Kitabı oku: «La montanara», sayfa 8
Meditò su queste cose il tempo strettamente necessario a mettere in chiaro la bella serenità di spirito della marchesa Polissena; poi diede una crollatina di spalle. Filosofia, son queste le tue consolazioni.
Ma sì, ragazzi miei belli, che navigate tra due acque, che vi cullate tra due amori, l'uno dei quali è già nato, e l'altro non è morto ancora, queste lezioni vi toccano. Credete di essere necessarii, e già si pensa a voi, come si penserebbe al Gran Turco.
Andiamo al fondo, per altro; andiamo al fondo delle cose. Non era meglio così? Amava egli forse più la marchesa Polissena? Non aveva detto egli stesso, facendo il suo esame di coscienza, che il suo sentimento per lei era tutt'altra cosa da quello che provava per la fanciulla dei Guerri?
Si dirà che queste son distinzioni troppo sottili, ed anche arbitrarie, mentre la diversità di un amore da un altro dipende al più al più dalla diversità dell'oggetto. Ma io, se permettete, entro più che nei panni, nel cuore del personaggio; trovo che egli pensava così, come ho avuto l'onore di dirvi; so che era in buona fede, pensando così, e non domando di più. Finalmente, se la casuistica esiste, è segno, che risponde, o rispondeva da principio, ad un bisogno dell'animo umano.
Comunque fosse del suo primo e del suo secondo amore, Gino Malatesti si sentiva libero di cuore e di spirito, tanto che gli pareva di essersi levato un gran peso di sullo stomaco. Anche Fiordispina era libera, e la notizia, avuta nel medesimo giorno che si sentiva libero lui, gli parve di buon augurio. Non Polissene di qua, non Ruggeri di là, per far ombra alla scena; il cuore di Gino Malatesti brillava, sgombro di nebbia importuna, come la vetta rosea del Cimone sul sereno azzurro dei cieli.
O fanciulla dei Guerri, come foste felice quella sera anche voi, vedendo così lieto l'ospite del vostro buon padre! Da parecchi giorni egli non lo era più, e la cosa vi aveva profondamente turbata. Una sua parola acerba era venuta ad illuminarvi la mente; ma che ne potevate voi, se in casa di vostro padre c'era un ospite di troppo? Del resto, ilare come allora, il conte Gino Malatesti non lo era stato mai, dacchè il destino lo aveva sbalestrato alle Vaie. Sempre, anche nelle ore più confidenti, una piccola nube gli oscurava la fronte, e dietro a quella nube s'indovinava un triste pensiero appiattato: forse la sua città natale abbandonata, forse i parenti lontani, forse le care consuetudini interrotte, mutate violentemente da un decreto ducale. Ma che importava più di guardare il passato? Per allora il conte Gino rideva; per la prima volta appariva felice; il suo occhio era così limpido, che si sarebbe giurato di potergli leggere in fondo all'anima i più riposti pensieri.
Così pareva a lei, fanciulla intelligente, ma inesperta della vita. Se si fosse guardato nel fondo di quell'anima, si sarebbe veduto ancora un po' di torbido. Anche nel fondo di un ruscello, talvolta, si giurerebbe di non trovare che sabbia tersa e lucente. Ma chi stende la mano, raccatta sempre con la rena un po' di fango. I detriti della riva, depositati nell'alveo, non turbano la limpidezza delle acque; ma a patto di non rimestarle troppo.
Quel giorno, contento il signor Gino, erano contenti tutti, e si ciarlò più allegramente del solito nell'intima conversazione dei Guerri. Don Pietro, capitato sull'ora del caffè, domandò perchè non si fosse ancora pensato a fare qualche bella gita nei dintorni, al monte Cimone, al Cimoncino, a Bismantova, all'alpe di San Pellegrino. E il lago della Ninfa! Perchè non si andava a visitare il lago della Ninfa, per vedere la bella dai capegli biondi, tramutata in sasso?
Gino non aveva una grande curiosità di veder belle dai capegli biondi, dopo la triste esperienza che gli pareva di aver fatta di una fra queste. Ma una bella tramutata in pietra è sempre uno spettacolo degno di esser veduto, non foss'altro per riscontrare se la finezza dei lineamenti duri inalterata nella nuova sostanza. Il nome di Ninfa, poi, lo colpì più del color dei capegli e del tramutamento in sasso.
