, ed egli preferiva stare coi nobili, facendo il servitore. Uomo maturo, si atteggiava a giovanotto, accettando seriamente il titolo di «molto pericoloso» che gli davano tutti per celia, lasciandolo volentieri accanto alle loro metà, compiacente amico, accompagnatore discreto, drago senza rostro e senza artigli, animale innocuo e felice, che stava accanto all'arrosto e si pasceva di fumo. Anche le signore lo avevano accettato per quello che amava di essere, e se lo contendevano, figuratevi, se lo strappavano a gara. Lesarini di qua, Lesarini di là, era il cucco delle dame, che ci si divertivano un mondo, lo mettevano a tutte le salse e lo incaricavano ancora delle loro piccole commissioni.

Il Lesarini sorrise beatamente, come vi ho detto. L'uffizio di drago, e nell'orto, non gli dispiaceva niente affatto.

– Sicuro; – replicò Emilio alla dama; – e armato fino ai denti.

– Si capisce; – rispose il Lesarini. – Io qui rappresento l'autorità di Gino. —

Di Gino, capite? e non del conte Gino Malatesti. È usanza dei Lesarini di non chiamar mai i loro nobili amici per il casato, nè per il titolo che li distingue. Non altrimenti usano con le dame, chiamandole semplicemente, familiarmente, per il loro nome di battesimo, e preferendo il vezzeggiativo, se c'è. Così, quando si degnano di ragionare delle loro imprese col volgo profano, sogliono attaccare dei discorsi come questi: – «Sapete? ieri Corinna mi ha ricordato… Gino mi rispondeva… Elena mi pregava iersera… Ho incontrato stamane Polissena e mi ha detto: ah bravo, Pippo! vi trovo in buon punto; dovreste accompagnarmi dal dentista…» Raccontando queste maraviglie, i Lesarini trionfano, fanno la ruota come i pavoni, o, se vi piace meglio, come i tacchini. Che si fa celia? Darsi del voi con la gente titolata! Essere i confidenti delle dame più cospicue della città! Avere un posticino nel piccolo Olimpo mandamentale! No, per tutti gli Dei che lo costituiscono, non c'è fortuna più grande per un signor Lesarini.

Un'altra specie di Lesarini è quella che fa la corte ai grandi uomini. Il piccolo personaggio vi conosce, vi onora del suo saluto ed anche, a ore avanzate, della sua conversazione. Vedendovi da lunge, scende dal marciapiede, attraversa la strada per muovervi incontro. Voi lo aspettate, credendo che voglia stringervi la mano, chiedervi notizie della vostra salute. Ma che? Il Lesarini vi abborda e vi dice, come se continuasse un discorso: – «Vengo da Muller, ma inutilmente, e adesso vado da Bauer. Sai? il senatore non può far la bocca alla birra di Chiavenna, ed io mi son preso l'incarico di trovarne dell'altra, o di Gratz, o di Baviera.» – A voi non importa un fico secco che il senatore non gradisca la birra di Chiavenna. Lo stimate per il suo carattere, lo ammirate per la sua parsimonia di parole in Senato, lo amate, lo venerate per i capolavori che ha dati alla patria. Ma no; il Lesarini vi ha da raccontare quel che egli mangia e quel ch'egli beve; e mentre voi, per convenienza, gli rispondete un «ah!» che vuol dire e non dire, egli vi guizza di mano. – «Lasciami, perchè ho fretta; debbo andare da Bauer.» – E vada pure; ma non senza fermarsi otto dieci volte per via, raccontando a tutti la medesima storia.

– Vi ha incaricato di ciò, Lesarini? – chiese Emilio Landi al vecchio cavaliere, al drago della contessa Elena. – Siete un uomo fortunato, voi! Ma ecco… – soggiunse, con un risolino arguto il giovanotto, – ecco un suon d'armi, che annunzia un cambiamento di guardia.

– Dite un rinforzo! – notò la contessa, che aveva udito anch'ella un tintinnìo di sciabola nel corridoio.

