Kitabı oku: «La montanara», sayfa 19
Il grazioso Lesarini interruppe quel sapiente monologo, ritornando nel palco.
– Ebbene? – gli chiese la contessa.
– Nulla, – rispose egli. – Un semplice capogiro; forse effetto del caldo.
– E dov'è, ora?
– Qui nel corridoio col Landi; ritorna subito. – Alla contessa importava poco che suo marito ritornasse, o restasse fuori dell'altro. Rispose tuttavia con un gesto di soddisfazione, che poteva essere di ringraziamento per le notizie del Lesarini, ed anche di chiusura al discorso.
Il ballo stava per incominciare, quando riapparve il conte Gino, ancora seguito da Emilio Landi.
– Come? – esclamò la signora. – Siete ritornato? Credevo che foste andato a far visita… laggiù. —
Il conte Gino le rivolse un'occhiata severa, che, per esser la prima, non doveva turbarla molto; poi freddamente soggiunse:
– Son venuto a prendervi, per ritornare a casa.
– Che novità è questa, Gino? – domandò ella, facendo un gesto di stupore.
– Non è una novità, che io vi accompagni; – replicò Gino, con studiata lentezza di frase. – Spero bene che non mi lascerete andar solo, e non incomoderete il barone De Wincsel per ricondurvi, quando io ci sono.
– Egli… o un altro! Ce ne son tre, di cavalieri e di amici; – mormorò ella, che aveva indovinato il valore dell'argomento.
Si alzò, nondimeno, e accettò la mantellina che era pronto ad offrirle il più vecchio dei tre.
Ed egli e gli altri due capirono poco in quella scena coniugale, nata lì per lì, senza cagione apparente. Nei palchi, poi, fu una grande maraviglia; nessuno capì perchè la contessa Elena Malatesti se ne andasse sul bel principio del ballo. Ma già, era tanto capricciosa e strana, la contessa Elena! Tutta sua madre, infine, quando sua madre aveva vent'anni. Il povero marchese Baldovini ne sapeva qualche cosa! E ciò lo compensava, il brav'uomo, di tutto l'altro che doveva ignorare, in processo di tempo.
Quel che avvenne in casa Malatesti s'immagina. La contessa aveva obbedito al comando, con aria di vittima ingioiellata e rassegnata al sacrifizio. Ma come fu giunta a palazzo, fece una scenata coi fiocchi. Ella capiva benissimo che se non si ribellava subito, se non mostrava i denti a suo marito, quell'uomo così dolce, ma così freddo, che l'aveva sposata per forza, che amava lei quanto ella amava lui, sarebbe diventato un tiranno, non le avrebbe lasciato più un'ombra di quella libertà che ella aveva imparato ad apprezzare, appena uscita di conservatorio, nella casa di sua madre. E gliene disse, al conte Gino, gliene disse di crude e di cotte, sperando che quell'uomo perdesse la pazienza e levasse la mano per batterla. Ma il conte Gino era un signore. Stette un poco a sentire, sdegnoso e taciturno, quella furia scatenata; poi si ritirò nella sua camera, lasciando la contessa più inviperita che mai.
La mattina seguente capitò al palazzo Malatesti la marchesa Polissena. Veniva a vedere perchè la contessa sua figlia fosse partita così presto da teatro. Che diamine! Non si va via dallo spettacolo, quando esso è sul più bello. Ci sono dei doveri sociali anche nei divertimenti, ed occorrono ragioni assai forti per rinunziare alle commozioni artistiche di un passo a due. La marchesa Polissena seppe allora che sua figlia aveva dovuto andarsene per obbedienza ai capricci di un marito geloso o seccato.
– Che vuol dir ciò? – chiese ella, entrando con piglio tragico nello studio del conte Gino. – Perchè queste scenate, che non si usano più, che non si sono usate mai, nella buona società? Elena mi ha confessato tutto. Voi dunque vi mettete a fare il tiranno? È una parte odiosa e ridicola, ve ne avverto, e intendo che la smettiate. —
Il conte Gino lasciò passare quella raffica; poi freddamente rispose:
– Mi duole di dovervi avvertire che in casa mia faccio quel che mi pare, e di quel che faccio non rendo conto a nessuno.