– Che storia è questa? – diss'egli. – Forse un avanzo dell'antica mitologia?
– Non saprei dirle, signor conte; – rispose Don Pietro. – Si dice la Ninfa, e potrebbe dirsi la Fata, la Sirena, l'Ondina, od altro di consimile, perchè son tutte forme diaboliche della stessa famiglia.
– Ma c'è una leggenda? – riprese Gino.
– Sicuro, ed eccola qua. Un giorno (Ella non mi domandi il mese e l'anno, perchè non glieli saprei dire) un giorno avvenne ad un cacciatore di passare tra i faggi, inseguendo una cerva, sulle rive del lago. Dall'altra parte, dove mancavano gli alberi e sorgeva in quella vece un picco aguzzo a mo' di scogliera, vide una bellissima figura di donna, che pareva una bagnante, escita allora dall'acqua, e in atto di rasciugare al sole la sua capigliatura bionda. Il cacciatore rimase estatico ad ammirarla; il che, per dirglielo così di passata, diede tempo alla cerva di mettersi in salvo. Quanto rimanesse egli in contemplazione non so, perchè la leggenda non lo dice; il fatto sta che quando egli fece per avvicinarsi alla bella figura, costeggiando la riva del lago, trovò un canaletto d'acqua, e in fondo al canaletto un roveto così fitto, che non ci fu verso di passare dall'altra parte. Quando ritornò al suo posto primitivo per rivedere la bella, un velo di nebbia si era levato dal lago; fors'anche l'oscurità della sera aveva calato quel velo dall'alto, e il cacciatore non vide più nulla. Ma la bella apparizione gli era rimasta impressa, come scolpita nel cuore. Domandò di quella bagnante ai carbonai che lavoravano nella valle, ai pastori che passavano i mesi della buona stagione sul monte, poco sopra il lago, e tutti a gara gli dissero: – Non ci tornate, bel cacciatore; è la Ninfa del lago, che si pettina al sole i capegli d'oro. Guai a voi, se v'innamorate di lei. Ella getta un fascino sui giovani e li conduce a morire. – A morire! Di che? – Di crepacuore, per non potersi avvicinare a lei. Lo scoglio su cui va a sedersi è alto, e non c'è modo di giungervi, costeggiando la riva. Quanto al gittarsi a nuoto, non c'è neanche da pensarci, perchè il lago è senza fondo, e nel bel mezzo ci ha un vortice, che v'inghiotte ogni cosa. —
Qui il narratore prese fiato e fece un sorrisetto al suo uditore.
– È vero questo? – domandò Gino, che non aveva perduto una sillaba.
– Che il lago della Ninfa è senza fondo? – disse Don Pietro. – Non voglio crederlo. Che c'è un vortice in mezzo? Non appare, ch'io sappia, da nessun movimento della superficie. È voce antica, e si ripete da tutti i nostri montanari; ecco tutto.
– Ma nessuno si è arrisicato nel mezzo del lago?
– L'acqua è molto fredda, e le salamandre che abbondano alla riva, tanto che se ne trova una sotto ogni sasso, rendono poco piacevole entrarci a piè nudo. Del resto, a recarsi nel mezzo del lago, sarebbe necessaria una barca. C'era il signor Francesco Guerri, nostro degnissimo amico qui presente, che aveva promesso di mettere lassù un burchiello; ma credo che ciò sarà nella settimana dei tre giovedì.
– Bella stima che si fa delle mie parole! – disse il signor Francesco, ridendo. – Sappia Lei, uomo di poca fede, che io non ho dimenticato nulla, e che il burchiello promesso è già arrivato a Pievepelago, dov'è andato il mio Aminta a riceverlo. Domani sarà alle Vaie, e lo faremo portare, senza levarlo dal carro, fino alla Beccadella, donde, coll'aiuto di quattro ruote, e a forza di braccia, se sarà bisogno, lo manderemo su, fino alla riva del lago. È contento, ora, di avermi fatto parlare? Aspettavo che la cosa fosse condotta a buon termine, per proporre la gita al nostro ospite.
