Kitabı oku: «Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!», sayfa 11
Fra le povere cose del mondo c'è anche questa, ed è la più triste.
Se in un'anima vi è un barlume del divino, a quest'anima sarà serbata la pista carovaniera del deserto.
Anche questo va aggiunto alle povere cose del mondo.
– Vorrei chiederle una cosa, signor Franzi…
– Di'?
– Ma poi… non mi arrischio!
– Di che ti vergogni, Principina? Non siamo ormai come due buoni fratelli?
– Vorrei che mi lasciasse un suo ricordo. Oh, una cosa qualunque…
– Domani te lo porterò.
– Se ne ricorderà?
– Se te l'ho promesso!
– Sono sfacciata? Non penserà male di me?
– Perchè dici questo?
– Ho sempre paura!.. Che cosa sono io?
– E perchè dovrei pensar male della mia Principina?
– Ha detto sua?
– Sì.
– È vero.
E la sua voce leggera che assomigliava a un canto lontano che si spenge; la sua voce di bimba e di creatura tremò un poco e si lasciò morire.
Tacemmo. Suonò l'ora di notte alla Torre del Comune. Il giardino odorava forte. All'infuori del vasto trillare dei grilli non si udiva niente: neppure una voce, neppure il trascorrere di un veicolo, via, per i selciati delle strade.
La provincia ha di questi vastissimi giardini raccolti, in cui si rifugia l'intimità della primavera.
Era fin troppo il profumo dei fiori e ad ogni notte ne nascevano migliaia come le stelle nel cielo.
Tacemmo, sperduti per diverse strade.
Tu eri sul principio di una strada bianca, sotto un segno di stelle.
Tu incominciavi un cammino che non doveva finire mai più…
… e partivi sotto gli occhi della primavera!
Sopra il tuo capo, sul muro a calce, c'era l'immagine di una Madonna, con le sette spade del dolore…
… e un secco ramicello di ulivo.
E aspettavi come la povera gente che arriva a una grande stazione tumultuosa;
ma ancora non è suonata l'ora del suo viaggio.
Si ferma, accosciata sui suoi fardelli;
e attende, e pazienta estranea fra estranei, attende e pazienta senza mormorare;
e guarda finchè non arriva l'ora segnata.
E parte… e arriva… e non arriva!
Arriva… non arriva al di là del mare, al di là dell'infinito…
sempre con lo stesso fardello;
sempre con lo stesso paziente cuore!
Tu eri, così, sul principio di una strada bianca, sotto un segno di stelle; e partivi sotto gli occhi della primavera!
– Che ore sono?
– Le nove.
– È passato già tanto tempo? Mi pareva fosse solamente mezz'ora! Vuole accendere il lume?
– Se ti abbisogna.
– A me, no. Era per lei.
– Io sto bene così.
– Anch'io. Ma è tardi, Franzi. Se deve andare…
– Io non ho niente che mi chiami.
– Proprio niente?
– Niente!
– Oggi mi sento bene. Canterei…
– Riposa… sarai stanca… hai parlato troppo.
– Adesso, anche se rimarrò sola per una settimana non piangerò più.
– Ma verrò a trovarti.
– Verrà?
– Certo.
– Allora… mi aiuterà a far le scale, perchè voglio alzarmi.
– Quando?
– Uno di questi giorni. Una bella mattina! Una bella mattina lei verrà per trovarmi nel mio letto ed io non ci sarò più… Sarò nel giardino.
– Bisogna che tu adoperi prudenza.
– Oh, so ben io quel che mi dico! Senta, Franzi… Lo sente come batte?
– Sì…
– Forte forte?..
– Sì…
– Ormai sono guarita! Quando lei ha fatto le scale, io sentivo che il Signore si ricordava di me!.. Domani voglio mandare al Signore tutte le rose del giardino. È di maggio… e la povera Principina non è stata dimenticata…
– Cara!..
– Non dica così, Franzi!
– Perchè?
– Perchè… mi fa male…
– Male?
– Sì. Io adesso voglio pensare tutto quello che voglio; ma non bisogna lasciarmi andare troppo avanti! Se cammino un poco è bene… ma correre?.. correre?..
– Sei stanca?
– Oh, stanca… Franzi!
– Respiri con fatica.
– È vero; ma è la consolazione…
– Mi aspettavi dunque?