– È il vostro programma?
– Decoratelo pure di questo nome: è il mio modo di vedere.
– Non è il mio, e avrete la compiacenza di cambiarlo; – rispose la marchesa Polissena. – Voi siete il marito di Elena, ma io sono sua madre. Non ve l'ho concessa, ricordatelo, non ve l'ho concessa perchè aveste a tiranneggiarla.
– Ah, signora! – esclamò Gino, spazientito. – Meglio avreste fatto a non concedermela, poichè vi piace di usare questo verbo, scambio d'un altro che sarebbe più adatto.
– E quale di grazia?
– Debbo io rinfrescare la vostra memoria? Questo matrimonio, di cui vedevo tutto l'orrore (perdonate, se non trovo altro vocabolo), questo matrimonio, che voi per la prima avreste dovuto giudicare impossibile, voi me lo avete imposto, signora! —
La marchesa Polissena si morse le labbra. Ma ella non era donna da turbarsi per così poco.
– Sia pure; – diss'ella; – imposto, perchè vi è stato offerto come il corrispettivo di certi perdoni. Accettando i benefizi che v'erano annessi, dovevate accettarne le condizioni.
– Le ho io violate? – gridò Gino. – Da sei mesi la vostra figliuola è padrona di far tutto ciò che le pare e piace; da sei mesi ella ha in me un marito esemplare.
– Parleremo di ciò; – ribattè la marchesa. – Per intanto, iersera avete sfoderata la vostra autorità, e molto inopportunamente, per il luogo e per l'ora. Con quale ragione? Sareste voi capace di dirlo?
– È una ragione onesta, signora, e non temerò di sottoporla al vostro giudizio; – rispose Gino, con calma. – Ho veduto iersera un capriccio, di ragazza viziata, e il proposito deliberato di offendermi. Posso lasciar correre molte cose, signora; non posso egualmente permettere che si deridano sentimenti sacri, di rispetto e di amicizia, per chi è tanto al disopra di noi; non posso permettere che si entri con quell'aria di sprezzo nel santuario dei miei ricordi, e mi si butti in faccia quello che io ho sempre gelosamente custodito, come la parte migliore di me.
– Di bene in meglio! – esclamò la marchesa. – C'è qui una progressione ammirabile. E coloro che credettero un giorno di essere qualche cosa in quel vostro santuario, possono invidiare il posto che voi avete dato a certi ricordi più freschi. Gino, – soggiunse la marchesa, mutando improvvisamente il tono delle sue parole, – voi mi ricordate in mal punto l'offesa che ho ricevuta da voi.
– Da me? V'ingannate, bella signora; – rispose Gino, dissimulando a stento il fastidio di quella disputa; – già un'altra volta ho avuto occasione di dirvelo, e speravo oramai di avervi persuasa. Chi aveva dimenticato, di noi due? Mandato a confine, senza che mi lasciassero il tempo di vedere nessuno, vi scrissi, e non ebbi risposta. Non potevate darmi un cenno di voi, lo capisco; eravate tanto impegnata nella stagione teatrale immaginata e architettata da voi!
– Sciocchezze! – mormorò Polissena. – Volevate voi che io mi rendessi la favola di tutta la città? La mia condizione era forse tale da permettermi di trascurare ogni riguardo per voi? —
Gino raccolse con un sorriso amaro quella grande argomentazione.
– Ah sì! – diss'egli di rimando. – I riguardi, le apparenze, le convenienze sociali volevano che voi andaste ai bagni di Lucca, accompagnata da Emilio Landi. Ma non vi biasimo, badate; un cuore guarito non sente più certi dolori, e il mio amor proprio aveva ceduto in tempo ai consigli della ragione. È quasi ridicolo, per non dir peggio, che io parli ora a voi, mia suocera, di queste ragazzate del tempo antico. Ho infine accettata la legge vostra; sono passato sotto il giogo, come un vinto; che cosa volete di più? Sono un marito esemplare, già ve l'ho detto; concedo a mia moglie ogni libertà…
– Troppa! – interruppe la marchesa. – E le fate veder troppo chiaramente che non l'amavate, sposandola.