– Oh! – gridò Gino. – Sarà una vera festa per me. Ma c'è il resto della leggenda, se non erro.
– Sicuro che c'è; – rispose Don Pietro. – Ad onta di tutte le ammonizioni, il cacciatore ritornò sulle rive del lago. Da principio andava guardingo, rimaneva appiattato tra i faggi, per non turbare la quiete della Ninfa, che stava sempre rasciugando i bei capegli d'oro al sole, e cantava frattanto una canzone, di cui egli non intendeva le parole, ma coglieva benissimo la soave melodìa. Ardì avanzarsi un giorno allo scoperto, e gli parve che ella, non che turbarsi della sua presenza, gli sorridesse e gli accennasse del capo. Lo chiamava forse a sè? Il giovane innamorato tentò allora di avvicinarsi; ma c'era sempre l'ostacolo di quel canaletto così profondo, in cui si vedevano guizzare le negre salamandre attraverso alcuni tronchi di faggio che infracidivano là dentro, galleggiando a mezz'acqua. Più oltre si vedeva fitto, irto di mille punte il roveto, e di là non c'era speranza di aprirsi una via. Neanche si poteva ascendere dai fianchi della montagna fino a quella punta scogliosa che sorgeva sul lago, essendo da quella parte tutta una balza a piombo, per un'altezza spaventosa. Il lago della Ninfa, se non lo sa, è scavato in una insenatura del monte, in una specie di cratere che gli fa come una tasca sul fianco, e l'acqua della sorgente, che scaturisce da un masso più in alto, ci sta come l'acqua santa nella sua pila di marmo. Tastati inutilmente tutti i passi, l'innamorato cacciatore dovette contentarsi di guardare da lungi. Venne l'autunno, ed egli seguitò a contemplare l'amor suo; venne l'inverno, e si copersero i monti di un mantello di neve, il vento incominciò a fischiare più rumoroso tra i faggi, e la Ninfa seguitava a star là, come se non sentisse il freddo pungente dell'Appennino, sempre pettinando al sole i suoi capegli d'oro. Ed egli pure, insensibile al freddo, non badando alla neve, nè al vento gelato, poichè era caldo d'amore, sdrucciolando più e più volte sul ghiaccio del sentiero, chiudendo gli occhi al nevischio che gli flagellava la faccia, ascendeva tra i faggi fino alla conca del lago, per ammirare ogni giorno la bella incantatrice. Prodigio inaudito! Si era la Ninfa impietosita di lui? Un bel ponte di cristallo, largo quanto lo specchio delle acque, si stendeva tra lui e la scogliera inaccessibile. E la Ninfa del lago seguitava a cantare, a guardarlo, a sorridergli, ad accennargli del capo. Arrisicò un passo, poi due, verso di lei, che cantava sempre, sorrideva e accennava del capo. Corse allora più rapido, volò più leggero sulla superficie cristallina, che il nevischio veniva coprendo di piccole stelle opache. Ma ohimè! Quando il cacciatore è già a mezzo del ponte, la via trema sotto i suoi piedi, dà suono di cristallo che si spezzi. Non è più in tempo a retrocedere; una fenditura di qua, una fenditura di là, e cric! la lastra si è rotta, il cacciatore s'inabissa nel baratro. Il ponte di cristallo non era altro che una crosta di ghiaccio. Lo sventurato non fu più visto da quel giorno tra i vivi. È fama per alcuni che la Ninfa del lago scendesse a consolarlo nel fondo delle acque. Altri crede di no. La Ninfa del lago era sempre stata immobile e fredda come una pietra lassù; pietra divenne, per giustizia divina, nè più scese a bagnare il bianco piede nell'acqua.
– Stupendo! – gridò Gino, poichè Don Pietro ebbe finito. – Ed è sempre visibile lassù?
– Sì, sebbene il tempo e l'azione alterna del caldo e del gelo le abbiano un po' guastati i contorni.
– Bella storia! Meriterebbe di esser vera, e andrebbe cantata col titolo: La Ninfa di pietra.
– Da bravo, dunque! – disse il vecchio prete. – Una ballata in piena regola, e mano al Ruscelli!