L'uscio del palchetto si aperse e comparve nel vano il bel luogotenente De Wincsel; biondo, dagli occhi glauchi e dalle guance rosate; a farvela breve, un angelo vestito da ufficiale di cavalleria. Il barone De Wincsel era un fiore esotico trapiantato in Italia come i suoi riveriti padroni della imperial casa di Asburgo Lorena. Nella sua bellezza bionda e rosea spiccava il tipo conosciuto degli oppressori, un tal po' dilavato nella tinta, ma grazioso per la finezza dei lineamenti, che poi, col crescer degli anni, per quella medesima finezza, fors'anche per le basette ispide e folte sotto un naso troppo piccolo, prende qualche volta un aspetto felino.

La contessa Elena accolse il nuovo visitatore con atto di familiare amabilità, mostrando così al marchese Emilio di non dar nessun peso ai suoi frizzi. Già, se ella avesse dovuto badare a tutte le punture di spilla del Landi, le sarebbe mancato il tempo per meritarne delle altre. Elena Malatesti era tuttavia nel primo anno del suo matrimonio, e già gli arguti Modenesi le avevano appiccicato il suo nomignolo di Generala. Infatti, ella non si vedeva mai senza l'accompagnamento di «un brillante stato maggiore.» Aiutanti, ufficiali d'ordinanza, ufficiali stranieri in missione temporanea, si davano la muta nel salotto della contessa, nel suo palco a teatro, allo sportello della sua carrozza sulla pubblica passeggiata. Infine, quando si è detto la Generala, non occorrono spiegazioni; la contessa Elena aveva il suo soprannome, e mostrava di averlo guadagnato.

Che diceva il conte Gino? Credo che non dicesse nulla. Il nobile, l'intelligente, l'arguto Gino Malatesti era diventato un altr'uomo da quello di prima. Il panno appariva sempre quello, ma era un panno stinto. Del resto, anche così ridotto alla condizione di ombra, anzi perchè diventato ombra, adempieva con garbo al suo uffizio di signore e padrone alla moderna, cioè di compagno, di associato, di tutore, di tutto quel che vorrete, fuorchè padrone e signore. Per lui, dopo tutto, era sempre lì pronta una parolina gentile della moglie; a lui andavano di pien diritto, e non mancavano mai, gli ossequiosi saluti e gli atti di amichevole deferenza di tutto lo stato maggiore di sua moglie. Godeva infine di una società che avrebbe potuto far felice Ulisse, nella sua reggia d'Itaca, in mezzo all'assiduità complimentosa dei Proci, se il fiero marito di Penelope, nascendo con le idee di tremil'anni dopo, avesse voluto rinunziare al gusto di spiccare il suo grand'arco dalla parete e di fare un'ecatombe, non consentita dal codice penale e disapprovata da tutti i ben pensanti del giorno.

E il conte Gino si contentava di quella vita? Ci si adattava? I ben pensanti del tempo suo, che sarebbero stati tutti d'accordo per disapprovare un suo atto d'insofferenza, non sapevano capacitarsi di tanta sua dabbenaggine. – Ma è cieco? – dicevano. – O piuttosto ama di parerlo? —

I più furbi, i più sottili, argomentavano che lasciasse così libera la figlia, perchè amava sempre la madre. Ma poteva reggere, quella supposizione? E il marchesino Landi che gli era succeduto? e sua Eccellenza il ministro di Stato, che era succeduto a tutt'e due? Del resto, il conte Gino si vedeva poco nel salotto della marchesa Polissena; pochi minuti nel suo palchetto a teatro, e a passeggio mai. Anche quella supposizione fu dunque abbandonata. Che altro pensare dei fatti suoi? Un osservatore moralista sentenziò brevemente: – È la penitenza. Casa Malatesti avrà presto un gran santo. —

Il barone de Wincsel, entrato nel palco e sedutosi accanto al marchese Landi, che restava ancora per tutto l'atto al posto d'onore, parlava poco e guardava molto. Era ancora nel periodo delle occhiate e dei sospiri, l'angelo vestito da luogotenente, e aspettava la dolce parola che gli permettesse di spiccare un volo più ardito. E poi, egli non era un parlatore, un chiacchierone, come il marchesino Landi; faceva assai più rumore con gli sproni e con la sciabola, che non con la lingua. Non dimenticate che quello era il tempo in cui si sentivano saltellare le durlindane sui selciati delle città, con gran noia dei viandanti pacifici; nè i generali pensavano a reprimere questo mal vezzo nordico, nè i pronipoti del cavaliere Bajardo avevano ancora insegnato col loro gentile esempio che si può essere valorosi soldati anche portando per via un bastoncello di nocciolo, o una mazza di giunco.