– Sì, se vuol credermi!.. Ma per niente… non volevo mica niente, sa? So bene chi sono!.. Solo mi dicevo: – Se Franzi venisse, mi sentirei un po' meglio… potrei dirgli le cose che non dico a nessuno. Franzi è buono e mi ascolterebbe…
– Tu sei buona!..
– Allora potevo anche soffrire e ringraziare la Madonna del Fuoco… come la ringrazio! Franzi, posso chiederle una cosa?.. ancora una cosa sola?
– Tutto quello che vuoi.
– Non se l'avrà per male?.. Non andrà via per non ritornare mai più?
– Mi conosci ben poco, Principina!
– Franzi… Franzi… mi voglia un po' di bene!
– Sì che te ne voglio!.. E te ne voglio molto!..
– Ecco… Vede come sono sciocca?..
La sua testolina di bimba si era abbandonata sulla mia spalla.
Pianse senza far rumore; non vidi le sue lacrime.
Non vidi nemmeno il suo volto di piccolo fiore che appassiva; ma sentii il suo tepore e le sue mani che mi accarezzavano i capelli.
Ella non chiedeva di più.
Sarebbe morta senza domandare niente di più!
Era una povera bimba, in fondo a un giardino primaverile, sola sola…
E un giorno aveva alzato gli occhi per guardar più lontano…
… anche lei, più lontano… là dove guardano gli occhi delle fanciulle in fiore.
Ora poteva riposare un poco, col suo cuore di bimba, nel profondo di un sogno…
Ora poteva dire a Iddio: – Ecco, non sono più sola e, sulla strada delle notti, c'è un altro passo, accanto al mio passo…
e le campane del mattino non suoneranno più per me… solamente per me!..
Un altro cuore sarà col mio cuore!
un'altra voce con la mia voce!
un altro respiro col mio respiro!
Adesso anche posso morire, Signore.
Sì, ora posso veramente morire!..
Povera bambina!
E tu eri sul principio di un'infinita strada bianca; lanciata verso un segno di stelle.
XXIX
Una porta si aprirà quando tu crederai che il destino l'abbia barricata per l'eterno.
Alle dieci di notte, quando rientrai, la signora Adalgisa dormiva e non si destò.
Ciò mi piacque.
Ero turbato. Un'infinita pietà mi teneva perplesso. Perchè avrei voluto dare, alla piccola che soffriva, tutto il mio amore e non potevo; non potevo darle più del mio pietoso silenzio.
L'avevo avuta fino allora fra le braccia, ma senza trasporto; non come un giovane con una creatura che ama, ma come un fratello. L'avevo avuta fra le braccia e non le avevo detto niente; non avevo avuto niente da dirle che non fosse fraterno.
L'avevo lasciata piangere sentendo aggravarsi in me una grande pena.
Poi quando la sua piccola bocca, bruciante per la febbre, aveva cercato la mia bocca, l'avevo baciata; ma come una sorellina che cerca un rifugio, che ha paura, che vuole appoggiarsi alla forza di un uomo.
Ed ella, forse, aveva intuito l'irremissibile distanza; aveva sentito che si può morire, ma non si può aspettare l'amore per le strade dalle quali non può arrivare.
Ora imprecavo contro il mio egoismo; mi accusavo.
E vedevo come fosse soave Principina e come preferibile alla complicata e strana Giacometta; ma la ragione può anche fissare un punto di rapporto fra due creature, non però stabilire la scelta che dipende da cause imponderabili.
Giacometta aveva il fascino delle donne che tormentano; delle più infide, ma delle preferite da tutti.
Mille e più volte bisogna sbagliare strada per trovar forse la compagna che può attraversare con noi questo mistero del mondo.
E non sempre la si può incontrare.
Qualche volta vi passa accanto e non la riconoscete; qualche altra volta vi divide l'irreparabile distanza.
Perchè non è vero che al mondo non sia, nell'attimo del vostro passare, un'anima che si compia in voi, che possa vivere in amore con voi, nel cammino verso la morte.
Quest'anima vive la vostra vita e proverà, come voi provate, la grande tristezza della solitudine; solo, non potrete incontrarla.
Il destino non vi concederà tanta gioia.
Però, lo stesso destino non potrà impedire la vostra unione; ma chissà quando e dove!..