– Se fossi un poeta, – rispose Gino, tentennando la testa, – non ci sarebbe bisogno di un simile aiuto. Ma non lo sono, e il rimario non basta. Quando si va?
– Anche doman l'altro, appena sia condotto lassù il burchiello; – rispose il signor Francesco.
– Doman l'altro? È domenica; – disse Don Pietro. – Io ci ho la spiegazione del Vangelo. Il dovere prima di tutto; poi la buona compagnia, i faggi, il lago e la leggenda.
– Giustissimo; sia per lunedì, allora.
– Se potrò, volentieri.
– Se non potrà, lo sapremo, e rimanderemo la gita. Nessuno ci comanda, e siamo qui tutti l'un per l'altro; – replicò il signor Francesco.
– Così va bene; – disse il prete. – Questa gita mi sarà graditissima, dopo tanti anni che non l'ho più fatta. Ho una gran voglia di provare le mie gambe. La salita dalla Beccadella al lago, se ben ricordo, è cattiva.
– Oggi più di prima; – rispose Aminta. – Ci sono passato io l'altro mese e l'ho veduta. Le pioggie di primavera hanno fatti i solchi molto profondi, e in un luogo hanno addirittura sfondato il sentiero.
– Manda una squadra d'uomini a farci due giornate di lavoro; – disse il signor Francesco al figliuolo. – Sarà tanto di guadagnato per il trasporto del Leviathan. —
Si era ai tempi, lo ricordate, che tutta Europa si dava pensiero di uno smisurato piroscafo inglese, chiamato per l'appunto il Leviathan dei mari. Oggi, il signor Francesco Guerri, se dovesse parlare del burchiello che aveva destinato al lago della Ninfa, lo paragonerebbe più volentieri al Duilio.
Così fu concertata la gita al lago, e così furono dati tutti i provvedimenti perchè riescisse ogni cosa a dovere. Noi ci siamo un po' indugiati su questi discorsi, perchè la conversazione della gente dabbene è sempre molto piacevole, anche quando gli argomenti son lievi.
La conversazione si spezzò in dialoghi, come per solito avviene, quando una brigata si muove e ognuno si dispone a riprendere il carico, dolce o molesto, delle proprie faccende. In quel punto, Gino Malatesti si ritrovò molto naturalmente daccanto a Fiordispina.
– Che bella storia ci ha raccontata Don Pietro! – diss'egli. – Non pare anche a Lei, signorina?
– Bella, quantunque assai triste; – rispose la fanciulla. – Ma ho veduto che in letteratura è quasi sempre così; il lieto fine par sempre meno artistico, ai signori scrittori.
– In una leggenda, del resto, – disse Gino, – il pauroso e il patetico son sempre di regola.
– Da bravo! – saltò su a dire Fiordispina. – La metta in versi, come Le ha consigliato Don Pietro.
– Anche Lei, signorina?
– Anch'io; perchè no?
– Quando non si è poeti!.. – esclamò Gino.
– Quando non si è poeti… si diventa; – rispose la fanciulla. – Non basta una forte commozione a schiuder la vena della poesia?
– Eh! per il sentimento, capisco.
– Il sentimento è tutto, o quasi tutto; – replicò Fiordispina.
– Ma un po' d'arte non guasta, anzi è necessaria; – disse Gino. – E questa non la dà che un lungo esercizio.
– Non troppo lungo, via! Se no, consuma l'estro. Ritorniamo all'essenziale, che è la commozione.
– Perdoni, signorina; io conosco qualche cosa di meglio della commozione, per render poeta un uomo. Esempio: una preghiera sua.
– Ah! – gridò ella, inarcando le ciglia e minacciandolo col dito levato. – Il topolino bianco che fa capolino dalla sua tana! —
Il topolino bianco era il complimento. Al conte Gino era avvenuto più volte di dirne, e di graziosissimi; donde, per convenzione di discorso, il loro nome, trovato dalla fanciulla, di topolini bianchi.
– Ecco, signorina… – rispose il giovanotto, volendo giustificarsi; – il topolino bianco può ammettersi terzo fra noi, quando viene per annunziarci la verità.
– Bene, la prendo in parola; – replicò Fiordispina. – Se non è stato un complimento, il suo. Ella deve provarsi, e scrivere la ballata.
