Kitabı oku: «La testa della vipera», sayfa 2
A sera, Lorenzo rincasando irritatissimo per una vistosa perdita al giuoco, eccitato dai fumi del vino e dei liquori, passò nella camera della moglie, e il suo occhio grifagno vide che l'orologio mancava dal suo solito posto. Ne chiese, e udito del regalo fattone alla balia, scoppiò senz'altro in una di quelle sue tremende collere che già agghiacciavano di terrore la poveretta quando era in salute.
L'ammalata fu assalita da una violenta febbre, e quella sera medesima il medico la giudicò in pericolo.
Due giorni dopo essa era morta.
V
Tutte queste cose passavano e ripassavano per la mente di Lorenzo; finchè pur finalmente venne un greve sopore che lo tolse a quella penosa fantasmagorìa. Fu destato da una mano, che, senza troppa precauzione, gli si posò sulla spalla. Aprì gli occhî e vide ritta presso al letto la Marianna.
– Che cosa c'è?
– C'è Danzàno.
– Ebbene, che m'importa?
– Vuole parlarti.
– Ditegli che dormo, che mi riposo… che sono occupato.
– No; è meglio che tu lo veda subito e te ne liberi… Egli ha parlato colla monaca… Chi sa che cosa la gli avrà detto… Sai che pedante egli è… Si faranno delle ciancie in casa sua… Va, mostrati afflitto, accasciato…
Lorenzo esitò un momentino; parve che non gli piacesse troppo aver da fare col cugino: ma poi, con subita risoluzione, si gettò giù dal letto.
– Dov'è? chiese.
– È nella camera di… della morta.
– Ah! non colà, sclamò vivamente il vedovo. Fatelo passare nel salotto.
Emilio Danzàno era un vero galantuomo che aveva poca amicizia e niuna stima pel cugino Lograve, ma che aveva sentito sempre, dacchè l'aveva conosciuta, molta compassione per la moglie di lui; e questa era stata la cagione che aveva fatto accettare a lui e a sua moglie di tenere al battesimo il neonato di Luisa. Quella mattina, venuto a prendere le nuove dell'inferma, egli trovò la monaca sola a pregare presso la morta. Dalla monaca seppe come, e con che parole, la poveretta fosse spirata.
– Povera donna! mormorò guardando con profonda pietà quel cadavere: poi chiese di vedere il cugino Lorenzo.
Questi, seguendo i consigli di Marianna, comparve con un aspetto accasciato, accolse con un brontolìo, che voleva essere un ringraziamento, le condoglianze, e sospirò, asciugò sulle ciglia delle lagrime ipotetiche e pregò il cugino di assumersi tutte le incombenze che occorrevano per quella luttuosa circostanza, per le quali mancavano a lui il coraggio e la mente. Danzàno, interessandosi della salute del figlioccio, consigliò al vedovo padre di mandarlo subito nelle più sane aure del paese montanino della balia: e il consiglio fu premurosamente accolto perchè corrispondeva affatto ai desiderî e alla convenienza di Lorenzo e della governante.
Il bambino fu lasciato colà tre anni, nè il padre lo avrebbe ancora ripreso con sè, dove il Danzàno non avesse insistito per farglielo ritirare in casa.
Il piccino, così miseruzzo com'era nascendo, non aveva di molto prosperato, ma aveva pur fatto il miracolo di vivere, superando le varie crisi dell'età infantile. Se la sua venuta in casa fu poco gradita al padre, uggiosa alla governante, riuscì una disgrazia per lui, il quale dalla vita libera, in sano ambiente, circondato dalla schietta benevolenza di quella famiglia montanina, passò nell'aere rinchiuso d'una casa cittadina, dove nessuno gli voleva bene, dove anzi il padre impaziente lo allontanava da sè con violenti rabbuffi, e Marianna non faceva che rimproverarlo, castigarlo, e sovente ancora picchiarlo di santa ragione.