– Perdonate, non ho di questi rimorsi; – replicò Gino. – Ella non ha trovato in me un uomo pazzo d'amore per lei, ma almeno almeno un compagno affettuoso e cortese. Uscita appena di conservatorio, doveva ella essere già tanto esperta, da distinguere tra gli ardori della passione e il sentimento delicato dell'amicizia? Io dimentico, o signora, che voi non le avete nascosto una parte del mio passato. Ciò che io ne ho veduto ieri sera, mi spiega molte cose del suo carattere e dei suoi diportamenti con me. Ma sapesse ella anche tutto, – proruppe Gino, irritato dai vincoli che la delicatezza imponeva al suo discorso, – di che aveva a lagnarsi? Fui l'uomo più compiacente del mondo; ho popolato la mia casa di sospiranti; ho veduto succedersi al fianco di vostra figlia tutti i tipi più graziosi, come i più antipatici.
– Colpa vostra! – notò la marchesa.
– Che dovevo far io? – replicò Gino. – Una scena coniugale ad ogni nuovo aspirante che si presentava? Chiudere le porte di casa mia, mentre erano aperte quelle di casa vostra? —
La marchesa Polissena rispose con una crollata di spalle.
– Voi date troppa importanza ad alcuni scherzi innocenti, che sono il passatempo della gioventù; – diss'ella poscia, con un sorriso di compassione. – Auguratevi di non aver mai da rimproverare a vostra moglie altri torti che questi, di esser bella, di piacere, e di sentirselo dire.
– Ed ho lasciato correre, come vedete; – rispose Gino. – Ho lasciato dire, ho lasciato ascoltare.
– Per giungere allo scandalo di iersera! – replicò la marchesa. – Meglio valeva incominciare subito. La mia Elena avrebbe saputo fin da principio a che vita era condannata da voi.
– Non dimenticate, – disse Gino, – che lo scandalo di ieri sera, come vi piace di chiamare una partenza da teatro, ha avuto ben altre cagioni. Vi ha ella ripetute le sue parole?
– Sì, e non ci ho veduto che una cosa, assai perdonabile agli occhi di un uomo di garbo. Vostra moglie è gelosa.
– Di un'ombra; – rispose Gino. – E quest'ombra, suscitata con discorsi imprudenti da voi.
– Sì, ora accusate me! – gridò Polissena. – Dopo essere diventato coi vostri amori di montagna la favola di tutta Modena, pretendevate che niente giungesse, nemmeno l'eco delle vostre sciocchezze, all'orecchio di Elena? Pure, ella seppe dimenticare quella storia, poichè vi ha sposato. Date colpa a voi, se la vostra freddezza, il vostro essere sempre col pensiero altrove, hanno richiamato alla sua mente i discorsi di tutti. Un caso che non so ancora spiegarmi, o che potrei spiegarmi troppo bene, le ha condotta davanti la vostra innamorata. Doveva ella non darsene per intesa? Conoscete assai male le donne, conte Gino, se credete che possano tollerare queste offese al loro amor proprio.
– Ah, manco male! – esclamò Gino. – L'amor proprio, che non è punto l'amore!
– E che perciò? Anche quando l'amore ci è uscito dal cuore, l'amor proprio rimane; – replicò Polissena. – Non offendete l'amor proprio di una donna, quando ne avete perduto l'amore. Ma questi sono discorsi vani, tra noi; – soggiunse la bella sdegnata. – Ditemi piuttosto che cosa contate di fare.
– Io? – chiese Gino, maravigliato. – Nulla.
– Ma vostra moglie è offesa.
– Lo sono più di lei; e mi fate pensare che ella deve scusarsi con me di una sgarbata allusione.
– Non lo sperate! – gridò Polissena. – Se anche Elena acconsentisse ad umiliarsi davanti all'ombra della vostra Dulcinea, non lo permetterei io, mi capite? Io, sua madre, non le permetterei di avvilirsi al cospetto dell'ombra. La chiamo così, per imitarvi, – soggiunse la marchesa, con piglio sarcastico, – quantunque l'abbia veduta anch'io, in carne ed ossa, la contadina per cui avete tanto sospirato. Bella, sì, d'una sciocca bellezza! La bellezza dei capegli neri! Ve ne ricordate, conte Gino? La sentenza è vostra, e di quei tempi che davanti ai vostri occhi avevano grazia solamente le bionde. Molto involontariamente, credetelo, ma ho pur dovuto pensarci, vedendo quell'ottava meraviglia. Gran cosa, la vostra contadina! Divinità eccelsa, a cui tutto si dovrebbe sacrificare, la dignità di mia figlia e l'onor mio! Badate Gino! ho ancora le braccia lunghe, e posso farvi pentire. —
Stendeva il braccio, così dicendo, e quel braccio pareva lungo davvero, con quella bianca mano aperta in atto di minaccia.