– La condanna è severa; – diss'egli.
– Ma meritata; non le pare?
– Sia; – rispose Gino, inchinandosi. – Se così vuole davvero, mi proverò. Ma poi?..
– Poi trascriverà la ballata sul mio albo.
– Sull'albo! Anche Lei, signorina, ne ha uno? E perchè non l'ho ancora veduto?
– Perchè non me ne ha chiesto, ed io non ho avuto occasione di dirgliene. Del resto, eccolo qua; era alla vista di tutti. —
Così dicendo, la fanciulla dei Guerri si accostò alla sua piccola libreria, e di mezzo a certi libri trasse un volume rilegato di marocchino, coi fermagli d'argento.
Gino prese il volume dalle mani di lei e lo aperse. Era tutto pagine bianche.
– Come? – esclamò. – Un albo vuoto?
– Sicuramente. E chi ci doveva scrivere? buono, o nulla.
– Bellissima risposta! Ma badi, signorina, vedo qui un altro topolino bianco.
– Perchè?
– Perchè Ella dice anticipatamente che le piacerà quello che ci scriverò io.
– Scriva, – rispose la fanciulla, – e non si dia pensiero d'altro.
– Ahimè! – mormorò Gino. – Debbo pure darmi pensiero di ciò che altri ci scriverà dopo di me. —
Gino aveva fatto il viso malinconico, parlando così; Fiordispina fece il viso serio, udendo quelle parole.
– Ecco, – diss'ella, – ora mi fa torto. Non ci ha scritto nessuno prima di Lei; non ci scriverà nessuno dopo. Sono montanara, signor conte, e molto ferma nei miei propositi, l'avverto. Ne dubita forse? È cattivo.
– No, no! Non sono cattivo, perchè sono felice; – rispose Gino, colto da un soave turbamento, e abbassando la voce, poichè anche a dir poco voleva parlare solamente per lei. – Se fossi cattivo, Minerva non mi assisterebbe più, nell'impresa poetica alla quale mi accingo.
– Si tratta di poesia; – disse Fiordispina. – Dovrebbe assisterla Apollo.
– No, signorina. Apollo è la forma, il metro, il ritmo, tutto ciò che vorrà, meno il pensiero. Il pensiero è Minerva… e per me, – soggiunse Gino, additando maliziosamente una certa acconciatura di testa, – anche Minerva con l'elmo. —
L'allusione era così diretta e il gesto così comico, che Fiordispina non potè trattenersi dal ridere.
– Per un fazzoletto di seta, dir elmo è troppa! – rispose. – Ma me lo leverò, non dubiti. Portare un fazzoletto in testa, è anche un esser troppo montanara.
– No, resti così… montanara, se montanara è, come dice Lei, una persona ferma ne' suoi propositi. Resti così, signorina, sul monte Ida.
– Oh, questo, poi!.. – gridò Fiordispina, – Sull'Ida, no. Non sa lei che Minerva fu vinta, lassù?
– Per il giudizio di uno sciocco! – rispose Gino. – Crede Ella che sia tale ancor io? È cattiva Lei, ora.
– Or dunque, per non esser cattivi, ritiriamo ciò che si è detto; – replicò Fiordispina, chinando la testa con atto di comica rassegnazione. – Ma ritiri anche Lei il suo monte Ida, per carità. Non ci ho che vedere, con l'Ida, e mi attengo al nostro Cimone, tanto meno classico, ma non privo di poesia.
– Divina fanciulla! – esclamò Gino infiammato.
Ma voi siete pregati di credere, o lettori discreti, che questa esclamazione fu fatta con gli occhi. Con gli occhi, ripeto, quando essi parlano, lampeggiando l'idea, e le labbra si contentano di mormorare un suono indistinto, il suono del desiderio, della giaculatoria, della adorazione, dell'estasi, o di tutte queste cose insieme.
Capitolo VII.
Al lago della Ninfa
Jamque dies aderat, avrebbe detto qui un poeta latino, per cavarsela con un bel trapasso alla greca. E già era venuto il gran giorno, che fu un lunedì, come sapete, destinato alla gita del lago della Ninfa, preceduta da una salita sulla vetta del Cimone.