Così come le forze affini si associano nella tenebra del niente; provenendo da incommensurabili distanze, avendo turbinato per milioni e milioni di secoli nella vuota immensità. Vanno e si uniscono, sospinte dalla volontà di Dio.
E una nuova vita si genera; e una nuova luce è nella tenebra, formata da quell'incontro.
Così sarà dell'anima nostra nel tempo dei tempi.
Ma la tristezza, l'umana tristezza di chi pensa ed ama è importabile troppe volte!.. È davvero importabile!..
Trascorsero alcuni giorni così. Io vedevo Principina ad ogni sera ed ella migliorava sotto il fascino del maggio.
Una sera la trovai alzata. Era seduta alla finestra. Ma come magra! Non aveva che le sue povere piccole ossa sotto la veste di cotonina azzurra.
– Vede come sto bene, Franzi?
– Hai commesso un'imprudenza!
– Ma se davo retta al dottore, non mi sarei alzata mai più.
– Eppure bisogna dargli retta.
– Non lo sa, Franzi, che m'importa ben poco di morire?
– Non dire sciocchezze!
– No, dico davvero, Franzi!.. Proprio, sa?..
E poi sarebbe meglio!
Trascorse un silenzio.
– Franzi… si ricorderà qualche volta della sua Principina, quando non ci sarà più?..
– Non voglio neppure risponderti!
– Perchè?.. Si fa per dire! Si ricorderà qualche volta?..
Allora le dicevo tante cose, tutte le cose più soavi che mi nascevano per lei; ed ella piegava un poco la testa, sorridendo… sorridendo… sperduta nella musica che avrebbe voluto sempre ascoltare; e non fiatava più, accarezzandomi i capelli piano piano, come una piccola mamma d'amore.
E, di sera in sera, mi accostavo un poco più, sempre un poco più, al suo silenzio.
Ella diventava per davvero la mia sorellina che pensavo innamorata dell'amore e non di me. E le stavo vicino per raccontarle tutte le cose belle che mi passavano per la mente.
Parlavo a voce spenta, perchè troppo non si affaticasse nell'ascoltare ed ella mi si faceva accanto, sempre più accanto come un passero freddoloso, come una rondine nel palmo della mano.
Nessuna più, certissimamente, ha avuta tanta religione del pensiero e della poesia.
Ella proveniva dal popolo e aveva la grande purezza del vecchio popolo, non ancor guasto dalle più recenti miserie.
Intuiva la grandezza della vita dello spirito, sentiva la religione della bellezza. E ciò era spontaneo in lei.
Ella certo avrebbe vissuto tutta una vita oscura e penata, sol per poter amare e servire in grandissima umiltà d'amore colui sul quale i suoi occhi dolci si erano soffermati. Ed era una delicata creatura, la piccola sorella dei lillà, cresciuta all'ombra delle serre.
Ma un giorno io mi destai a un urlo della donna che formava tutto il mio fantastico parentame.
– Checco, Checco, Checco!..
Balzai sul letto, inebetito dal sonno, non ancora ben desto.
– Che c'è?.. Cos'è stato?..
– Una lettera, una lettera!
– Che cosa?
– Una lettera per te!
– Per me?
– Sì, per te, per te!
– Mettetela sul canterale.
– Ma vien da Bologna.
– Da Bologna?
– Sì. Deve essere di Giacometta.
– Date qua.
Le tolsi la lettera di mano. Ella stava là con quel suo gran naso, ad aspettare.
– Che cosa ti scrive il tuo amore?
– Non ho tempo.
– Cosa vuol dire?
– Sì. Adesso non ho tempo. Ho sonno.
– E non la leggi neppure?
– No.
– Noooo? Ma che razza di innamorato sei?
– Non sono innamorato. Ho sonno.
– Sfido io! Se perdi tutte le notti con quella stupida del giardino!
Ah, sciacallo provinciale! Specie di moralista da sacrestia, buona solamente ad avvelenare la gioia degli altri!.. in quel momento io ti odiai veramente.
Scattai come se mi avesse ferito a sangue.
– La stupida siete voi!
– Checco?
– Sì, ve lo ripeto! La stupida siete voi chè non avete il diritto neppure di nominarla quella povera bambina! E non voglio sentirvi dire più niente, non voglio sentirvi dire più niente!.. Andate via!..
– Ma Checco…
– Andate via!
