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Kitabı oku: «La montanara», sayfa 22

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Un dubbio sorse nella testa di Aminta.

– Caporal Piras!

– Ebbene, che hai?

– Questa non è la strada.

– Perchè?

– Perchè non troviamo più nessuno dei nostri. Veda, del resto; il sentiero, in cui siamo entrati, piega insensibilmente verso il lago. Non crede Lei che tirando avanti così riesciremo all'aperto, sotto i bastioni di sinistra?

– Il Guerri ha ragione; – disse il soldato Isoardo; – andiamo in trappola!

– Pare anche a me; – borbottò il caporale, dopo alcuni istanti di osservazione. – Pure, il tenente ci ha detto: sempre a sinistra!

– Sempre a sinistra; ma non troppo! – replicò il soldato Isoardo.

– E allora che si fa? Saremo tagliati fuori! – disse il Guenzi.

– Questo poi non mi conviene; – rispose il caporal Piras.

– Neanche a me, – disse un altro. – Caporale, che pesci si piglia?

– Vada al lago, chi vuole pigliar pesci; – ribattè il caporale. – Io ritorno per di qua, a cercare l'altro sentiero.

– Sì, ritorniamo; – dissero tutti.

Ma il nemico era già al bivio; bisognava spazzare il cammino.

– Da bravi! – esclamò il caporal Piras. – Qui c'è una cosa sola da fare:

una carica alla baionetta Oramai ci si vede quanto basta. Guenzi, Isoardo, Guerri, qua in prima fila con me! E voi altri serrate sotto!

Non un colpo; baionette spianate; e avanti, Savoia! —

Savoia! Come è dolce il tuo nome, gridato nella mischia sanguinosa! Come scorre facile, ardente dalle labbra, accompagnando il passo, affrettandolo contro le ordinanze nemiche! Savoia! Savoia! Fu un grido solo, un urlo disperato, e su per la viottola campestre quel pugno di fantaccini incalzava come una falange macedone.

L'avanguardia nemica aveva scaricati i suoi fucili contro la piccola schiera, ma non ne aspettò l'urto; balenò davanti alla rovina e diè volta. Il passo era libero; due soli feriti; uno di essi Aminta, a cui era sembrato ricevere uno spintone al braccio destro, e che aveva creduto lì per lì di essere stato urtato da un compagno, nella furia del correre. A tutta prima non ne aveva fatto caso; ma poi, sentendo di non poter reggere il fucile, abbassò gli occhi a guardarsi la manica, e la vide strappata poco sotto alla spalla. Recò allora la mano allo strappo, e sentì un dolore acuto. Con la sensazione del dolore all'omero, gli venne alla mano uno spruzzo caldo di sangue.

– Cose da nulla! – disse il caporal Piras, dopo che ebbe verificati i danni. – Se rimanevamo a scaramucciare da lontano, ne buscavamo assai più. Eccoci finalmente all'incontro dei due sentieri. Prendiamo dunque quest'altro, che dev'essere il buono. —

Era il buono davvero. Il manipolo delle sentinelle ci aveva fatti a mala pena dieci passi, quando vide accorrere di là una compagnia di sostegno.

– Che c'è? – chiese il capitano Cattaneo, che ne aveva il comando.

– Una pattuglia austriaca; – rispose il caporal Piras. – Noi l'abbiamo caricata alla baionetta.

– Bravi! – esclamò il capitano Cattaneo. – Tanto più che non sarà solamente una pattuglia, ma molto probabilmente l'avanguardia di una ricognizione delle solite.

– Infatti, signor capitano, ci sparavano addosso anche dai campi laterali.

– Vedete? Ve lo dicevo io? Ed eravate in pochi, per una carica.

– Signor capitano, allo stretto si pareva di più. E poi, non era ancora giorno chiaro.

– Ah sì! La nuit tous les chats sont gris; – osservò il tenente Gordolon, un nizzardo, che parlava bene e volentieri il francese.

Il capitano Cattaneo ordinò alla compagnia di sostegno di prender posizione lungo le siepi. Il nemico era in forze, di là da un campo di grano turco, e sopra le vette delle piante ancor giovani si vedevano tratto tratto apparire le teste dei soldati, coi loro alti pentoloni neri.

Il fuoco ricominciò. Veramente, non era cessato; ma la compagnia di sostegno gli diede una gagliarda ripresa.