Fino ad un certo punto era tutta una strada. Partiti verso le tre del mattino delle Vaie, i nostri viaggiatori giungevano al pian Cavallaro coi primi lumi dell'alba. Colà, per fare omaggio al nome del luogo, lasciarono le cavalcature, e dopo avere assaggiata l'acqua fresca, quasi gelida, della fonte Beccadella, presero risolutamente a salire la vetta del Cimone.
Ve l'ho già detto altrove, o non ve l'ho detto? Nel dubbio, ve lo ripeterò: l'ascensione di questo altissimo tra i vertici dell'Appennino settentrionale (duemila cento sessantacinque metri, scusate!) non offre difficoltà che all'ultimo passo, cioè nel guadagnare quel suo petroso ciglio, che è formato, dicono, dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. L'ossatura del monte è in gran parte di simili strati, ai quali non piacque la posizione orizzontale, o non fu lasciata piacere da quelle cause che sapete, o che più facilmente non saprete, poichè oggi ancora si cercano. Infatti, vedete: c'è stato un tempo che tra i geologi fu una quistione indiavolata circa la crosta della Terra; chi la voleva cruda e chi cotta, e i primi erano quelli del sistema nettuniano, e gli altri del plutoniano. Vinse per un po' di tempo chi la voleva cotta; ma tra questi si manifestarono ben presto gli screzi; nacquero i dubbi e le liti sul grado di cottura. Poi tornarono a galla coloro che la volevano cruda, e si accapigliarono con quelli che la desideravan almeno un po' riscaldata a bagno maria. Questo è suppergiù lo stato presente della disputa.
Per cattivo che fosse quell'ultimo passo, le vecchie gambe di Don Pietro furono le prime a superarlo, e senza bisogno d'aiuti. Lodando lui, ridendo, offrendo la mano alle signore, si giunse in breve ora sul cono, dalla vetta spuntata, vero osservatorio alpino, che aveva forse cento metri di giro.
Nel bel mezzo di quel pianerottolo sorgeva una piccola torre. Dico che sorgeva, e sarebbe più giusto il dire che cascava a pezzi. Era stata edificata nel 1816, per servire come stazione trigonometrica agli ufficiali che delineavano la carta topografica dello Stato Estense. Non cercate più ora quella piccola torre; mezzo diroccata ai tempi del nostro racconto, crollò del tutto qualche anno dopo. Oggi è surrogata da un bel torrione, di cui gli scienziati si faranno un osservatorio e gli alpinisti potranno farsi un ricovero. Così, quando l'opera sarà inaugurata, e inaffiata spero da qualche bottiglia di lambrusco, non sarà più il caso di partirsi un giorno prima da Fanano e di passar la notte in un tugurio di pastori, ai Faggi, come toccò allo Spallanzani, per voler essere la mattina degli 11 agosto del 1789 sulla vetta del Cimone, e goderci lo spettacolo sempre maraviglioso della levata del sole. Oramai si potrà giungere sul Cimone a tutte le ore del giorno, dormire lassù, levarsi per tempissimo e godere, non che la levata del sole, tutti i preliminari della cosa: l'alzarsi della cameriera in sul bruzzico, l'aprire la finestra della cucina, sul balzo d'Oriente, lo accendere i fornelli, e il portare una tazza di caffè fumante al padrone.
Che volgarità son queste? Non c'è altro da dire sul romper dell'alba e sul levarsi del sole? Amici lettori, il mattino osservato dalla vetta di un monte è stato descritto tante volte, che in verità non si sa più come cavarsela, per rinfrescare in qualche modo il soggetto. Potrei dire con laudabile brevità: «splendido!» Ma neanche questo sarebbe nuovo, avendolo già detto il duca di Wellington, a Waterloo.