Il De Wincsel guardava e sospirava. La contessa Elena credette conveniente di sviare con qualche discorso l'attenzione di Emilio Landi. Quanto al Lesarini, in verità, non occorrevano tanti artifizi, poichè egli non capiva nulla e non si accorgeva di nulla. Il discorso della contessa Elena si aggirò sulle dame che erano quella sera in teatro. Lei esponendo, Emilio facendo le chiose, si passarono in rassegna tutti i palchetti. La Randoni, sempre nobile, sempre severa, un tipo di matrona antica; come mai aveva potuto mettere al mondo una figliuola così pallida e scarna? E poi, perchè quell'abbigliatura verde? Nessuno per consigliarle un altro colore, che l'abbattesse meno? Un po' meglio la Frassinori; ma che pretensioni, Dio buono! Si credeva una Giunone, o poco meno. A proposito, e perchè non si vedeva l'avvocatino? Dov'era Giunone non doveva mancare il pavone, l'animale a lei sacro.

E la Dal Pozzo Farnese, sempre bella, sempre rigogliosa e fresca come un fior di stagione! Di quella si diceva bene, non potendo fare altrimenti. La Dal Pozzo Farnese era una sorella di Emilio Landi. Tra presenti si usano di queste cortesie! Ma quelle due borghesucce arricchite delle Fantuzzi, che volevano gareggiare di eleganza con le nobili dame, com'erano spietatamente conciate dalla critica di Elena Malatesti e dalla vena compiacente del Landi! Ah, una novità, quella sera! Anche la Campolonghi in teatro; e tutta in fronzoli, e coi brillanti agli orecchi. Naturalissimo; era sposa. E chi era il fortunato mortale? Uno delle parti di Reggio; sicuramente quel giovinotto alto e biondo, un po' timido, impacciato nei modi, ma bello, che si vedeva spuntare dal fondo del palco. Ma chi era quell'altra donna, dal viso bianco e dai capegli nerissimi, che sedeva di rincontro alla sposa? Una fanciulla, certamente, com'era dimostrato dalla giovinezza dell'aspetto e dalla semplicità dell'abbigliatura. Ma non doveva essere modenese, poichè Elena Malatesti non si ricordava di averla veduta mai, e il marchese Landi nemmeno. E aveva guardato Elena, la bella sconosciuta; e la guardava ancora con molta attenzione. – Chi sarà costei? – La parentela dei Campolonghi si conosceva tutta, e il viso di quella sconosciuta non rispondeva a nessuno dei nomi che Emilio Landi poteva citare, tessendo la genealogia di un'intera tribù. – Chi sarà costei? – Neanche il sapiente Lesarini poteva appagare su questo punto la curiosità di Elena Malatesti.

– Chiunque sia, è molto bella; – conchiuse Emilio Landi.

– Vi pare? – disse Elena, che non voleva persuadersene. – Ma già, dimenticavo che voialtri uomini prendete fuoco come l'esca. Guardate almeno com'è tutta affagottata!

– Affagottata, poi, non mi sembra. È messa con molta semplicità.

– Alla moda di cent'anni addietro! – ribattè la contessa.

– Cento son troppi, via! Diciamo di cinque; – volle correggere Emilio Landi.

– E siano anche cinque; – replicò la contessa. – Cinque è come cento, in materia di moda. —

Intanto, quelle guardate della sconosciuta le davano noia. Perchè? Non guardava anche lei, forse? Ma quella sconosciuta era bella, e quelle guardate così lunghe, venendo da una bella persona, così semplice negli abiti, così composta negli atti, avevano l'aria di un giudizio in corso. Finalmente, che vi dirò? la contessa Elena era molto curiosa, voleva saper tutto, e le dava noia di ignorare chi fosse quella giovane donna, non mai veduta fino allora, e sicuramente la più bella tra quante erano allora in teatro.