Qualche volta il padrino otteneva che il piccino venisse a passare la giornata in casa sua; ma ciò non tanto sovente quanto i Danzàno avrebbero voluto, perchè Marianna, temendo che il ragazzo, malgrado le minacciose intimazioni fattegli, raccontasse e i mali trattamenti suoi e le scene burrascose che così frequenti avevano luogo in casa, contrastava più che potesse a tali visite. Nella casa del padrino il figliuolo di Luisa trovava un ambiente tutto bontà, pace, ilarità ed affetto. I conjugi s'amavano, e ambedue idolatravano i loro figli che crescevano avendo pei genitori quella devozione, quel rispetto, quella stima che veramente si meritavano. Due erano questi figli, un maschio ed una femmina: quello aveva tre anni di più del Lograve; la bambina invece ne contava cinque di meno, e fratello e sorella si volevano pure un bene da non si dire. Si sarebbe creduto che quelle giornate passate nella famiglia del padrino riuscissero un diletto, un godimento pel piccolo Emilio; e invece così non era: perchè a misura ch'egli avanzava in età, si manifestava e cresceva in lui uno dei più brutti vizî, e più inspiratori di malvagità: l'invidia. Quel disgraziato, della madre non aveva pure la bontà dell'anima, ma soltanto la bruttezza del corpo; dal padre aveva attinto la tristizia dell'umore e del carattere; sottoposto alle sfuriate paterne, alle continue persecuzioni della Marianna, egli ci aveva aggiunto la dissimulazione e l'ipocrisìa.
I cuginetti erano belli, sani, ben vestiti, accarezzati, regalati d'ogni ragionevole divertimento, sempre lieti e concordi, e paragonando a loro sè stesso, infermiccio, sgraziato, male in arnese, maltrattato, ignorante, ineducato, goffo, Emilio Lograve si struggeva d'un'invidia tanto più amara quanto più dissimulata.
Per l'istruzione d'Emilio fu ancora il Danzàno che decise il malconsigliato padre a fare qualche cosa: e siccome tanto a Lorenzo quanto alla Marianna andava a versi di togliersi quell'imbarazzo dai piedi, all'età di dieci anni il figliuolo di Luigia fu cacciato in collegio.
Il soggiorno in questo fu ad Emilio poco meno ingrato di quello della casa paterna. I ragazzi sono abilissimi ad intuire il carattere di coloro con cui convivono, ed Emilio fu presto conosciuto per maligno, invidioso, mettimale ed ipocrita: e fu da tutti i compagni mal visto. Debole e odiato: si può facilmente comprendere a quante malizie, avanìe, tribolazioni e scherni egli fosse fatto segno. La sua triste indole si intristì viepiù, rispose all'odio coll'odio; maledì la sua debolezza, agognò di acquistarsi una forza qualunque da potere ripagare il male col male. Il caso venne un giorno a rivelargli che la sua debolezza poteva giovarsi d'una abilità per superare in altrui anche la forza fisica.
Fra quelli che gli mostravano maggior malevolenza e disprezzo era principale uno dei più grandi, robusto, coraggioso, bello e in ogni cosa distinto. Emilio l'odiava e lo invidiava accanitamente; aveva cercato di nuocergli, rivelando ai superiori qualche colpa disciplinare di lui, e il giovanetto se n'era vendicato a misura di carbone con famosi carpicci senza parsimonia.
Un giorno, in una passeggiata fatta sulla collina da tutti i collegiali, sbandatisi questi a proprio talento, Emilio Lograve, che non aveva mai amici, che non si piaceva della compagnìa di nessuno e di cui nessuno amava la compagnìa, si trovò solo in alto d'un poggio rivestito di boscaglia, di mezzo alla quale scorgevasi il fondo della vallata corrente al di sotto, lontano, un centinajo di metri. In questo fondo della valle stava la maggior parte dei compagni giuocando.