– Tenetevi più radi! – gridò il capitano ai suoi soldati. – Così! A dieci passi l'uno dall'altro! E tirate più basso, nel verde; la palla si farà strada. —

Aminta, col suo braccio sanguinante, era stato mandato indietro, ad aspettar l'ambulanza. Un bravo soldato, il Tonazzi, lo aveva fatto sedere al piede di un gelso, e lo rinfrancava con qualche sorso di rum della sua fiaschetta. Che rabbia! Li vedeva, di là, i negri cappellacci con l'aquila bicipite di argento falso, che luccicava ai primi raggi del sole, e non poteva più spianare il suo fucile, per mandar loro qualche palla, egli cacciatore dall'occhio sicuro e dal colpo infallibile!

Come il capitano Cattaneo aveva detto dianzi, quella era una ricognizione in tutte le regole. Non accennava a volersi avanzare di più; ma faceva un fuoco assai vivo. Perciò il battaglione si avanzò tutto quanto, pronto ad entrare in azione, e venne anche una compagnia di bersaglieri al passo di corsa, per snidare il nemico dal campo, dove pareva aver messe le barbe.

– Oh, bravo, Arrigozzi! – gridò il tenente Gordolon ad un bell'ufficiale dalla persona alta e dal fiero aspetto, che guidava i cappelli piumati. – Sei venuto a prendere la tua parte?

– Spero bene che ci avrete lasciato qualche cosa; – rispose l'Arrigozzi, passando e salutando con la sciabola.

I bersaglieri, giunti al sentiero, si ordinarono tosto in manipoli, e si cacciarono risoluti nel campo, con le baionette puntate in avanti. Frattanto il tenente Parodi aveva detto ai suoi:

– Ora voi altri, ragazzi miei, prendete un po' di riposo, che lo avete guadagnato. Chi ha pane nella sacca ne mangi un boccone. La zuppa verrà tardi, quest'oggi. —

Niente fa scorrere il tempo come le schioppettate. Con questo non s'intende di raccomandarle agli annoiati, che potrebbero anche abusarne; si dice solamente per accennare un fatto psicologico, abbastanza curioso, e che a molti parrà anche in contraddizione con la eterna lunghezza delle ore di pericolo. Forse la ragione di una tale diversità di sentimenti sta in ciò, che il pericolo in guerra è un pericolo sui generis, affrontato in molti, che s'incuorano a vicenda e si riscaldano, e son capaci anche di celiare, di ridere e di far ridere. Infine, che ne so io? Quanti hanno avuto pratica di queste cose vi diranno che al fuoco non hanno contate le ore.

La scaramuccia durò un pezzo, tanto che venne la zuppa, prima che i bersaglieri e la compagnia di sostegno avessero finito di scambiar colpi con un nemico, il quale si era ritirato sotto la protezione delle batterie e non voleva aver l'aria di cedere. Venne la zuppa, portata in due grosse pentole di ferro, sostenute da una stanga, passata attraverso i due manichi mobili. Fumava, l'aspettata, la sospirata, e mandava un soavissimo odore di lardo. I soldati si rizzarono in piedi, fiutando il vento, come le cavalle di Omero.

Ahimè! Quella zuppa doveva finir male. I quattro soldati di cucina che la portavano, ebbero a passare in una larga radura, donde la videro gli artiglieri austriaci dai bastioni. Un ufficiale di cattivo umore, a cui forse non avevano portata la sua, si prese il gusto matto di turbare la colazione degli altri. Un cannone fu puntato, partì il colpo, e una delle solite palle la trentasei venne a ficcarsi nel terreno, venti o trenta passi discosto dagli invocati distributori del brodetto spartano. Titubarono alquanto i soldati, e pensarono di piegare da un lato; così perdettero tempo, e un'altra palla arrivò, anche più vicina della prima. Essi allora non aspettarono la terza; rovesciarono le pentole, e via.

Non li disprezziamo per ciò. Quei soldati erano dei buoni, e avevano fatto in ogni incontro il loro dovere. Ma è regola che il soldato di cucina non si batte. Se non si batte, perchè correrebbe il rischio dei compagni che si battono? Sono ventiquattr'ore che egli regala a sè stesso, alla famiglia, alle probabilità matematiche di portar salva la pelle a casa.