– Lesarini, voi dunque non ne sapete nulla? – gridò la contessa. – Ma che uomo siete voi? Discendete un pochino e domandate a qualcheduno che sia meglio informato.

– È permesso di ignorare qualche cosa, a questo mondo; – osservò il Lesarini, alzandosi di scatto; – ma è obbligo sempre d'istruirsi, per servizio delle belle signore. —

Si mosse, così dicendo, per discendere in platea.

– Ah Lesarini! – esclamò la signora, mandando a lui la parola e l'accento appassionato, ma l'occhiata furtiva al barone De Wincsel. – È doloroso, sapete, questo vostro plurale! —

Il vecchio cavaliere sorrise beatamente, fece la ruota, ma non rispose verbo. Quando sono accusati di galanteria con molte, e di galanteria fortunata, s'intende, i Lesarini non rispondono mai. Confermare non possono; negare non vogliono; perciò lasciano correre, felici abbastanza che, in mancanza di storia, una leggenda si formi.

Andato il Lesarini a prender lingua, la contessa Elena seguitò la rassegna col Landi, e il giuoco innocente delle occhiate col De Wincsel. Ma tratto tratto guardava anche verso il palchetto della sposa Campolonghi, e quante volte puntava da quella parte il binocolo, tante vedeva lo sguardo della sconosciuta rivolto su lei.

– Andiamo via! – diss'ella finalmente in cuor suo. – È una provinciale di certo, e non sa ancora come son fatte le gran dame. —

Con questo ragionamento, che appagava la sua superbia e che aveva anche una certa apparenza di vero, la contessa Elena mise lo spirito in pace e si lasciò guardare dell'altro, come una dea dell'Olimpo, Giunone, ad esempio, scesa per gran degnazione in mezzo agli Etiopi. Infine, ad un uomo può dispiacere di esser guardato con una certa insistenza da un altro; ad una donna non può spiacer mai d'essere argomento di curiosità femminile, o di ammirazione mascolina, quando ella crede di esser bella, o sa di essere abbigliata all'ultima moda.

Si badava poco alla musica, come vedete. La musica è il linguaggio dei Numi, non c'è che dire; la musica piace anche molto alle signore, per questa ragione semplicissima, che il linguaggio dei Numi copre le voci dei mortali e permette loro di chiacchierare comodamente nei palchi. Quando si recita un dramma o una commedia, la cosa è molto difficile. Altre voci umane si alternano sul palcoscenico, l'uditorio della platea vuol sentir tutto, e zittisce spietatamente le dee che fanno chiasso sui lati. Viva dunque la musica! Quando si è prestata una mezza attenzione alla cavatina del tenore, o al duetto amoroso fra tenore e soprano, o all'aria del baritono, se questi è un bell'uomo e fraseggia con gusto, o al pizzicato degli strumenti a corde, o alla grande uscita delle trombe, per dare anche la parte sua all'orchestra, il rimanente non fa che aiutare il discorso, e le due o tre file di palchi son tutto un cinguettìo, come la frappa di un olmo sull'ora del vespero, quando ci son calate a riposo le passere.

Il terz'atto dell'opera era finito, e il marchese Landi si alzava già, per andarsene a vedere il ballo da un palco di giovanotti, più vicino al proscenio, quando capitò il conte Gino Malatesti. Sebbene fisicamente fosse sempre quello di prima, il conte Gino non pareva più lui, tanto può sull'aspetto di un uomo l'abbattimento dello spirito. Levate il sole ad una bella scena campestre, e non riconoscerete più nemmen quella. Sfiaccolato, cascante, senza brio nello sguardo, senza vivacità nel discorso, il conte Gino Malatesti era invecchiato di dieci anni in sei mesi. Entrò lento, con la sua aria d'uomo rifinito, stese lentamente la mano al De Wincsel, più lentamente rattenne col gesto l'amico Landi al suo posto, e si assise nel fondo del palco, rispondendo breve a ciò che quei due gli dicevano. Poco stante, essendo ripresa la conversazione tra essi e sua moglie, si ecclissò, rimanendo sul posto, e non si seppe neanche più che ci fosse.