– Come? – gridò Gino. – Che cosa ardireste ancora?
– Tutto! Non dimenticate che i vostri Guerri hanno sempre un conto aperto con la giustizia.
– Sarebbe un'infamia! – esclamò Gino, torcendo il viso, inorridito.
– Come vorrete; – replicò Polissena. – Io difendo mia figlia, e prendo le armi dove sono. —
Gino rimase un istante sovra pensiero, considerando il pericolo a cui erano esposti i suoi poveri amici ed ospiti di Fiumalbo. Il suo sagrifizio non era dunque bastato a liberarli per sempre? Quella donna furibonda lo teneva ancora incatenato a' suoi piedi?
– Vi ho detto, signora, quello che volevo io; – mormorò egli, dopo quell'istante di pausa. – Ditemi che cosa volete voi.
– Che facciate delle scuse ad Elena.
– Delle scuse? L'ho io dunque offesa così gravemente?
– Sia grave o leggera l'offesa, – replicò Polissena, – essa ebbe testimoni tre persone.
– E per caso, – riprese Gino, – dovrei fare delle scuse anche ai tre testimoni?
– Una buona parola andrebbe detta, sicuramente. La scortesia del vostro comando ad Elena può averli feriti benissimo.
– Dio mio! Il Lesarini, ferito? È un uomo che non conta nulla. Il Landi, ferito? È un vecchio amico nostro, e vorrà dimenticare queste scioccherie.
– C'è il De Wincsel; – notò la marchesa.
– Ah, sì, il De Wincsel! Ci venivo; – rispose Gino. – Al barone De Wincsel darò tutte le spiegazioni che egli mi chiederà.
– È un uomo delicato e non chiederà nulla.
– Tanto meglio per la sua delicatezza; – replicò Gino, spazientito. – Penserò, del resto, al vostro consiglio. Non credete voi che io debba in questo caso consultare anche mio padre?
– Che bisogno c'è di parlare al conte Jacopo?
– Lo vedo io, il bisogno, e spero lo riconoscerete anche voi. Mia moglie, per un semplice invito a lasciare il teatro, mi mette al punto di dover discutere con voi i termini di una solenne riparazione. È un affare grave, adunque, un affare di Stato! Se ella si è consigliata con sua madre, non dovrò io consigliarmi con mio padre? —
La marchesa Polissena stava per dargli risposta, quando fu bussato all'uscio, e un servitore entrò, annunziando l'arrivo di due signori, che chiedevano di parlare al conte Gino.
– Falli passare nel salotto; – disse Gino, dopo aver dato una guardata ai biglietti di visita che il servitore gli aveva consegnati. – Vengo subito da loro. —
Il servitore s'inchinò ed escì, per eseguire i comandi ricevuti.
– Suocera mia, permettete? – ripigliò Gino, volgendosi a Polissena. – Ripiglieremo la nostra conversazione più tardi. Se pure, – soggiunse con aria dolente, – non vi sembra che abbiamo discorso già troppo per così piccolo argomento.
– Che cosa vogliono questi signori? – domandò la marchesa, senza por mente alle parole di Gino.
– Non so; vado a vedere; – diss'egli.
– E chi sono?
– Due amici, signora.
– Due amici! E mandano i loro biglietti di visita!
– Mah!.. Forse per non vedere storpiati i loro nomi da un servitore; – rispose Gino, sorridendo.
Era il suo primo sorriso, dacchè la marchesa Polissena era entrata nello studio. Ed era anche giusto che sorridesse, il povero conte Gino. La visita di quei due personaggi gli recava la speranza di un diversivo, di uno di quei buoni ed utili diversivi, che sono invocati, salutati come la man di Dio, nei momenti difficili.