Aminta assistè dal suo posto ad una scena curiosa. I soldati che si battevano, non avendo le stesse ragioni dei loro compagni di cucina, scambio di fuggire dal posto preso di mira, si buttarono per disperati, a raccogliere i pezzi di carne lessa, e le manate di riso, per riempirne le loro gamelle, che, poveracci, avevano già slacciate dagli zaini. Quel giorno, adunque, in premio della loro carica alla baionetta, gli uomini del caporal Piras mangiarono il riso senza brodo, ma per contro bene imbrattato di terriccio e sparso anche di sassolini. La fame è cieca e non bada a queste piccolezze.

Poco dopo venne il medico Baratelli, a visitare i feriti. Trovò che il soldato Guerri aveva l'osso dell'omero scheggiato, e allora, fatta una fasciatura alla lesta, mandò il ferito all'ambulanza del campo. Quel medesimo giorno Aminta era avviato all'ospedale di Brescia.

Il carro dell'ambulanza si mosse dalla cascina Fedalora mentre il reggimento si disponeva a lasciare il campo, insieme con tutta la divisione, per passare il Mincio e andarsi a piantare entro il famoso Quadrilatero. Un'altra divisione doveva sostituire quella comandata dal vecchio e prode Mollard, nell'assedio di Peschiera. Dicevasi che per allora Peschiera e Mantova si sarebbero mascherate, e che il grosso degli eserciti alleati avrebbe investito il campo trincerato di Verona, sperando di trarre a giornata l'esercito nemico e di dargli un altro Solferino là dentro. Al povero Guerri non sarebbe toccato più niente di quella distribuzione, poichè andava all'ospedale. «Distribuzione» era il vocabolo usato allora dai soldati piemontesi, per indicare le schioppettate. Qualcheduno anzi v'aggiungeva «di fagiuoli», dicendola ottima, per accompagnare l'eterno e solitario riso della minestra quotidiana.

Aminta partì, salutato dal bruno Fogazzaro, dal pallido e gentil Prampolini, dal biondo angelico Simone, dal nero Isoardo, dall'olivigno Piras, e a farla breve da tutti i suoi amici più cari, dai suoi dilettissimi fratelli d'armi. Gli parve, spiccandosi da loro, mentre il veicolo si metteva in moto, di separarsi dalla sua stessa famiglia. È infatti una famiglia, il reggimento; anzi un aggregato di famiglie, come i vecchi clans della Scozia; ed è padre il capitano, nonno il maggiore, bisnonno il colonnello.

E la famiglia sua vera, che aveva lasciata alle Vaie? Ci pensò allora, dopo aver ricevuta la parte sua, nella grande distribuzione. Fino a quel giorno era vissuto in uno strano tumulto di idee, nella confusione della gloria, e gli era sembrato di marciare in mezzo ad una polvere luminosa, che gli nascondesse tutto intorno l'aspetto delle cose.

Da suo padre aveva ricevuto una lettera sola. Dio sa quante altre n'erano andate smarrite! Ma da altri modenesi aveva sapute le notizie della patria. Il duca Francesco V era fuggito a Vienna. Il conte Jacopo Malatesti, fedele alla sventura, lo aveva seguito a Vienna. E suo figlio Gino? Si diceva che fosse sparito dalla città, ma della via che aveva presa non si sapeva nulla di certo. Il marchese Paolo, ministro del duca, non si era mosso dagli Stati felicissimi, ma non più fedelissimi, dicendo a chi voleva e a chi non voleva sentirlo, com'egli avesse disapprovato sempre il poco liberale indirizzo del governo del suo signore, insistendo spesso per fargli dare una Costituzione. Pochi credevano; i più sorridevano e lasciavano dire. Erano così felici di aver scosso il giogo! E il marchese Paolo, probabilmente citando più che mai il gran poeta della patria, si era ritirato a vivere in una sua villa sul Reggiano, dopo aver mandato un saluto amorevole al Governo provvisorio. I governi provvisori sorgevano da per tutto, in quei giorni. La tirannide era stata dissipata, come una nebbia molesta, dal sole di Magenta. La Lombardia, i Ducati, la Legazione di Bologna, la Toscana, erano libere; già si aspettavano le rivoluzioni di Palermo, di Napoli, di Roma. Quanto a Venezia, ci si andava; la città delle Lagune aspettava fremente.