– Vedete mio marito; – disse dopo qualche minuto la contessa Elena. – È capace di dormire.

– Non dormo; – riprese Gino; – ascolto ciò che dite voi altri.

– Ecco, se dovessi dire, non ne hai proprio l'aria; – osservò Emilio Landi, mettendosi galantemente dalla parte della signora.

– Se almeno tu volessi raccontarci le visite che hai fatte! – ripigliò la contessa.

– Mi avrai veduto; – rispose Gino. – Sono stato da mamma…

– Cinque minuti! – interruppe ella. – E poi?

– E poi dalla Pallavicino, dalla Borsi, dalla Frassinori.

– Che dice la divina Giulia? – domandò la contessa. – È sempre nemica della musica del nostro Verdi?

– Ah, non so… non ne ha parlato.

– Di che parlava, dunque? Ella non ha quasi altro tema.

– Non saprei dirti; – replicò Gino, confuso. – Si parlò di cose da nulla…

– Vedete, Emilio? – esclamò la contessa, rivolgendosi al Landi. – Mio marito va a far visite, e non sa nemmeno di che cosa gli abbiano parlato. —

Il conte Gino si seccava, e sorrideva tacitamente, a labbra chiuse, come l'uomo che si secca. A levarlo di pena giunse il vecchio Lesarini, glorioso e trionfante. Quella volta il marchese Landi fu per andarsene davvero; ma anche stando in piedi volle rimanere un istante, per sentire le novelle del messaggero.

– Nunzio, che rechi? – diss'egli con piglio alfieresco al nuovo venuto.

– Ho trovato, finalmente; – rispose il Lesarini. – Ho faticato un pochino, chiedendo di qua e di là; ma ora so tutto, so tutto.

– Che cosa? – domandò la contessa, che aveva l'aria di non ricordarsi più della sua grande curiosità di mezz'ora prima.

– Il nome di quella signora… – replicò il vecchio Ganimede, – anzi di quella signorina, del numero quindici.

– A mano manca! – riprese il Landi, con accento rossiniano.

– Sicuro; – disse quell'altro. – Infatti, è proprio a mano manca.

– Ma finitela con queste chiacchiere; – gridò la contessa, spazientita. – Come si chiama questa signorina?

– Per cui tanto reo tempo si volse! – soggiunse, come se volesse compier la frase, l'impenitente marchese Emilio.

– Una Guerri; – disse il Lesarini. – Sapete, e se non lo sapete ve lo dico io, che la Campolonghi sposa un Guerri, del Reggiano. Gente ricca, questi Guerri, ma vivono quasi sempre in montagna. Orbene, quella ragazza è una Guerri, di Fiumalbo, cugina dello sposo, e venuta a Modena, per assistere alle nozze. —

Il conte Gino, sulle prime, non aveva badato al discorso del Lesarini.

Non avea neanche udito il nome dei Guerri; udì invece il nome di Fiumalbo, e si scosse.

– Che c'è? – domandò egli. – Che dite di Fiumalbo?

– Ah sì! – esclamò il Landi. – Tu ci sei stato, da quelle parti, e dovresti anche conoscerla, quella bellezza rara.

– Che bellezza? Dove? – riprese Gino, turbato.

– Laggiù, al numero quindici. Prendi il binocolo, se vuoi vederla meglio. È una Guerri, di Fiumalbo. —

Gino aveva preso il cannocchiale, ma lo lasciò tosto cadere, e fu bene che il Landi non lo avesse ancora abbandonato del tutto, se no, povera madreperla, e povere lenti! Guardava frattanto, il povero Gino, guardava là, dove il Landi gli aveva indicato, e donde oramai non poteva più sviar l'occhio; ma intravvide appena, e una nube gli offuscò la pupilla.

– Guerri! di Fiumalbo! – diceva frattanto la contessa Elena. – Sicuramente tu dovresti conoscerla, se ci sei stato sei mesi.

Anche a me pare di aver sentito nominare questa famiglia. Da chi mai?