La marchesa non domandò altro e lo lasciò partire, rispondendo con un cenno del capo al suo ossequioso saluto.
Capitolo XVII.
Le vittorie di Polissena
Non erano due amici, in verità, quelli che aspettavano il conte Gino Malatesti. Uno di essi era un semplice conoscente, lo Schwabe, anch'egli barone, o qualche cosa di simile, anch'egli luogotenente di cavalleria, come il barone De Wincsel. L'altro era il marchesino Frassinori, un fatuo, un pretensioso, che egli non poteva soffrire.
– Li prego, vogliano sedersi; – disse Gino, assai cerimoniosamente, additando due sedie. – In che posso servirli? —
I due visitatori aspettarono che il conte Malatesti avesse preso posto sulla poltrona; poi sedettero anch'essi, stando bellamente sulla vita.
– Veniamo, signor conte, – disse il luogotenente Schwabe, – incaricati di una commissione del signor barone De Wincsel.
– Ah, bene! – rispose Gino, inchinandosi. – E che vuole?
– Vorrebbe… – ripigliò quell'altro. – Ma in verità, il verbo è improprio, nel caso presente. Il signor barone desidera uno schiarimento da Lei. Iersera, essendo egli in visita nel palco di Vossignoria, gli parve che Ella lo trattasse con molta freddezza, insolita in Lei. Gliene avrebbe richiesto direttamente, o allora, o più tardi, nell'uscir da teatro, fidando nelle loro buone relazioni d'amicizia. Ma questo egli non potè fare, poichè Vossignoria accompagnava a casa la signora contessa. Ora, Ella intenderà, signor conte; pensandoci su, gli son cresciuti i dubbi nell'animo. E siccome gli sta molto a cuore la stima di Vossignoria, che sa di non aver demeritata, la prega per mezzo nostro di volerlo rassicurare su questo proposito. —
Il discorso era gentile, e il conte Gino ammirò la delicatezza del barone Da Wincsel. Bisognava rispondere, e rispondendo non esser da meno.
– Il barone è cortese; – rispose Gino, inchinandosi ancora. – Egli mi offre una facile occasione per dirgli che ha male interpretato un momento di umor nero e dubitato a torto dei miei sentimenti per lui. Ma vedano, signori; – soggiunse egli tosto, frenando col gesto un bel movimento dello Schwabe; – ciò che sarebbe stato possibile ieri, da uomo a uomo, non lo è più egualmente stamane.
– E perchè di grazia? – domandò quell'altro. – Favorisca spiegarci la differenza che ci vede, e che non ci vediamo noi, l'assicuro.
– Ecco, signori miei; – ripigliò il conte Gino. – Ho sempre creduto che quando si presentano due gentiluomini, per incarico di un terzo, a chiedere una spiegazione…
– Uno schiarimento, perdoni! – interruppe lo Schwabe.
– Sia pure uno schiarimento; – disse Gino. – Quando si presentano due gentiluomini, per chiederlo in forma solenne, è cortesia fare in modo che essi non si siano scomodati invano. La loro commissione, signori, è larga, e non potrebb'essere altrimenti, trattandosi di persone così rispettabili; può andare dalla domanda di uno schiarimento a quella di una riparazione. Date certe circostanze, lo capisco; – soggiunse Gino, andando incontro ad una osservazione che già vedeva fiorir sulle labbra del suo gentilissimo contradditore. – Ma appunto perchè la solennità del messaggio suppone l'ampiezza del mandato, mi permettano di usare della maggiore cortesia verso le Signorie Loro, ricusando uno schiarimento che ridurrebbe a troppo piccole proporzioni il loro ufficio cavalleresco! —
Il luogotenente Schwabe stette un momento sopra di sè; volse un'occhiata al compagno, come per interrogarlo, e n'ebbe in risposta un cenno del capo, che voleva dirgli: – fate voi. – Allora il bravo luogotenente, non volendo abbandonar così presto il terreno su cui si era piantato da principio, rispose in questa forma a Gino Malatesti:
– Signor conte, noi intendiamo benissimo le ragioni che la muovono. Esse sono delicate, come la quistione per cui siamo venuti. Ma noi ci terremo fortunati, lo creda, assai fortunati, se per uno schiarimento necessario da amico ad amico Ella penserà di essere, non già davanti a padrini, ma bensì ad amici comuni.