Un celebre chirurgo militare, il Larrey, osservò che al tempo suo (quello delle grandi guerre napoleoniche) guarivano più facilmente le ferite dei vincitori, che non quelle dei vinti. Sapere che la tua ferita è stata utile a qualche cosa, è già un conforto: udire che il tuo reggimento procede di vittoria in vittoria, che il tuo esercito è entrato nella capitale del nemico, ed ha potuto dettare, giunto alla sua meta, le condizioni di pace, è una gioia in cui si annegano molti dolori. Così stando le cose, Aminta Guerri partiva felice per l'ospedale di Brescia. Portava un omero scheggiato, fors'anche spezzato; ma non sentiva al braccio che un gran calore: l'infiammazione dei tessuti, forse; molto probabilmente le forze della natura, che già lavoravano al doppio ufficio della eliminazione e della riparazione.

Il carro dell'ambulanza andava con motto uniforme sulla grande strada maestra, che da San Martino di Pozzolengo metteva a Desenzano. Aminta rivide il bel lago di Garda, che sembrava un mare, ma che, scambio degli effluvii marini, portava quelli dei cedri e degli aranceti di Salò. Addio Lonato, dall'alto castello veneziano, che raffigura da lungi le immani rovine di una rocca ciclopica. Addio Ponte San Marco, dove Aminta non vide nè il ponte nè il santo, ma donde mandò un saluto e un pensiero affettuoso a Calcinato su Chiese, nobile borgo ospitale, bianca apparizione torreggiante dal colmo d'un poggio, sul fondo verde azzurro della pianura lombarda.

Calcinato domanda un ricordo, se pure non è più giusto il dire che lo comanda, a chiunque faccia la via da Brescia a Peschiera. È una grossa terra e val molte città, col suo vasto abitato, con la sua chiesa più vasta dell'abitato, e co' suoi cuori più vasti della chiesa. Calcinato è forse il paese d'Italia che abbia veduto passare più soldati, dal Quarantotto in poi, causa la sua poca distanza dal Mincio, su cui tante volte si sono messe a cimento le fortune della patria. Ho detto che il paese è largamente ospitale; aggiungerò che è italiano fino al midollo. Fossero mille, diecimila, ventimila i suoi ospiti. Calcinato non si è sgomentato mai. Alto, sopra il suo poggio solitario, non ha mai badato a miserie. E lo paga de' suoi nobili sacrifizi l'amore di quanti soldati furono ospiti suoi, cappotti grigi, camicie rosse che fossero. Si rammenta sempre come una gloria la sua bella piazza castellana, che vigila i colli di San Martino; la sua gran chiesa bianca, che guarda Brescia e Bergamo, intravvedendo Pontida; il sembiante aperto e il sorriso fraterno de' suoi abitanti; la festa dei suoi giardini; la grazia de' suoi salotti; la gentilezza modesta delle sue fattorie; perfino il profumo dei suoi larghi fienili, delle sue legnaie, sotto i porticati delle corti campestri.

Mentre noi c'indugiamo in questi ricordi, Aminta Guerri è giunto a Brescia, ed è calato dal carro dell'ambulanza, davanti all'ingresso dell'ospedale di Santa Eufemia.

Capitolo XIX.
Sant'Eufemia!

Si sentiva debole, il povero Aminta. La via da Desenzano a Brescia non è lunga, e la rendeva anche più breve il viaggio in istrada ferrata, poichè da alcuni giorni quel tratto di ferrovia, rotto dagli Austriaci, era stato riparato dai nostri. Ma le scosse del convoglio, i trapassi faticosi dal carro dell'ambulanza di campo al convoglio, nella stazione di Desenzano, e dal convoglio a un altro carro d'ambulanza, nella stazione di Brescia, non erano fatti per ridar le forze ad un uomo, che aveva una palla in un braccio, l'osso dell'omero scheggiato, fors'anche spezzato, e una febbre da leoni per giunta.

Egli era meno infelice tuttavia di tante migliaia di feriti del 24 di giugno, che avevano dovuto far la strada su carri scoperti, alla vampa del sole, sdraiati su poca paglia, messi a rinfusa, cercando un ricovero negli ospedali improvvisati di Desenzano, e via via di Lonato, di Ponte San Marco, di Rezzate e di Brescia, senz'altra cura possibile, lungo la strada, fuorchè la speranza di ottenerne, appena giunti in un rifugio, che fosse meno riboccante di loro compagni di sventura.