Ah, ricordo, da mia madre, otto o nove mesi fa, quando ebbe le prime notizie tue dal ministro. —

Guardava intanto suo marito, quella diavola di contessa, così giovane e già così diavola! Gino si era fatto bianco nel viso, come un cencio lavato. Balbettò poche parole, che nessuno intese, poi si volse all'uscio del palchetto, barcollando.

– Che hai? – gridò Emilio Landi, cercando di trattenerlo..

– Nulla, nulla; un semplice capogiro. Prendo un po' d'aria nel corridoio.

– Lesarini, Landi, seguite mio marito; – disse la contessa. – Sorreggetelo, che non caschi. Ah, ah! Venuto a tempo, questo capogiro! —

E rise, la bella signora. Poi, volgendosi dall'altra parte, puntò il cannocchiale verso la sconosciuta, non più sconosciuta, che in quel momento si ritirava anch'essa in fondo al suo palco.

– Scena doppia, a quel che sembra! – mormorò la signora.

– Che dite, contessa? – domandò il De Wincsel, udendo il suono, ma non cogliendo il senso delle parole.

– Nulla, barone. Guardavo una ragazza, che il Landi mi diceva tanto bella.

– Dove?

– Laggiù, al numero quindici. Ma ora non è più in vista. Voi per altro non avete perduto nulla. È un tipo di contadina.

– Sapete bene, contessa, – susurrò in tono di madrigale il De Wincsel, – che io non me ne lagnerò. Non guardo che una donna, io.

– Fate bene, De Wincsel; – rispose la contessa. – E sia sempre una sola. Un uomo ci si trova male, fra due donne. Il minor male che gli tocchi è di perder l'una senza aver l'altra. —

La bella signora che faceva queste savie riflessioni avrebbe potuto illuminare, non solamente il barone De Wincsel, ma anche noi, povero volgo ignaro, soggiungendo qualche altra considerazione intorno alla donna che si trova fra parecchi uomini, e ci vive tranquilla, come nel suo elemento. Ma di questo ella non si curò più che tanto, la nervosa contessa, e noi ci abbiamo perduto una cognizione che per l'autorità della persona sarebbe stata importantissima. E non è a dire che si trattenesse per difetto di sincerità. Figuratevi che dentro di sè la contessa Elena rendeva perfino giustizia a Fiordispina Guerri, di cui dianzi aveva pur fatto un così acerbo giudizio.

– È bella, infine, e la gelosia non deve farmi travedere; – pensò ella, mentre il De Wincsel stava ancora cercando il senso delle parole di lei, come un avventor di caffè cerca il motto della sciarrada nel giornale con cui ha fatto colazione. – Del resto, sono io proprio gelosa? È bella, non c'è che dire, e capisco che il mio signor marito, nell'ozio forzato del suo confine a Querciola, abbia potuto invaghirsi di quel fiore di bosco. Che amori devono essere stati fra lor due! Perchè poi, sapendo queste cose, la mia signora madre abbia voluto ad ogni costo fare di me una Malatesti, in verità non arrivo a capirlo. Intendo la vendetta, che è il piacere degli Dei. Ma c'era bisogno che ne fossi io la vittima? Io, nel caso di mamma, gli avrei lasciato sposare la sua montanara, con la certezza di esser meglio servita fra un paio d'anni, dal pentimento e dalla noia del signor conte Malatesti. —

Ah contessa, contessa! Ecco un ragionamento molto leggero, che non fa onore alla vostra perspicacia. In primo luogo voi non potevate per nessuna ragione esser la vittima, nella vendetta della marchesa Polissena vostra madre, e la degna signora vi conosceva benissimo per sangue suo, scegliendovi come istrumento. In secondo luogo, dato e non concesso che il conte Malatesti potesse pentirsi fra due anni di un matrimonio in casa Guerri, sarebbe sempre stata una vendetta troppo lenta per la vostra signora madre. Non la serviva meglio, e in soli sei mesi di tempo, un matrimonio del conte Gino in casa Baldovini? Pensateci, nervosa contessa, e ci darete ragione, sincera come siete, e spregiudicata parecchio.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
440 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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