– Grazie! – replicò il conte Gino. – È doloroso per me di non poter approfittare di un'offerta così gentile e così gentilmente espressa. Vogliano dire al signor barone De Wincsel che la sua domanda, toccando il diritto mio di esser freddo, o triste, o di umor nero alle mie ore, io, conscio di non aver mancato a nessun dovere di gentiluomo, la considero… inopportuna. —
Il luogotenente si strinse nelle spalle e chinò la testa, come un uomo persuaso di aver fatto quanto era nel poter suo e perciò di non aver nulla a rimproverarsi.
– Quando è così, – diss'egli, alzandosi, – noi non abbiamo più, signor conte, che a domandarle…
– I nomi de' miei rappresentanti, non è vero? – disse Gino per risparmiargli la fatica.
– Sì, signor conte.
– Ebbene, vogliano fissarmi un appuntamento per questa sera, e avrò l'onore di presentarli. —
Il luogotenente prese dal suo taccuino un biglietto di visita e ci scrisse con la matita poche parole accanto al suo nome.
– Eccole il nostro recapito; – disse, porgendo il biglietto al conte Gino. – Alle sei, se Le pare.
– Anche alle cinque; – rispose Gino. – E prima, se credono; purchè mi concedano il tempo di trovare due amici. Non prevedendo la loro visita, son costretto a farli aspettare un pochino.
– Che dice Ella mai? Faccia il suo comodo; – disse il tenente. – Aspetteremo i suoi rappresentanti dopo le cinque, com'Ella propone. E grazie, signor conte, e voglia perdonarci il disturbo. —
Qui furono inchini da una parte e dall'altra, e i due padrini del barone De Wincsel si ritirarono, accompagnati dal conte Gino Malatesti fino all'uscio della casa.
Ah, finalmente! il diversivo era trovato; Gino poteva smaltire la collera in qualche modo, sfuggendo alle persecuzioni, alle minacce della terribile suocera. Ma una cosa non aveva egli preveduto, cioè di trovarsela ancora davanti, mentre ritornava nelle sue stanze, per prendere il cappello e il pastrano.
Polissena era là, ritta accanto alla portiera, in atteggiamento severo, disposta a fargli pagare il pedaggio.
– Vi battete? – gli disse.
Gino la guardò con tanto d'occhi, avendo l'aria di cascar dalle nuvole.
– Non crediate di potervi infingere con me; – riprese Polissena. – Ho udito tutto.
– Me ne duole; – disse Gino. – Qualunque cosa avrei potuto credere, fuor questa, che voi, signora, aveste il costume di ascoltare agli usci.
– Tenetevi le vostre lezioni! – gridò la marchesa. – Non ne ricevo e non ne tollero. Il vostro duello non avverrà.
– Che intendereste di dire? Come potreste opporvi voi?
– Lo so io, il come. Vi dico che non vi batterete, dovessi per ciò farvi mettere sotto chiave.
– Mi fareste passare per un vile; – disse Gino. – Non ci mancherebbe più altro; sarei completo, in fede mia! —
Frattanto era giunto a spiccare il pastrano dalla gruccia.
– Signora, – soggiunse egli, – i miei doveri! E vogliate essere più umana con me, ve ne prego! —
Polissena rispose alla preghiera con un gesto di minaccia, e si ritirò verso le stanze di sua figlia, mentre egli muoveva verso l'uscio di casa, per andare in traccia di due padrini.
Le ricerche non furono lunghe, nè difficili. I due primi gentiluomini a cui si rivolse il conte Gino Malatesti accettarono subito, recandosi ad onore di servirlo. Gino diede loro il ricapito dei padrini avversarii, e l'ora e il luogo dove li avrebbero trovati ad aspettare. Il mandato suo, si capisce, era di accettare lo scontro, senza discutere sulle cause: quanto alle condizioni, le desiderava gravissime. I due padrini non accolsero la seconda istruzione così favorevolmente come avevano accolta la prima.
– Se noi domandiamo le condizioni più gravi, – gli dissero, – si crederà poi in città che fossero gravi le offese.