Fra tutti eminente il più destro, il più forte, sempre vincitore, Alberto Nori, quegli cui Emilio odiava più intensamente d'ogni altro. Ad Emilio venne una malvagia inspirazione: poter colpire da lontano, senza esser veduto, quel capo orgoglioso! Si ricordò di Davide e Golìa: duello in cui la abilità del giovanetto aveva vinto la forza del gigante: scelse lì per terra un sasso tondeggiante, grosso come un uovo, lo pose nel fazzoletto di cui si servì come una fionda, e fattolo girare due o tre volte per aria, lo scagliò in direzione del detestato compagno. L'occhio e la mano furono giusti: il giovanotto colpito cascava in terra, sanguinosa la fronte, smarriti i sensi. Emilio, ratto, s'era nascosto nella boscaglia, felice e glorioso seco stesso del suo bel colpo. Quel sasso parve a tutti i presenti piovuto dal cielo; invano guardarono di qua e di là per iscoprire da qual mano fosse stato tratto; nessuno si vide, nulla si mosse. Coll'aria più innocente del mondo Emilio raggiunse i compagni e simulò con arte perfettissima la più reale meraviglia e la più sincera indignazione.
Il ferito, lavatagli con acqua fresca la fronte, presto rinvenne, e fasciatogli come si potè meglio il capo, si sentì abbastanza in forze da potere tornare a piedi in collegio, dove però dovette rimanere un po' di giorni in infermeria.
Emilio gongolava nel suo segreto. Di quella scopertasi abilità si piacque coll'esercizio ad accrescere la perfezione; e in breve divenne sì esperto, che colla fionda e colla mano, a quella distanza a cui le sue forze potessero far giungere il sasso, egli era sicurissimo di colpire qualunque menomo oggetto preso di mira.
«La civiltà, pensava Emilio, ha voluto rendere terribile anche la debolezza di chi ha l'occhio giusto, la mano ferma, l'anima risoluta e il cuore saldo, colla invenzione delle armi. Quando io abbia in mano una pistola, non temerò più i muscoli d'acciajo di nessun Ercole o Sansone.»
In quel collegio si davano lezioni di scherma cui pochi degli allievi, e con poca buona voglia, seguitavano; Emilio fu ad esse assiduissimo e attentissimo. Piccolo, magro, sottile, ma vivacissimo, ratto, agile nelle mosse, con occhio acuto, pronto e giusto, egli divenne presto abilissimo schermitore, cui mancava la forza per durare a lungo, ma una destrezza impareggiabile dava una sicura superiorità nel primo assalto.
A sedici anni Emilio uscì dal collegio più cattivo assai di prima, più invidioso dei beni altrui, più irritato delle proprie condizioni, ma più dissimulatore, e avendo al servizio de' suoi odî e rancori una malizia più raffinata, una malvagità profonda, una volontà più ferma.
VI
A casa, per Emilio, ricominciò una vita uggiosa al pari, se non più, di quella che aveva vissuta prima di entrare in collegio. Il padre, molto invecchiato, non tanto per gli anni, quanto per la vita sempre peggio disordinata, era di umore più intrattabile che mai: la Marianna, vecchia anch'essa, diventata un'enorme massa di carne, più padrona di prima, comandava a bacchetta, faceva colla sua avarizia e col rigore il tormento della servitù, avvicendava le eterne querele e le strapazzate alla cuoca e al domestico, colle periodiche baruffe, di cui impiacevolivano la loro convivenza padrone e governante.