E scesi dal letto, e dovevo essere bianco come la morte. Ella mi guardò spaventata e filò via umile e saggia, perchè si era trovata fra i piedi, all'improvviso, un Balduino che non conosceva ancora.
E avevo appena serrata la porta della mia camera quando mi giunse dal giardino, ma di lontano, una dolce voce che cantava una vecchia canzone.
Era la voce di Principina…
La voce di Principina nel chiaro mattino di maggio, via con la sua nenia e il suo sogno e il suo cuore di bambina!
Ritornai fra le coltri. Aprii la lettera.
Diceva:
Franzi,
Domani sarò alla Monaldina. Vieni. Desidero parlarti per l'ultima volta.
Giacometta.
Che voleva dir questo? Perchè da Bologna alla Monaldina, alla malinconica villa della piana ravennate? Che nascondeva il capriccio di Giacometta?
L'ultima volta, adunque, doveva essere laggiù, fra un fiume e i filari degli olmi, nel silenzio della campagna?.. Ella ritornava, mi chiamava per dirmi addio; ma perchè?.. Perchè incrudire una pena? Dovevo andare o no?..
Sentivo che sarei andato, che non avrei potuto vincere il penoso orgasmo che mi trascinava verso di lei, eppure mi piaceva negare, dentro di me, tale evidenza e impormi una rinunzia che non avrei accettato.
Dovetti togliermi dalle coltri. Mi vestii distrattamente, tanto che, a volte, rimanevo sospeso non sapendo ciò che mi restava a fare. Il mio dolore, assopito un poco in una settimana di religioso silenzio accanto a Principina, riprendeva tutta la vita mia, si impossessava una volta ancora di tutto me stesso.
Perchè chiamarmi per l'addio? Per mormorare le ultime parole che straziano; le parole che segnano l'inevitabile fine?.. Non era molto meglio evitare tutto questo? A quale spiegazione si poteva addivenire s'ella aveva già il fermo proposito di finirla?
Io dovevo essere forte la seconda volta ancora; dovevo sorriderle, farle capire che era molto meglio non rivederci più. E questo anche avrebbe fatto sì ch'ella non mi avesse dimenticato. Ella avrebbe sentito così che non sempre poteva giungere dove voleva; anche il suo fascino poteva mancarle qualche volta.
E una donna è perduta, in amore, quando si accorge che la virtù di incantesimo le manca; e si trova debole e sprovvista di fronte ad un uomo ch'ella ha creduto di tenere nel suo più fermo dominio.
Ma già sapevo che non ne avrei fatto niente.
Mentre così ragionavo, avevo l'ansia di andarmene, di arrivare nel minor tempo possibile alla Monaldina. E mentre da un lato pensavo di non ubbidire, studiavo, dall'altro, il mezzo col quale sarei partito: se col vaporetto o in bicicletta.
Non senza una grandissima lotta si arriva a segnare il punto del trapasso da un equilibrio a un altro equilibrio, o alla morte. Per quanto forte sia il voler nostro o per quanto l'uomo si vendichi poi definendo sciocca malattia il tempo del suo amore, certe crisi dell'anima e del senso, di tutto l'essere nostro cioè, tanto ci impegnano da esser definitive per il corso di tutta una vita.
Alla fin delle fini noi non siamo al mondo che per l'amore.
Si nasce per passare attraverso questa luce, e questa tempesta e per lasciare ad altri l'identica eredità. Ma da questa luce e da questa tempesta si rivela il segno creatore e il cuor del mistero.
I nostri giorni cantano.
Un'allodola è nell'aria.
Il sole raggiunge il segno della primavera.
Allora al cuore, che ancora è in vita di gaudio, nasce la speranza e la volontà dell'amore.
E qualcuno all'infuori di noi, nel profondo, segna la strada dell'ineluttabile.
Si nasce per giungere a questo traguardo e solamente.
Uscii che donna Adalgisa non era ancora rientrata e per tutto il giorno girovagai per la campagna. Verso sera non potei resistere più oltre e mi inoltrai per la strada provinciale di Ravenna, verso la Monaldina.
Quando ebbi attraversata Coccolìa; quand'ebbi sorpassate le ville dei Pasolini e dei Bonanzi e più prossima era la mèta prefissa, rallentai l'andatura perchè il cuore mi batteva troppo forte.