Aminta salì nondimeno da sè le scale di Sant'Eufemia, leggermente sorretto da un infermiere. Fu fatto entrare in una corsìa, dov'era ancora un letto libero. Si dice ancora, ma si potrebbe dire che era stato lasciato libero a mala pena, poichè il soldato che l'occupava da sette giorni era andato quel giorno a dormire il gran sonno. Lui partito, si era mutata la biancheria e messo a capo del letto un altro cartellino. Su questo fu scritto un altro nome, quello di Aminta Guerri, vi si aggiunse la patria, il reggimento, e, appena fu giunto il medico per la visita, anche la qualità della ferita. Così il letto del N. 151 aveva cambiato proprietario.

– Speriamo bene; – aveva detto il medico, dopo avere attentamente visitato il ferito. – Mi pare che tutto proceda a dovere. La palla si sente e non sarà difficile estrarla. Riposate ora un tantino.

– Signor dottore, – disse Aminta, – vorrei chiedere una grazia.

– Scrivere alla vostra famiglia? – disse il dottore.

– Sì; come ha indovinato alla prima!

– Eh, ci vuol poco, mio caro. È il primo pensiero del ferito, appena giunge all'ospedale. Le prime cure che riceve da persone ignote, quantunque amorevoli, richiamano alla sua mente quelle che vorrebbe avere dai suoi.

– È vero; – disse Aminta. – E se potessi far sapere ai miei che son qua, all'ospedale di Sant'Eufemia…

– È presto fatto; – replicò il medico militare, un forte e simpatico giovanotto, a cui non toglievano bellezza, aggiungendo gravità, le due lenti piantate sul naso. – Ho qua dentro dei foglietti di carta e delle buste. Dettate e scriverò. Nessun ringraziamento, vi prego; son cose che fanno perder tempo, e basta sottintenderle. —

Aminta diede il nome e il ricapito dei suoi. Il dottore scrisse poche linee per lui, dando anche notizie rassicuranti intorno al suo stato di salute. Poi mise il foglietto nella busta, suggellò, aggiunse l'indirizzo; tutto alla svelta, a suon di tamburo; finalmente consegnò la lettera a un infermiere, perchè fosse gittata immediatamente nella buca, all'ingresso dell'ospedale.

– Adesso, dunque, riposate. Niente ringraziamenti, vi ripeto: siamo qui l'uno per l'altro; abbiamo servita in faccia al nemico comune la medesima causa; io, più fortunato di voi, ho della carta da lettere pronta nel portafoglio, e le braccia sane per servirmene. A rivederci tra poco; dormite un paio d'ore, vi prego. —

Aminta non accettò la raccomandazione, che dopo aver chiesto e saputo il nome del simpatico uomo, che faceva tutto alla svelta, e bene, e non voleva neanche essere ringraziato. Bravo dottor Pesce! Anch'egli alpigiano come Aminta Guerri; poichè era nato sull'Appennino ligustico, a Campo Ligure, com'egli sull'Appennino modenese, a Fiumalbo.

Saputo il nome, e risposto con un sorriso alle ultime esortazioni amichevoli del dottore. Aminta piegò la testa sul guanciale e prese sonno. Ne aveva bisogno più assai che non credesse, di quel sonno ristoratore; e non dormì solamente le due ore che gli aveva raccomandato il buon medico. La febbre, per miracolo, non soverchiò la stanchezza, e neanche gli diede sogni spiacevoli. Si era addormentato pensando ai suoi monti; sognò di vederli, e di abbracciare suo padre. – «Infine, – gli diceva, mostrando il suo braccio ferito, – l'ho anch'io, la mia brava testimonianza di aver servito il paese. E non è, perdio, una misera condanna a tre mesi di confine!» Aminta Guerri, lo ricordate, non aveva perdonato, come sua sorella; il suo pensiero ricorreva spesso, e sdegnosamente, alle nobili imprese del conte Gino Malatesti. Al campo gli era giunta una lettera, in cui si diceva, tra l'altre cose e notizie di Modena, che il conte Gino era sparito. Sicuro! Tanto sparito, che non se n'erano più avute novelle. Se il conte Gino avesse avuto un'oncia di cuore, se avesse inteso il dover suo, si sarebbe arruolato in un reggimento piemontese, o nell'esercito di Garibaldi; avrebbe fatta la sua brava campagna, e presa magari in petto la sua brava palla, redentrice d'ogni colpa. A quel patto, a quel patto solo, avrebbe perdonato Aminta Guerri le colpe di Gino Malatesti. Ma il conte Gino non aveva fatto nulla di ciò. Se lo avesse fatto, altri modenesi lo avrebbero saputo, altri modenesi lo avrebbero narrato ad Aminta. Nessuno gli aveva data una simile notizia; solo avevano potuto scrivergli che il signor conte era sparito. Sparito!