Emilio fu tenuto come uno schiavo, senza mai uno svago, sempre senza un soldo in tasca: vestito così miseramente, che se ne vergognava in mezzo ai compagni di università, dove studiava medicina. Aveva provato a dire le sue ragioni al padre, e questi lo aveva irosamente respinto; aveva supplicato e n'era stato schernito, aveva osato alzar la voce, e benchè adulto, ne aveva ricevuto quelle umilianti correzioni manuali di cui si era tanto abusato verso di lui fanciullo. Scese più basso nella sua degradazione di carattere: si diede ad accarezzare, adulare quella Marianna che in cuore odiava più di tutti al mondo; e qualche cosa ne ottenne: un complice silenzio per un'ora d'assenza dalla casa, una scusa per un tardo ritorno, e qualche liretta di quando in quando datagli di soppiatto del padre. Di questi denari vilmente strappati all'avarizia della governante, egli si serviva in un modo solo; nelle sale di scherma e nei tiri a segno, cui frequentava assai più zelantemente che non le aule universitarie. Non gli dispiacevano tuttavia gli studî intrapresi, e principalmente le esercitazioni anatomiche. Gli era con una specie di voluttà ch'egli col bisturi si metteva a tagliare in un corpo umano, stesogli davanti nella sua rigidità di cadavere, e ne scrutava i visceri e i giuochi meccanici dell'organismo, e le fonti di quella vita che s'era spenta, e le cagioni di quella morte che lo dava insensibile alla sua curiosità inesperta. Con più acre senso di curiosità desiosa assisteva alle operazioni chirurgiche: tagliare nelle carni vive, farne zampillare il sangue, vedere fremere i muscoli, contrarsi le fibre, spasimare tutto l'essere del paziente, era uno spettacolo che lo attirava, lo affascinava.
Nella casa del padrino capitava di rado. Colà non trovava che nuovi motivi da inasprire la sua invidia. Il signor Danzàno era giunto ad età matura, ma godeva di florida salute, procurata dalla savia regolarità della, vita, che gli conservava il buon umore, l'amenità delle maniere e l'affettuosità, di cui era un esemplare inarrivabile sua moglie. Cesare, il primogenito, presso ormai a terminare il corso d'ingegnerìa, erasi fatto giovane, bello, elegante, vivace quanto era stato bambino leggiadro ed amabile, e chiunque rimaneva ammaliato dalle graziette di Matilde, vero bocciuolo di splendida rosa. Cesare era d'umor gajo, espansivo, impressionabile, facile a prendere da altrui idee, tendenze, abitudini, volontà; Matilde, invece, riflessiva, lasciava scorgere nella gentilezza, che mai non la abbandonava, un'anima forte, un criterio sano e robusto. Il figliuolo di Lorenzo nelle sue visite ai Danzàno mostravasi umile, devoto, strisciante, pieno di riconoscenza: il padrino, la moglie di lui e Cesare ci credevano; poco o nulla Matilde, la quale provava una istintiva ripugnanza per la figura, le maniere, le ostentazioni d'umiltà e di devozione del cugino.
Fattosi abilissimo nel maneggio delle armi, Emilio Lograve desiderava ora l'occasione di provare in solenne maniera questa sua abilità: e l'occasione venne. Fra i compagni d'università egli non s'era fatto amare meglio che dai convittori del collegio: onde non gli mancavano nè le dimostrazioni di malevolenza e di disistima, nè gli scherni e le umiliazioni. Emilio decise di pigliare, al primo insulto, tale vendetta che levasse per sempre altrui la voglia di ritentare la prova. Si era nella sala delle esercitazioni anatomiche, e uno di quelli che più l'avevano in uggia, gli fece uno sgarbo; Lograve espresse il suo risentimento con vivaci, oltraggiose parole; ne nacque un diverbio nel quale, trovandosi ben presto soverchiato dall'avversario per robustezza di polmoni e per felicità di ingiurie, il nostro gli gridò:
– Vuoi finirla? o ch'io ti tappo quella boccaccia…
– Ah, sì? esclamò l'altro beffando. Vorrei veder come!
– Così! disse Emilio, e scaraventò in faccia al compagno una grossa spugna che serviva a lavare le tavole di marmo, tutta inzuppata di acqua sanguigna e di marciume.
Lo colpi in pieno viso, sporcandogli di quel sozzo umore occhî, naso, bocca e i panni. Il giovane, mezzo acciecato, mandò una grossa bestemmia, e mentre badava in tutta fretta a ripulirsi sputando, sternutando, purgandosi, gridava con voce soffocata dalla rabbia:
– Ah! porco! ah cane d'un cane!.. Aspetta, aspetta, che ora ti schiaccio come una cimice.
E appena ripulitosi un poco, fece per slanciarsi contro Lograve: questi, freddo freddo, teneva impugnato il coltello anatomico, e gli gridò con l'accento di una risoluzione irremovibile:
– Se tu mi vieni addosso, ti pianto questa lama nel cuore, com'è vero il sole!