Si sarebbe chiuso con quella notte, nella malinconica villa, il Ciclo della ghirlandella?
E come si sarebbe chiuso? Quali erano i propositi di Giacometta?
Io subivo involontariamente, la stessa angoscia che mi aveva tenuto al primo incontro.
Ormai la strada correva come un argine fra il fiume e le campagne. Mi accostavo alla bassura ravennate. Le rive del fiume erano nude; non avevano più alberi; neppure ligustri avevano, ma solo un po' d'erba giù giù fino ai greti.
Anche l'ultimo crepuscolo stava per morire. Udii un suono di campane.
I braccianti che tornavano dal lavoro, in bicicletta, mi passavano accanto parlucchiando.
Una vecchia contadina, in un biroccino trascinato da un asino grigio, si era addormentata placidamente.
Poi la strada si fece più silenziosa e più deserta. Vidi da lontano gli alberi della Monaldina.
Scesi dalla bicicletta.
Non avevo più che qualche centinaio di metri da percorrere.
E il cuore mi batteva troppo forte perchè non cercassi di calmare l'affannoso respiro.
Mi fermai al cancello.
Due sole finestre della vecchia villa erano aperte, e la porta a vetri che dava sulla scala esterna. Tentai di aprire il cancello rugginoso; ma non vi riuscii. Chiamare non volevo. Cercai un'altra entrata.
Dalla villa non arrivava nè voce nè suono.
Pareva che il vento, il solo padrone del luogo, avesse aperte le due finestre e le avesse lasciate così perchè le ore del giorno entrassero, con la loro luce, per le stanze deserte.
Attesi per vedere se qualcuno apparisse: almeno un servo o un contadino. Nessuno si mostrò. La villa del silenzio era in balìa del suo muto incantesimo.
E se Giacometta era partita? Se arrivavo troppo tardi?
Forse mi aveva aspettato nella mattinata e mi aveva dato l'appuntamento alla Monaldina per un suo singolare capriccio o per chi sa qual altro rito tartarico. Perchè Giacometta non poteva e non sapeva dimenticare di essere la nipote di Tatiana.
Mi accorsi poi che anche la porticina della chiesa era socchiusa e che filtrava, attraverso alla fessura della porta, un bagliore di ceri.
Chi pregava maggio e Maria nella piccola chiesa della Monaldina?
I passeri ritornavano, a gruppetti, agli alberi del loro riposo. Si abbassavano come voli di foglie secche, dai tetti della villa fin verso i rami dov'era già un sommesso cinguettare.
Fra le foglie di un salice, il dolce trillo di due raganelle dava il senso dell'umida sera poi che l'ora della rugiada era già alla soglia del brolo e del giardino.
Trovai un cancelletto aperto verso la casa del contadino ed entrai.
Da un viale laterale, fiancheggiato da un duplice filare di tigli, penetrai nel piazzale della villa. Arrivai ai piedi della scala esterna; lasciai la bicicletta appoggiata al muro e mi disposi a salire.
Poi che mi presentai sulla soglia, non vidi nessuno. Sopra una seggiola era un largo cappello da donna. Sulla tavola un gran fascio di fiori e un paio di guanti. Chiamai; nessuno rispose.
Nelle altre due stanze aperte era un uguale silenzio. Giacometta e la signora Zeffira dovevano essere fuori di casa. Forse erano andate fino a Ghibullo, per qualche spesa.
Discesi in giardino. Mi disposi ad aspettare.
La sera era sempre più pallida.
La chiesa dal campaniluccio sottile mi incuriosiva. Chi poteva sostare in quel piccolo tempio fra i tigli e i roseti, a pregar maggio e Maria?
Mi accostai alla porta socchiusa.
Dall'interno mi giunse un bisbiglio di preghiere.
Sporsi la testa dall'apertura dell'uscio e guardai nell'interno.
Grande fu la mia sorpresa quando vidi in un inginocchiatoio dinanzi al piccolo altare del fondo, Giacometta. Ella aveva raccolta la faccia fra le mani e pareva immersa in una profonda meditazione religiosa.
Pregava? Era veramente con Dio o con i suoi pensieri mondani? Perchè era entrata nel tempio s'io sapevo ch'ella non pregava mai? S'io sapevo ch'ella non credeva?