La mattina seguente, fu fatta una vera e compiuta esplorazione della ferita, ed anche estratta la palla. Era conica, la palla, e di carabina Stutzen; ma alla breve distanza a cui era stato colpito Aminta, le era mancato il tempo di allargare le sue ali di piombo. Perciò non era stata troppo grave la lacerazione dei tessuti. Dalla poca quantità delle schegge raccolte, fu anche facile argomentare che l'osso non era stato troppo maltrattato.

– Speriamo bene, anzi meglio di ieri; – disse il simpatico dottore. – Ora che la medicatura è fatta, voglia starsene tranquillo, signor mio, non muoversi, sopratutto non commuoversi, non agitarsi inutilmente. La vita dell'ospedale è noiosa; ma ci vuol flemma. Coraggio e sangue freddo, come dicono al reggimento! E aspetti la famiglia, sì, ma con moderata impazienza. —

Aminta sorrise a quelle raccomandazioni, fatte con un tono di burbero benefico.

– Grazie, tenente! – diss'egli. – Ella non mi vuol guarire soltanto con le mani.

– Eh, si capisce; – rispose il dottore. – Le mani in chirurgia; la lingua in medicina. Ella non ha bisogno solamente di chirurgo, ma anche di medico. Stia dunque ai consigli. —

L'ultimo venuto della famiglia è sempre il beniamino. Aminta Guerri, ultimo venuto a Santa Eufemia, fu il beniamino dell'ospedale. Triste famiglia, un ospedale; ma non dimenticate che si era nel 1859, in un ospedale di Brescia.

Ordinariamente, in un ospedale, è squallore e tristezza, anche quando vi regna la pulizia. Le suore di Carità fanno un servizio ammirabile, assai gradito ai poverelli, che certamente non avrebbero avute mai tante cure in casa propria, e più certamente ancora non videro in casa propria tanta nettezza, tanto ordine, tanta puntualità, tanta abbondanza del necessario. Ma un po' di superfluo, Dio buono, quanto è necessario alla vita! Quelle mura scialbe dello stanzone non destano alcun pensiero giocondo nell'animo, non fioriscono di nessuna consolazione lo spirito abbattuto. Pagine bianche e mute, vi lasciano tracciare con la fantasia tutti i segni più neri, leggere tutte le malinconie che volete. E là, fra tanti letti in fila, tutti della medesima forma, custoditi alla vista dalle medesime cortine, è un principio di depressione del povero orgoglio umano, pur tanto utile a stimolare le energie della vita; in quell'odor molle di corruzione, che nessun profumo varrebbe a dissipare, e che gli stessi effluvii di farmacia mettono in evidenza, pur volendolo vincere, è un principio di morte. Così muore lo spirito, prima che il corpo si spenga. Lo stanzone, il dormitorio in comune, è lieto tra i sani, tra i forti, in una caserma, quando un motto allegro scoppia nel buio e fa scoppiar le risate all'intorno; è uggioso e triste senza fine, dove son venti o trenta uomini che stanno male, e dove chi ne ha meno finisce presto con sentirne di più. Infatti, nella corsìa dell'ospedale si moltiplica il pensiero delle vostre miserie per quello di tutte le altre che vi circondano. Ma non così a Santa Eufemia, nell'anno glorioso; sebbene, in onta alla consolante dottrina del Larrey, si morisse anche delle proprie ferite, dopo aver vinto, e sapendo che l'esercito di cui si era parte onorata, proseguiva la sua opera liberatrice.