Tutti i presenti capirono ch'egli avrebbe fatto quello che diceva: e gettatisi in mezzo, trattennero il furibondo che urlava:
– Ah, mostricciuolo infame, caricatura di scimiotto, me la pagherai, mi darai soddisfazione.
– Quanto e come e dove e quando vorrai, e ti so dir io che avrai finito di fare il gradasso e insultare la gente.
I compagni intromessisi trassero via di là lo sbuffante giovane: e Lograve pensò subito a procurarsi due padrini che lo assistessero nel duello dall'avversario minacciato e da lui desiderato. Uno lo scelse fra i condiscepoli, l'altro volle che fosse il cugino Cesare, al quale piacevagli far conoscere la sua abilità nelle armi, la sua freddezza nel pericolo, la sicurezza della sua vendetta. Ai suoi rappresentanti egli commise di accettare qualunque arma fosse proposta, volle gli promettessero che quando troppo leggiere fossero le condizioni dello scontro dagli avversarî messe innanzi, essi le avrebbero rese più severe, essendo sua ferma intenzione di non fare una ridicola mostra, ma di compiere cosa seria e di gravi conseguenze. Fu scelta la pistola da tiro; la distanza quindici passi; alla sorte chi avrebbe tirato il primo; tanti colpi quanti fosse piaciuto ai combattenti.
La mattina dello scontro, nel recarsi al convegno e là sul terreno, Cesare Danzàno, che non aveva mai preso parte a simili avventure, era assai turbato; turbati pure apparivano gli altri padrini, e turbatissimo l'avversario, giovane allegro, a cui la vita sorrideva, e che trovava doloroso l'arrischiarla così scioccamente per qualche imprudente malignità.
Egli veniva a studiare da un paesello della provincia dove stava aspettandolo una famiglia, che fondava in lui le sue speranze, un padre ormai vecchio, una madre che lo idolatrava; e il pensiero che poteva rimaner morto lì adesso, e non più rivedere la casa natìa, nessuno de' suoi cari, gli stringeva il cuore, gli affannava il respiro, gli faceva tremare i nervi, gli metteva sulle guancie un pallore mortale. Emilio Lograve, colla sua solita carnagione di morticino, non mostrava la menoma alterazione in viso, aveva una mirabile sicurezza di atti, di voce, di parole, ed aveva lui, a sua volta, uno scherno sprezzatore nel sogghigno e nello sguardo. La sorte favorì l'avversario di Emilio col vantaggio di sparare il primo. Posti di fronte i duellanti e dato il segnale, Emilio non sentì neppure il fischio della palla, così passò essa lontana dalle orecchie di lui. Fissando bene in volto l'avversario ed abbassando lentamente la pistola, Lograve disse con accento pieno di sarcasmo:
– Lo schifoso mostricciuolo, caricatura di scimiotto, ha la tua vita nelle mani… e te la regala. Mi contenterò di bucarti il cappello due dita al di sopra della testa.
Sparò, e il cappello del giovane rotolò per terra. I padrini che lo raccattarono, mentre il padrone di esso rimaneva come sbalordito, videro con meraviglia come la palla avesse colpito esattamente al punto che il tiratore aveva detto.
– E ora, disse Emilio con superbo disdegno, se al signore piace, ricominciamo pure.
Tutti d'accordo i padrini determinarono che non si aveva da continuare altrimenti. Emilio fece un lieve cenno di saluto col capo, e s'allontanò fieramente, senza volere stringere la mano all'avversario.