Due inginocchiatoi stavano dinanzi all'altare; uno per lato. A destra era Giacometta; a sinistra la signora Zeffira. Un poco più indietro, verso la porta, inginocchiate sulla nuda terra, stavano due vecchie che pregavano con grande fervore. Esse levavano, a quando a quando, gli occhi verso la immagine dell'altare e congiungevano le nere e rugose mani di povere creature di fatica, nell'atto di impetrare la grazia.
Chiedevano misericordia per l'altra vita, chè da questa ormai stavano per trapassare, oppresse dall'amara fatica; e cercavano in Dio, il vago paradiso dei cieli e il riposo dei giusti nell'eterna pace dell'eternità.
Sì, riposare, riposare!..
Trovar, fuori dal mondo, la giusta legge in una clemenza infinita; e farsi perdonare per aver pianto e sofferto; e per aver lavorato; e per non aver goduto!
Entrai. La porta cigolò. Le vecchie si rivolsero a guardarmi e mi sorrisero chinando il capo.
Anche Giacometta si rivolse.
Era pallida. I suoi grandi occhi erano tristi. Mi fece cenno di attendere e nascose la faccia fra le palme aperte.
Una diecina di ceri ardevano sul piccolo altare. La chiesa ne era tutta illuminata. I fiori del maggio odoravano per entro i grandi vasi disposti sotto le immagini sacre.
Era una chiesa per una famiglia sola; il sacrario di una sola famiglia. Per questo aveva una non so quale intima semplicità, una mistica purezza che elevava l'anima a Dio.
Nulla poteva distrarre l'attenzione del credente: non fregi, non ori, non ricchezze, non vanità senza senso dinanzi a Dio solo e tremendo; nulla poteva ricondurre l'anima al terreno fasto. La piccola navata era ignuda; scoperte le travi, appena imbiancate le pareti; ma una ineffabile soavità era veramente nel luogo come se maggio vi fosse entrato e vi si raccogliesse per dolcezza, a ricordarsi a Iddio nel nome delle rondini e dei roseti in fiore; nel nome delle innamorate che soffrono, e nel nome di tutta quanta la povera e cieca umanità.
E se pure io non sapevo e non volevo pregare secondo il rito cattolico; s'io non volevo ricorrere alle parole gettate alle moltitudini che le ripetevan da secoli e secoli senza conoscerne il senso, era in me una più schietta preghiera, una mia comunione con Dio oltre i dogmi e le casistiche della Chiesa.
Pregare, sì, ma quando il tuo profondo sorriso arrivi fino alla mia miseria, sempre giovane Iddio de' miei anni! Pregarti quando io ti senta e ti avverta, io solo e sperduto alla soglia del tuo tremendo mistero; io solo con te solo!
E non altri fra la tua immensità e la nullità mia che ti cerca, che si azzarda sulle tue vie tenebrose da stella a stella, nell'armonico turbinìo dell'universo nel quale ed oltre il quale tu sei, avvertito e pur sempre ignoto.
Io solo con te solo e non altri, perchè se l'anima mia trema, non altri può intendere o guidarmi là dove ciascuno per sè può giungere, e solamente.
Forse si possono indicare le strade del Signore, ma non più di questo si può.
Così mi raccolsi, quella notte di maggio, nella chiesetta della Monaldina fra il silenzio diverso di quattro creature prone.
Poi una vecchia si levò; intinse la mano nella pila dell'acqua benedetta, si fece il segno della croce inchinandosi verso l'immagine dell'altare e scomparve.
Poco dopo, dal campaniluccio della chiesa, si sperdevano sotto le stelle, e con le lucciole dei grani, i rintocchi di una piccola campana che suonava non so che cosa: se un'Ave, se un segno di preci compiute, se un saluto alla notte del mondo, se un invito a una lontana preghiera.
Ma furono pochi rintocchi. Allora anche la seconda vecchia si levò e scomparve. Poi fu la volta della signora Zeffira.
Rimanemmo soli, Giacometta ed io.
Nè Giacometta accennava a ridestarsi dal suo sogno remoto. Trascorse non so quanto tempo ancora, poi l'amor mio si levò d'un subito, si inchinò e si rivolse per uscire.
– Siamo rimasti soli?
– Sì.
– È molto tempo?
– Forse mezz'ora.
– Perdonami. Pregavo.
– Di che dovrei perdonarti?
Anch'ella intinse la mano nella pila dell'acqua benedetta e si segnò.