Anche a Sant'Eufemia erano scialbe le mura; ma l'ospedale non si aveva tempo a sentirlo, poichè la famiglia appariva da tutti gli usci, brulicava per tutte le corsie, s'inchinava amorosa a tutti i capezzali. Le donne gentili di Brescia assistevano esse i feriti; servivano gli ammalati più gravi, consolavano di buone parole coloro che potevano udire e rispondere, allegravano di graziosi motti i convalescenti. In certe strette, dove i feriti non avevano più bisogno d'altro che di riposo e di nutrizione ricostituente (non è questo il vocabolo?), non pareva più d'essere tra due letti d'ospedale, ma in un salotto; salotto improvvisato, ma pur sempre un salotto. Per l'appunto da due convalescenti erano occupati i due letti alla destra di Aminta, corrispondenti ai numeri 152 e 153. Il 152 era un giovanotto di Casalmaggiore, che aveva avuta a San Martino una ferita sul dorso della mano sinistra, nell'atto di puntare il fucile, prima di aver la sua laurea d'avvocato nella università di Pavia. Il 153 era un gentiluomo di Pistoia, ferito alla regione frontale, ma anch'egli in via di guarigione. Lo chiamavano il poeta, perchè egli, più sfregiato che offeso dallo strisciar di una palla austriaca dalla fronte alla tempia sinistra, diceva di voler coprire lo sfregio con una corona d'alloro. E intanto scriveva rime, come il suo conterraneo Gino Sinibaldi, e fregiava di sonetti e di madrigali gli albi delle belle infermiere.

Aminta vide passar davanti al suo letto le più leggiadre apparizioni, i più varii e i più nobili tipi della bellezza femminile. Vide ed ammirò anch'egli quelle due luci che il 153 chiamava, in un impeto lirico, «i più begli occhi d'Italia» e che il 152, capo ameno se altro fu mai, simulando la parlata e l'accento di un viaggiatore tedesco in Italia, ribattezzava per «belle parrocchie.» – Ma che parrocchie! – esclamava il 153. – Arcipreture, collegiate, abbazie, cattedrali, basiliche! Un par d'occhi come quelli non si dovrebbero portare attorno così, impunemente, audacemente, per tentare al furto i poveri mortali. «Signora… (e qui il nome della felice proprietaria di quel paio d'occhi) non sarebbe forse più prudente metterli in uno scrigno? o consegnarli allo Stato, perchè fossero conservati tra i diamanti della corona?» —

Aminta non udiva sempre di così allegri discorsi. Qualche volta si parlava anche dei compagni più gravemente feriti, subitamente aggravati. E appunto due giorni dopo che gli era stata estratta la palla dall'omero, da un letto alla sua sinistra sentì proferire un nome che lo fece sobbalzare tra le lenzuola. Malatesti, Malatesti, avevano detto? Non ne era ben certo. Un ferito parlava con un infermiere, venuto accanto al suo letto. Il nome di Malatesti, o qualche cosa di somigliante, era stato pronunziato. Si volse, come potè, a stento, e tese l'orecchio. Ma il ferito parlava a bassa voce, e l'infermiere egualmente.

Restò a lungo turbato, cercando e non trovando nella sua mente confusa il modo di soddisfare la curiosità ond'era tormentato. Ma aveva poi udito bene? E se anche aveva udito bene, non ce n'erano altri, di Malatesti, in Italia?

Aminta era in questi dubbi, quando incominciarono le visite mattutine. Una bellissima signora bresciana, proprio quella dei «più begli occhi d'Italia», apriva in quel giorno la marcia. Giunta al letto di Aminta, entrò nella stretta, si avvicinò al suo capezzale, e gli domandò con la sua vocina soave come avesse passata la notte.

– Sognando di Lei; – avrebbe risposto il 153. Ma il nostro Aminta era il 151; non rispose che un «bene, grazie», come avrebbe fatto ogni semplice mortale, alla domanda di ogni semplice dama, e sessagenaria per giunta.

– Ha bisogno di nulla? – domandò ancora la bella infermiera.

– Sì, signora; – osò dire Aminta. – Di una notizia.

– Ah, bene! Mi dica; – rispose ella, contenta di potergli esser utile in qualche cosa.

– Vorrei sapere… – ripigliò Aminta. – Le chiederei, in grazia, di dirmi se tra i feriti c'è qui un Malatesti.

– Sì, – rispose la signora, – ho sentito questo nome.

– È modenese? – domandò Aminta.

– Non so; ma aspetti, si fa presto a saperlo. – Così dicendo, la bella signora, escì leggiera leggiera dalla stretta e ritornò sopra i suoi passi, fino all'uscio di una cameretta, dove alloggiava l'infermiere della sala. Aminta la vide ricomparire, due minuti dopo, alla sponda del suo letto.