Di quel duello se ne fece un gran discorrere nella università e per tutta la città. Il giovane Lograve fu d'allora temuto, rispettato, non più amato di prima. In casa Danzàno, di quel fatto il padre ne fu assai dispiacente, e ne mosse severe rampogne a Cesare, il quale non nascondeva la sua ammirazione pel cugino; al figlioccio pure egli espresse la sua disapprovazione; ma Emilio con tanta umiltà seppe rispondere che, fatto segno a continui dispregi, aveva resistito e tollerato fino che aveva potuto, lasciando persino offendere la sua dignità personale, ma che, giunte le cose a tal punto che il tacere più oltre sarebbe stato viltà, egli aveva sentito che doveva a sè stesso e a' suoi congiunti medesimi di farsi rispettare, che il padrino finì per dargli ragione. Matilde non partecipava gli entusiasmi del fratello per quel sornione del cugino; ella scuoteva il suo bel capo riccioluto e non trovava che quello di sapere ammazzare freddamente altrui fosse un merito da compensare tutti i difetti fisici e morali ch'essa credeva notare in Emilio. La sorella di Cesare contava allora quindici anni ed erasi fatta ormai una giovinetta più bella ancora e piacente di quanto fosse stata da bambina: era di una mitezza d'animo e di una bontà di cuore davvero straordinarie: non poteva vedere a soffrire nessuno, avrebbe voluto sollevare ogni dolore, cambiare a tutti in gioja il tormento, avesse dovuto assumersi essa quest'ultimo: aborriva necessariamente i prepotenti, i crudeli, i maligni, i superbi.
VII
Emilio contava ventidue anni e aveva preso la laurea in medicina. Frequentava con bastevole diligenza l'ospedale a cui era stato addetto assistente, ma con più assiduità sempre le sale d'armi e i tiri a segno, viveva sceverato da ogni godimento, tenuto a corto com'era dalla malavoglia paterna.
I soccorsi scarsi che con umiliante insistenza egli riusciva a strappare alla Marianna, non bastavano a gran pezza e si rodeva maledettamente nel paragonarsi a' suoi coetanei e sopratutto al cugino Cesare, fattosi uno dei giovani più eleganti, il quale godeva i vantaggi che in società si danno alla ricchezza.
Ah! questa sì era una potenza; questa una forza nel mondo: e quando egli potesse averla, oh come ne avrebbe saputo trarre profitto! Qualche cosa del nonno materno, egli l'aveva intesa: era un avaro, usurajo, e di certo aveva lasciato morendo un vistoso patrimonio. Sapeva pure che il padre aveva giuocato e giuocava, ma non era possibile che avesse consumato sì grossa parte, che ne dovesse rimanere a lui la povertà: dei capitali ci dovevano essere ancora, fra i quali e lui non istava di mezzo che la vita del padre, d'un padre che lo aveva sempre maltrattato, che l'aveva sempre odiato e odiava nè celava il suo odio, e cui egli non amava, come non poteva stimare. Ah! no certo ei non avrebbe mosso un dito perchè quella vita si troncasse, ma se il caso avvenisse!.. Egli pensava senza ripugnanza a siffatto caso: domandava alle cognizioni mediche acquistate di chiarirlo se e quando quel caso potesse avverarsi, e scrutava nella faccia del padre i segni del progresso di un male interno, che in realtà ne minacciava i giorni.
La tumefazione delle guancie, l'impaccio della parola, l'accasciamento della persona, la incertezza del passo, rivelavano una lenta paralisi cerebrale, che poteva di colpo avere una fatale risoluzione.
Lorenzo s'accorgeva di questo affissarlo del figliuolo, per quanto i falsi occhî di lui sfuggissero ratti, appena quelli paterni facessero a incontrarli, e se ne irritava, quasi indovinandone il segreto motivo.
– Che cos'è che mi guardi con quel tuo occhio di serpe? gli gridava incollerito. Hai paura che io stia troppo bene?
Emilio non rispondeva; arrossiva un poco e si allontanava a capo basso.
Pensava:
– Una buona cura dietetica, un cambiamento assoluto di vita, qualche rivulsivo varrebbero ad allontanare il pericolo. Guarirlo, impossibile; ma prolungargli resistenza chi sa per quanti anni, sì… Ma egli non mi crederebbe, nè mi darebbe retta, farebbe peggio… È lui che sel vuole… Ciascuno è padrone della sua vita… Faccia a suo senno.