– Ma è già grave, – ribattè Gino, – che mi si voglia imporre l'umore con cui debbo entrare nel mio palco, a teatro.
– Sì, va benissimo; hai un monte di ragioni; – risposero i padrini. – Ma tu non devi dare argomento di supposizioni calunniose alla gente. Del resto, lascia fare a noi; ci regoleremo secondo le circostanze, e provvederemo all'onor tuo, come vorremmo che in un caso simile fosse provveduto al nostro. Ti va? —
Gino ringraziò i suoi padrini, e se ne ritornò al palazzo Malatesti, verso le quattro del pomeriggio.
La contessa Elena non era in casa. Poco dopo la partenza del marito, era escita a far visite, in compagnia di sua madre. Più tardi era venuto un servitore di casa Baldovini ad annunziare che la contessa si fermava a pranzo dai suoi.
– Tanto meglio! – pensò Gino, come il suo servitore gli ebbe fatta relazione della cosa.
Era appena entrato nel suo studio, quando sopraggiunse suo padre. Il conte Jacopo appariva più grave, più accigliato del solito, e Gino capì tosto che dalla marchesa Polissena, o da Elena stessa, era stato informato di tutto.
– Che c'è di nuovo? – gli disse suo padre, sedendosi davanti alla scrivania, in quel medesimo atteggiamento di giudice che abbiamo già veduto a Sassuolo. – Che cosa sono questi duelli e questi dissapori in famiglia? Non debbo io saper nulla?
– Padre mio, – rispose Gino, – tutto ciò è avvenuto improvvisamente, e mi sarebbe mancato il tempo di adempiere un obbligo urgentissimo di cavalleria, se fossi venuto subito da te per consiglio. La marchesa Baldovini del resto, se è lei che ti ha informato, poteva aggiungere che io stesso non volevo risolver nulla, di ciò che ella pretendeva da me, senza ricorrer prima al tuo senno e alla tua esperienza. Vuoi tu ascoltarmi, ora?
– Parla; – rispose il vecchio, senza smettere il cipiglio con cui era entrato poc'anzi.
Gino narrò tutto, dal principio alla fine, rifacendo anche brevemente la storia di sei mesi, che tanti ne noverava il suo matrimonio. Il conte Jacopo lo ascoltò, senza interromperlo mai, senza dar cenno di approvazione o di biasimo.
Così, del resto, dovrebbero ascoltare i giudici. Il conte Jacopo Malatesti non aveva portato mai la toga e il berretto; pure, doveva esser venuto al mondo col bernoccolo del magistrato. Solo a vederlo, si sarebbe potuto credere di aver davanti uno di quei vecchi consiglieri di corte, la cui gravità vigilante non tradisce mai un movimento, anche lieve, la formazione di un pensiero, e gli occhi non brillano che a guisa di punte luminose, per penetrare nei meandri oscuri di un processo, mentre la faccia, immobile come una maschera, tutta a scomparti come una libreria, non fa mostra che di dottrina legale, e in ogni fascio di que' muscoli magri è ristretto un titolo di Codice, da ogni grinza fa capolino un commento.
Gino parlava, e parlando interrogava con gli occhi la faccia di suo padre. Quella faccia era muta, e il nostro giovinotto poteva temere di non aver favorevole il suo giudice. Perciò fu grande la sua maraviglia, quando, finita la sua esposizione, si sentì dire dal conte Jacopo:
– Va bene. —
– Ah! – esclamò egli, sollevato.
– Mi rincresce del duello; – riprese il conte Jacopo; – ma ci vorrà pazienza, ed io non lo disapproverò, in questa occasione. Un gentiluomo non deve sopportare che nessuno gl'insegni a qual ora e in quali circostanze gli è permesso di ricondurre a casa sua moglie.
– Padre mio! Tu dunque mi approvi? Tutto è bene, in quel che ho fatto?