– Quando sei arrivato?
– Sarà forse un'ora.
– Ti aspetto da questa mattina. Credevo tu non arrivassi più e non sarebbe stato bello, da parte tua!
Non risposi.
Usciti dalla chiesetta, ci avviammo verso la scalinata della villa.
– Tu sapessi quant'ho combattuto per poter vivere almeno una notte con te in questa vecchia villa. Era il mio desiderio da quando incominciai a volerti bene!
Mi si accostò un poco più; riprese:
– Mi serbi rancore?
– Nessun rancore.
– Hai dimenticato?
– Non ho dimenticato!
– Eppure… credimi se vuoi… non ho cessato un minuto solo di volerti bene!
Ci fermammo ai piedi della scala.
– Vuoi che facciamo un giro per il giardino?
– Come desideri.
Ci avviammo lungo i viali invasi dalle gramigne. Turbinavano intorno, miriadi di lucciole; e dalle siepi di biancospino e dalle macchie prossime e remote, cantavano i rosignoli.
– Ormai ho presa la mia decisione irrevocabile, Franzi, e puoi credermi. Io non ho avuto per Rorò che un turbamento passeggero…
– Ma allora…
– Perchè gli aprivo?.. Che so? Mi faceva pena. Era come un fanciullo disperato e prepotente.
– L'hai riveduto?
– Sì, a Bologna.
– All'albergo?
– All'albergo. Non voglio nasconderti niente. Non per difendermi. Tu sai che degli altri non mi preoccupo affatto. Possono pensare e dire di me ciò che vogliono. Non mi scompongo. Ma, per te, è un'altra cosa. A te voglio dir tutto. Mi crederai?
– Ti crederò.
– Lo pensi davvero? Non essere cattivo, Franzi.
– Tu sai che non so essere cattivo.
– È vero. Dunque, dopo la tua partenza, Rorò non si dette per vinto. Lo trattai male, non volli più vederlo, gli rivolsi appena la parola. Ero indispettita con te e mi pareva di odiare Rorò. Ma certe volte, quando si metteva al piano a cantare, mi prendeva non so quale profonda malinconia… non so quale scoramento… e allora, s'egli avesse voluto prendermi, l'avrebbe potuto, e non era amore… no, Franzi, non era amore. Era un fascino malefico. Sotto l'oscuro dominio della sua musica, mi sentivo perdere; tutte le mie forze mi abbandonavano. Avrei pianto senza sapere il perchè della mia tristezza. Un incubo, ti dico!.. Un incubo soave e malefico. E quando riuscivo a vincermi, quando potevo riprendere l'assoluta padronanza della mia volontà, allora mi proponevo di dimostrare a Rorò che non potevo soffrirlo; ch'egli tanto più mi diventava odioso, quanto più sapeva perdermi, in certe ore. Non gli rivolgevo la parola; non rispondevo alle sue ostinate insistenze. Ma Rorò non mi dava tregua. Con la testardaggine di un fanciullo prepotente, si era proposto di ottenere da me ciò che voleva. Nulla poteva togliergli la convinzione di riuscire. E ciò, a volte, mi dava una vera febbre di rivolta!..
– … ma era amore!..
– No, non era amore! Ascoltami. Una volta decisi di andarmene. Volevo raggiungerti. Avevo sete di te. Tu mi apparivi tanto diverso! Quantunque fossi offesa…
– E che male ti avevo fatto io?