– Sì, – diss'ella, ripigliando il discorso, – è un conte Malatesti, di Modena. Lo ricordo benissimo, ora; è un soldato volontario del 13^o Reggimento; occupa il primo letto della corsia. —

Aminta era preso da una strana inquietudine. Tutti quei particolari eccedevano, oramai; gl'impedivano di saper subito l'essenziale.

– E scusi… – diss'egli; – è ferito… gravemente? – Forse la bella signora si era avveduta del turbamento di Aminta; forse non era in lei che un sentimento di pietà femminile. Comunque fosse, ella si mostrò meno franca nel rispondere a quell'altra domanda.

– Gravemente?.. Non credo, se per una ferita grave si ha da intendere che ci sia pericolo di vita. Non so bene come sia ferito; mi pare alla spalla; quasi come Lei, Ma si spera… si spera molto.

– Ho sentito dire, – ripigliò Aminta, – o mi è parso di sentire d'un Malatesti che stava assai male.

– Sì, dev'essere una notizia di ieri sera; – rispose la signora, abbassando le ciglia pietose sui «più begli occhi d'Italia». – Si è temuta una recrudescenza, per un forte accesso di febbre… Ma questa mane, poc'anzi, quando son passata daccanto al suo letto, mi è parso abbastanza tranquillo.

– Ha detto che è ferito alla spalla?

– Sì, vicino alla spalla… più in qua… sotto la clavicola destra.

Ma si calmi, la prego. E sopratutto non parli troppo; le farà male.

– Ancora una domanda, signora! È lontano di qui?

– Le ho detto che è in principio di questa corsìa. Ma già, ella non può voltarsi a vedere, e meno ancora contare i letti. Il suo amico è al numero 140.

– Grazie, signora; – disse Aminta. – Il conte Malatesti è infatti un amico mio. Speriamo bene. —

I più begli occhi d'Italia si spiccarono finalmente da Modena, per brillare di luce pietosa su Casalmaggiore e Pistoia. Colà si aveva meno bisogno di chieder notizie, e molto più di ammirare la loro bellissima proprietaria. Beati convalescenti! Ed anche beati cuori tranquilli, che non sentivano, come Aminta Guerri, il rimorso di un falso giudizio.

Aminta soffriva acerbamente del suo. Povero Gino! povero Gino! Lo aveva dunque accusato a torto? Sparito, il conte Malatesti, sparito da Modena! Sì, sparito da Modena, ma per passare il confine, anzi i due confini di Modena e di Parma, per correre in Piemonte, e indossar la divisa del volontario. Ma perchè non ne faceva un cenno, la lettera? Ah, sì, che poteva dire la lettera? Il conte Gino, il figlio di Jacopo Malatesti, di un fedel servitore del Duca, non poteva mica toccar la tromba, per annunziare al popolo e al comune il suo virile proposito. Era sparito, come fa in simili circostanze l'uomo forte e modesto, che la voce del dovere ha chiamato. E senza lasciar trapelare il suo segreto da anima nata, senza mandar notizie di sè ai parenti, agli amici, era entrato, egli cavaliere esperto e magnifico, in un reggimento di fanteria, forse per meglio nascondersi, per sottrarsi alla vista, alla curiosità de' suoi pari, al pericolo di notizie che sul suo conto si potessero spargere. Ignoto a tutti, fuorchè al suo reggimento, aveva fatta la sua brava campagna, e una palla in petto aveva premiato il suo doppio eroismo, mentre tutti gli altri lo dicevano semplicemente «sparito da Modena» e Aminta Guerri lo accusava di non aver fatto seguire i fatti, i forti fatti, alle chiacchiere vane, alle piccole glorie di una condanna al confine. E come lo aveva mal giudicato in ciò, non poteva Aminta Guerri averlo giudicato male in qualche altra cosa? Per esempio nel suo mancar di fede alle Vaie? A buon conto, sua sorella Fiordispina, quella che più di tutti aveva a soffrirne, non aveva dubitato del cuore di Gino; sua sorella Fiordispina gli aveva perdonato, senza mestieri di giustificazioni, di pentimenti, di atti da eroe. Povera Fiordispina! Ed ella aveva profondamente sofferto; e soffriva ancora; avrebbe sempre sofferto. Sono nel mondo creature di tempra più nobile, vasi d'elezione, secondo il detto di un grande, ai quali è stato affidato, come a sua propria sede, il dolore; e da quei cuori più alti, come da fari accesi sulle tenebre vaste dei mari, il dolore umano spande la sua luce più bella.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
440 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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