Ma lasciamo questi discorsi. Ai nostri amici delle Vaie toccò una di quelle fortune così rare sui monti, che sono le mattinate limpide tutto intorno, senza nebbie interposte fra essi e il gran giro dell'orizzonte che sembrano comandare dall'alto. Salutato il grande astro rosseggiante che si affacciava dalle vette dei monti toscani, i nostri amici si volsero intorno a veder sorgere, quasi nascere a grado a grado dalle tenebre, tingersi di bei colori e risplendere gloriosa la gran catena delle Alpi, dalle Marittime alle Retiche; biancheggiare di sotto e illuminarsi via via la grande pianura per cui correva il Po in lunga e tortuosa fascia d'argento; più oltre accennarsi in una candida sfumatura l'Adriatico, donde, percorsi rapidamente con l'occhio i dorsi dell'Appennino bolognese e del toscano, veduta Bismantova, con la sua gran faccia di sfinge supina, ma di sfinge europea che abbia il naso aquilino, era permesso di veder le Maremme verdeggianti, le rive del Tirreno e le isole dell'Arcipelago toscano, ninfe nuotanti sopra una grande distesa d'azzurro.
– Andiam, che la via lunga ne sospigne;– aveva detto ad un certo punto Don Pietro.
E obbedendo al cenno dantesco, che non era stato neppur solo, poichè si era veduto e ricordato con parole dantesche il sasso di Bismantova, la brigata si mosse per ritornare alle falde del cono, dove i cavalli aspettavano.
La fonte Beccadella si sprigionava rumorosa dal masso, scendeva copiosa tra due sponde rivestite di felci, tanto copiosa (l'osservazione è dello Spallanzani, che era un uomo pratico) da bastare a mettere in moto la ruota di un mulino. La brigata stette alquanto ad ammirare la fresca sorgente, i muschi che inverdivano i sassi, e le felci che piegavano intorno i loro ombrelli dentati, o rizzavano dignitosamente i loro pastorali dalla vetta ricurva, come se fossero altrettanti vescovi in processione. Poi, rimontati a cavallo, scesero tutti verso greco, dietro la guida di Aminta, addentrandosi in una fitta selva di abeti e di faggi. Fu un'allegra discesa, dove soli i cavalli vedevano il sentiero, mentre i cavalieri dovevano guardarsi dai rami protesi che ad ogni tratto schiaffeggiavano il viso.
Ad un certo punto, le veduta si aperse sopra una vasta conca di azzurro intenso, chiusa d'ogni parte nel verde.
– Bello! – esclamò Gino, a cui Fiordispina aveva indicata la scena. – Il suo nome?
– Non lo ha riconosciuto ancora? – domandò la fanciulla.
– Che? il lago della Ninfa?
– Per l'appunto.
– Ma… – disse Gino. – Cerco la Ninfa, e non la trovo. È tutto verde, in giro al lago.
– Ancora un po' di strada e vedrà scoprirsi da quella parte la roccia biancastra.
– Ella crede dunque, signorina, che noi non possiamo vedere niente più della nuda roccia? E la Ninfa in persona non sarà ad aspettarci?
– Ci sarà sicuramente; – rispose Fiordispina. – Non le ha detto Don Pietro che è stata convertita in sasso? —
Il conte Gino seguiva con gli occhi tutte le curve graziose di quello specchio azzurro, mentre la cavalcata scendeva la costiera, in mezzo alle aste rossiccie di una macchia di abeti. Anzichè lago della Ninfa, quel volume d'acque si sarebbe potuto dir occhio; un occhio limpido e sereno, a cui erano ciglia i faggi della riva e sopracciglia le prominenze della balza; uno di quegli occhi bovini, pieni di stupore, con cui Iside, o la santa natura, contempla il cielo suo padre e ne riflette l'immagine in terra. Ahimè, nient'altro che l'immagine!