– Ma tu non conosci le donne, povero Franzi! Tu sei un bambino. Tu non puoi vivere che dei tuoi sogni e delle tue illusioni. Io ero offesa con te e ne avevo ragione. Non ci si lascia così, senza un'ultima parola… e non si vince abbandonando il campo della lotta! Ma non importa. Il fatto si è ch'io ti volevo bene anche allora come te ne voglio adesso; ma ero indispettita. Avrei voluto averti vicino per farti almeno un po' di male e darti poi tutto quanto il mio amore… ma tutto!.. Tu non c'eri e un giorno decisi di andarmene. Volevo raggiungerti; volevo vederti, come ti vedo, e poi…
«Avevo già compiuti i preparativi in silenzio perchè a nessuno trapelasse qualcosa della mia decisione. Neppure Arlecchina doveva sapere. Sarei partita all'ora del pranzo, quando nessuno mi avesse veduta. E, all'ora stabilita, salii in camera mia per porre ad effetto il mio proposito quando vidi, sulla scrivania, una lettera per me. Riconobbi la scrittura di Rorò. Non volevo leggerla. Ormai mi aveva scritto troppe volte e sapevo, press'a poco, ciò che mi avrebbe detto. Presi la lettera; fui per strapparla; mi pentii. Era meglio ch'io sapessi ciò che mi scriveva; tanto non potevo temerlo, ed era per l'ultima volta. Strappai la busta. Lessi. Era una lettera piena di oscure minacce. Mi avvisava di essere partito e di aspettarmi a Bologna, al Baglioni. Mi supplicava di raggiungerlo. Dichiarava che, se non fossi andata avrei avuta sulla coscienza la responsabilità del gesto disperato ch'egli avrebbe compiuto. Un romantico, in poche parole, ma un romantico del quale io non sapevo quasi niente. Malato di nervi lo era; e se avesse per davvero posto ad effetto il suo proposito? Quella lettera mi lasciò perplessa. Intanto cominciai col non partire. Discesi a pranzo. Ero nervosa, agitata; non toccai cibo. Dopo pranzo Arlecchina si pose al pianoforte e cantò una romanza di lui.
«Io sono una debole cosa, Franzi! Io stessa non mi conosco ancora! Io non so che cosa mi provenne da quella musica… sta di fatto che salii in camera mia e, quando ebbi serrato l'uscio e fui sola, mi gettai sopra un divano, presa dal convulso del pianto. Soffrii come una disperata senza sapere perchè. Che cosa avevo? Perchè piangevo? Non ero libera di andare da lui quando l'avessi voluto? Non potevo dargli tutta me stessa, se ciò mi fosse piaciuto? No, io non volevo questo; anzi il pensiero di appartenergli mi destava profonda ripugnanza. E allora? Se non era amore quel mio turbamento, che cosa era mai?.. Che cos'era mai?..»
Parlava sommessamente e rapidamente senza guardarmi. Guardava il sentiero. Confessandosi a me, provava la singolare voluttà di denudare l'anima sua di fronte a sè stessa. Provava il piacere di rivivere la sua pena morbosa, ne' suoi minimi particolari. Riprese:
– Dovevo soffrire… non so!.. Era forse la notte di maggio col suo languore… era la mia stanchezza… eri tu che non c'eri. Come hai avuto torto ad andartene, bambino! Il giorno dopo, quando seppi che eri partito, giurai che non ti avrei riveduto mai più. Eppure…
«Basta, mi levai talmente spossata dal divano, che non avevo più forza di reggermi in piedi. E la mia debolezza ingrandì il mio tormento e la mia paura. Allora, senza sapere che cosa facevo, senza misurare le conseguenze del mio atto, senza preoccuparmi di ciò che avrei potuto decidere la mattina, dopo una notte di riposato sonno, gli telegrafai. Gli telegrafai così: Mi aspetti. Verrò.
«Tutto ciò mi dava un'amarezza insoddisfatta; ma… dovevo farlo!.. Ero in preda ad una suggestione che non mi spiego. Forse io, pur senza consentire, subivo la forza della sua volontà lontana. Quando ebbi compiuto questo, mi sentii più sollevata e non pensai più a niente. Sentivo solo un profondo bisogno di non veder nessuno; di non parlare a nessuno; di essere sola… sola… sola!..»
Trasse un profondo sospiro. Pareva che, narrando, disfacendosi del ricordo, si disfacesse anche di una grande pena e sospirasse di sollievo per sentirsene, così, liberata.
– La mattina dopo pensai che per vincere l'angoscia dovevo andare da lui; dovevo affrontarlo, sola con lui, in una stanza d'albergo o in un qualsiasi altro luogo. Ciò non mi impauriva. Non era di lui come uomo che temevo; temevo il fascino oscuro dell'anima sua attraverso all'impero dell'arte sua; e temevo l'incompiutezza dei nostri rapporti. Bisognava arrivare ad una soluzione ed ero ben decisa ad arrivarvi, qualunque fosse stata la strada che avrei dovuto seguire. Tale decisione mi rese momentaneamente più leggera; mi rese più sopportabile la giornata. I miei preparativi erano compiuti. Alle undici salivo in automobile. Discesi al Baglioni.