– Non tutto; – rispose il conte Jacopo. – Da qualche tempo aspettavo che tu vedessi la necessità di mettere un po' d'ordine nella tua famiglia, che è a mala pena incominciata. Certa leggerezza di modi, che è permessa oramai in casa Baldovini, non è ancora lecita, e spero non lo sarà mai, in casa Malatesti. —
Gino avrebbe potuto rispondere a suo padre: – «o allora perchè volere questa alleanza coi Baldovini?» – Ma egli avrebbe messo in un grave impaccio quel vecchio gentiluomo, che, come tanti e tanti del suo tempo e del suo grado, vedeva nel matrimonio un contratto, stipulato per la continuazione della stirpe, e, dopo ciò, lentamente degenerato in un vincolo di convivenza, e quasi quasi di tolleranza scambievole, sotto le apparenze di una gran dignità.
Del resto, il conte Gino pensava in quel momento a tutt'altro.
– Ah, padre mio! – esclamò egli. – L'ordine! A che serve, quando l'amore non c'è?
– Serve a mantenere il rispetto; – rispose il conte Jacopo. – Serve a far sentire presente e vigilante l'autorità del marito, per i giorni in cui potrebbe essere sconosciuta. Non sono stato severo coi miei figli, che per vederli alla lor volta severi con gli altri. La vita è una catena di doveri, e guai se un anello si rompe! —
Gino era tuttavia con suo padre, quando capitarono i suoi padrini a cercarlo.
– Falli entrar qua; – disse il conte Jacopo. – Non c'è niente di male, che senta anch'io quello che hanno combinato. —
I due padrini furono introdotti, e parvero alquanto impacciati alla presenza del vecchio.
– Parlate liberamente, amici miei; – disse Gino. – Mio padre sa tutto, e ciò che noi facciamo ha la sua approvazione.
– Egregiamente! – risposero quelli. – Ma in verità faremo assai poco.
– Perchè? Non vi ho io dato i più larghi poteri?
– Non abbiamo avuto occasione di usarne. È accaduto un fatto nuovo, un fatto strano, che rimanda il tuo duello ad altro tempo, e fors'anche alle calende greche.
– Qual fatto? – gridò Gino.
– Or ora te lo spiegheranno i padrini del barone De Wincsel, che sono venuti con noi, e che aspettano là, nel salotto.
– Questa è nuova! – disse Gino. – Che ho io da fare con loro, dopo averli messi in relazione con voi altri?
– È sempre il fatto nuovo, il fatto strano, che ti abbiamo detto poc'anzi. Una novità ne chiama un'altra. Il barone De Wincsel è agli arresti, e i suoi padrini si credono in dovere di mettersi a tua disposizione. Vuoi riceverli, dobbiamo risponder noi per te? —
Gino interrogò con lo sguardo suo padre.
– Va, – gli disse il conte Jacopo. – S'intende che se quei signori sono tanto cortesi per mettersi a tua disposizione, tu, che non hai nulla con loro, non puoi accettare un'offerta così generosa. Aspetterai che il barone De Wincsel sia libero, per essere allora, come eri oggi, a disposizione sua. Non era egli lo sfidatore?
– Certamente.
– Ebbene, la cosa è chiarissima. Tu gli fai una grazia, rinunziando al tuo diritto di non rimanere più di quarantott'ore impegnato. Va dunque, e rispondi in questo senso. —
Gino ammirò la dottrina cavalleresca di suo padre, e pensò che si giudicano male gli uomini, non badando che agli usi della loro vecchiaia. Il conte Jacopo era stato a' suoi tempi un cavaliere inappuntabile, i cui pareri, in materia d'onore, facevano testo.
Così preparato, il conte Gino entrò nel salotto, insieme co' suoi padrini. Il luogotenente Schwabe e il marchesino Frassinori salutarono assai gravemente, e il primo di essi espose il rammarico di tutti e due per ciò che era accaduto. Andati a vedere il barone De Wincsel, per riferirgli tutto ciò che era stato concertato coi padrini del conte Malatesti, avevano trovato un suo biglietto, e gran mercè che gli fosse stato consentito di scriverlo. Il barone De Wincsel era agli arresti in Cittadella, nientemeno; non sapeva il perchè di quell'ordine, e dalla scelta del luogo in cui lo mandavano, capiva che non sarebbe stato affare di poco. Così andavano a monte le pratiche da essi incominciate, per condurre i due gentiluomini sul terreno; ma perchè il signor conte Malatesti era stato incomodato dai padrini del barone De Wincsel, essi credevano obbligo loro di mettersi a disposizione sua.