Questi occhi d'Iside, o di Giunone, o d'altra divinità che raffiguri la virtù feconda della madre terra, son comuni tra i gioghi dell'Appennino settentrionale, e sarebbe piacevolissimo ragionarne a lungo, se non si temesse di dar noia al lettore. Dal lato superiore della gran valle del Po, i laghi son tutti lunghi e vasti come la catena delle Alpi da cui prendono le acque, come i fiumi a cui debbono restituirle. Dal lato inferiore, sono meno alti i monti, meno lungo è il corso dei fiumi, le nevi durano meno sui dorsi dell'Appennino, e i laghi, quantunque più numerosi, sono infinitamente più piccoli; veri laghetti, serbatoi montanini, dai quattro agli ottocento metri di giro, formati sempre nelle alte convalli, dove in antichissimi tempi erano altrettanti ghiacciai. Sull'Appennino le nevi disciolte, ma più ancora le selve fitte, nutrono fonti vive e perenni; son queste che fanno lago, cento o dugento metri più sotto, in qualche piega del monte. Dalla parte inferiore, dov'è come il labbro della conca montana, è facile riconoscere tuttavia la mora dell'antico ghiacciaio, enorme parete di massi ammonticchiati, rivestiti di verdura e arieggianti una collina a chi li guardi dal basso. Sui fianchi del lago, un picco ignudo, una cresta scogliosa, una spina dentata di rocce, lasciano ancora indovinare gli strati di vecchio macigno terziario, che il ghiacciaio ha corrosi via via, trovandoli sul confine del suo regno. Se l'epoca glaciale fosse durata nel nostro piccolo mondo venti trenta secoli di più, certamente quelle pareti si sarebbero corrose dell'altro e sfiancate, scendendo a formare altre more di sassi sul confine del ghiacciaio medesimo, che le aveva da principio sfaldate. Ma per bontà di un cambiamento di temperatura, che ha permesso a noi di nascere (non so per qual fine e nemmeno con quanto utile nostro), quelle pareti rimangono in piedi, come segni delle antiche erosioni che han dato la forma più recente al nostro pianeta. Vogliano i cieli benigni che sia anche l'ultima.
La cavalcata era giunta al confine della macchia, donde si stendeva in dolce pendìo un tappeto erboso, un verde pulvinare, fino alla riva del lago. Qua e là il declivio era seminato di massi enormi, le cui facce scabre si vedevano chiazzate di licheni e annerite dai geli di un numero sterminato d'inverni. Un geologo ci avrebbe veduto altrettanti esemplari dei famosi massi erratici, fatti scorrere fin là sul piano inclinato del ghiacciaio, e deposti sul limite della mora. Un pittore, senza cercar tanto, avrebbe messo mano ai pennelli e si sarebbe affrettato a ritrarli, per portar via una bella impressione dal vero. Gino, che non era geologo nè pittore, si contentò di osservare. La poesia del luogo era grande, la pace incantevole, e Fiordispina, bella come una Dea, certamente più della Ninfa che fino allora aveva regnato da sola in quel verde di macchie, su quell'azzurro di lago, affascinando e traendo a morte i viandanti ignari, i cacciatori della leggenda.
Mentre egli ammirava tacendo, i suoi compagni si affollavano intorno alla barca, che i boscaiuoli di casa Guerri avevano tirata lassù a forza di braccia. Non era una barca molto grossa; era un burchiello, capace di due persone sedute e di una terza che stesse al maneggio dei remi. Ma era la prima che andasse lassù, e alla Ninfa del lago poteva parere una grande maraviglia. Doveva trovarsi male, quella povera Ninfa; il suo regno era finito; il suo recesso non avrebbe più avuto segreti, poichè era consentito di correre il lago da una riva all'altra e di giungere fino al suo letto di pietra.
La barca non era stata ancora lanciata nell'acqua. Il signor Francesco aveva ordinato che fosse tenuta sulla riva, in attesa della brigata. Don Pietro doveva benedirla, il padrino e la madrina imporle un nome. Il padrino, si capisce già, sarebbe stato l'ospite, il conte Gino Malatesti; la madrina poi… debbo dirvi anche questo? la madrina sarebbe stata la fanciulla dei Guerri.
Mentre la comitiva stava intorno al burchiello, che i boscaiuoli traevano ancor più presso alla riva perchè fosse pronto al mistico bacio delle onde, Gino guardava il masso bianchiccio, che sorgeva, bizzarramente stagliato, dall'altra parie del lago. Egli doveva cantare la Ninfa, poichè ne aveva fatto solenne promessa a Fiordispina; voleva perciò impadronirsi del soggetto. Era dunque laggiù, era quella veramente, la Ninfa del lago convertita in pietra! La vecchia balza calcarea, isolata sul fianco della montagna ed impervia, colorata dai caldi riflessi del sole mattutino, poteva benissimo aver raffigurato in altri tempi la chioma, il profilo di una faccia umana e tutto insieme il corpo di una persona sdraiata; ma via, per innamorarsene, anche da lontano, ci voleva proprio un cacciator da leggenda.