Una notte Lorenzo Lograve tornò a casa con passo più vacillante del solito, gli occhî pieni di sangue, la lingua grossa, le labbra livide. Secondo il solito, nessuno lo aspettava; giunse nella sua camera inciampando nei mobili, urtando colle spalle nelle pareti e negli stipiti; si spogliò a stento con mano quasi convulsa, strappando quasi i bottoni, lacerando i panni, e quando fece per salire sul letto, ruzzolò e diede un tonfo per terra. Marianna che dormiva nella camera vicina, svegliò Emilio che le venisse in ajuto. Quando ebbero tirato su e coricato in letto il caduto, che rantolava sempre senza dar segno di cognizione, il giovane medico si accorse subito della gravità delle condizioni di suo padre. Un'orgia maggiore e più prolungata, l'emozione del giuoco, fatta più violenta dalla vistosa entità delle perdite, avevano prodotto quell'insulto apoplettico, che il figlio già da tempo aveva preveduto.
La vecchia Marianna si affannava intorno all'infermo, fregandolo, scuotendolo, coprendolo di pannicelli caldi; inumidendogli di acqua e aceto fronte e labbra, lamentandosi, invocando santi e madonne, chiamandolo disperatamente per nome.
– Sor Lorenzo, dica che cosa ha?.. Non mi sente! Non mi vede?.. O Dio buono! Santa Madonna del Carmine, non l'ho mai visto in questo stato!
E, dimenticando, nello spavento di quell'istante, le forme rispettose ch'egli pretendeva da lei in presenza d'altri, anche del figlio, si lasciò scappar detto:
– Rispondimi, Lorenzo… non lasciarmi in tanta inquietudine.
S'accorse in quella della presenza di Emilio e del sogghigno mefistofelico cui gli metteva sulle labbra quella famigliarità della vecchia serva verso suo padre.
– E tu che fai? gli disse con ira: non sei buono che a star lì impalato?.. È pur inutile che tu abbia studiato da medico, se non hai nemmeno appreso a soccorrere tuo padre.
Il giovane la guardò freddamente.
– Nè io, nè altri ha mezzo da soccorrerlo… Non c'è nulla da fare.
– Come, nulla da fare?.. Credi che il male passerà da sè?
– No; credo che non passerà più.
– Non passerà più?.. Vuoi dire?..
– Ch'egli è condannato.
– E lo dici con quella calma!.. Ma gli è che non sai quello che dici… Sei un ignorantaccio con tutto il tuo studio… Io, sì, io so quello che gli farà bene.
E sollecita andò ad un armadio e ne tolse una bottiglia di rum.
– Gli volete dare di quella roba?
– Sì, un bicchierino lo rinvigorirà… L'ho già visto altre volte.
Emilio crollò le spalle e la lasciò fare.
Marianna, riempito a mezzo un bicchierino di quel liquore, sollevò il capo del giacente col braccio sinistro e mettendogli colla mano destra il bicchierino alle labbra, gli disse con tono di incoraggiamento e di preghiera:
– Suvvia, sor Lorenzo, beva questo… Le farà bene… Le ha fatto sempre bene!
E si adoperò a mandargli giù in gola il rum.
Lorenzo diede uno scossone, mandò un grugnito, fece un moto convulso come per respingere da sè qualche cosa che lo soffocasse, e giacque più inerte di prima.
Allora Marianna cominciò a persuaderai che il caso era più serio di quel che avesse creduto.
– Ci vuole un medico… Presto un medico… Giacchè tu vali quanto un ceppo… va almeno in cerca d'un dottore… Ma fa presto!.. Spicciati!.. Santa Madonna!.. E sta lì grullo come se si trattasse di un passerotto e non di suo padre.
Emilio non disse nulla: girò sui tacchi, andò a finire di vestirsi, e uscì con tutta calma. Prima ch'egli fosse di ritorno era passata un'ora, che parve un secolo alla Marianna, e in cui l'infermo, sempre più assopito, cessò a poco a poco di gemicolare rantolando solamente in molto penosa maniera.
Il medico sopraggiunto non potè che ripetere quanto già Emilio aveva detto: che non v'era nulla da far più e soggiunse che a momenti l'infermo sarebbe entrato in agonìa. La Marianna si mise a strillare disperatamente, cacciandosi le mani nei capelli.
Il medico si volse ad Emilio.
– Qualche ora fa si sarebbe dovuto liberargli il ventricolo con un buon vomitivo. Forse avrebbe ancora potuto riaversi.
Emilio chinò gli occhî.
– Sì, certo, disse tranquillamente, è quello che penso ancor io… Ma quando fui chiamato era già troppo tardi.
Tutte le grida e la disperazione della Marianna non valsero a trattenere un minuto di più in questo mondo lo spirito di Lorenzo Lograve: e sul far del giorno, in quel letto, dove avevano coricato l'ebbro giuocatore, non c'era più che un cadavere.
Una sola persona ne accompagnò la bara al cimitero: la vecchia Marianna.
I Danzàno padre e figlio, udita appena la notizia della morte di Lorenzo, erano accorsi presso l'orfano figliuolo, e avevano voluto condurselo con sè, per torlo alla dolorosa vista delle funebri cerimonie. Avevano trovato Emilio immerso in una tacita cupezza quasi distratta che parve loro un profondo accoramento. Nessun argomento, nè preghiera aveva potuto smuoverlo dal proposito di non abbandonare la casa. Nel momento, così terribile, quando si è perduta una persona cara, del trasporto del cadavere, Cesare venne per sollevare colla sua compagnìa all'orbato figliuolo la crudeltà di quell'eterno distacco; ma Emilio avevagli detto, con una risolutezza da sconsigliare ogni replica, che preferiva esser solo, che ne aveva bisogno; e il cugino se n'era andato ammirando quel figliuolo dall'animo così forte, la potenza di un tanto dolore per un padre che sempre lo aveva maltrattato. Emilio, rinchiusosi solo in casa, mentre Marianna, tutta in lagrime, accompagnava sino al cimitero la salma del padrone, prese le chiavi di suo padre ed esaminò accuratamente i forzieri, la scrivanìa, i cassettoni, i mobili tutti della camera del morto, in cui vedevasi ancora disfatto il letto. A mano a mano ch'egli procedeva in questo esame, il suo viso giallognolo prendeva un'espressione sempre crescente di disappunto, di rabbia, da ultimo quasi di furore. Strinse i pugni, minacciò nell'aria qualche persona lontana, bestemmiò; poi a un tratto con passo risoluto andò nella camera di Marianna. L'uscio n'era chiuso a chiave. Emilio stette un momento esitante colla mano sulla gruccia della serratura; pensava se gli convenisse scassinare quella porta. Si risolvette pel no: tornò in camera sua a capo basso, ma colla impronta dei più nequitosi propositi nei contratti lineamenti del viso.
Passarono due giorni, in cui Emilio sfuggì accuratamente la presenza di Marianna; il che gli fu facile, perchè anche la donna da parte sua non aveva una gran voglia di trovarsi con lui. La mattina del terzo giorno dopo i funerali del padre, Emilio con qualche pretesto mandò fuor di casa la persona di servizio e rimase solo nel quartiere con Marianna: dalla soglia della sua camera egli chiamò forte la vecchia, la quale, o non udisse o non volesse udire, non si fece viva. Il giovane ripetè la chiamata con tal voce e una bestemmia che la donna, atterrita, si affrettò a venir fuori.
– Che cosa c'è? domandò con qualche apprensione.
– Venite qui, rispose burbero l'erede di Lorenzo, chè abbiamo da discorrere.
Marianna col passo pesante s'avviò lenta e di mala voglia verso la camera del giovane. Questi la fece entrare, e dietro lei chiuse l'uscio; la qual cosa non piacque di molto alla donna, che guardò inquieta tutt'intorno, come cercando un'altra uscita da potere scappare: ma non ce n'era.
Emilio entrò subito in argomento.
– Ho visitato cassa, scrigno, canterani, scrivanìa e non ho trovato nè carte di valore, nè crediti, nè denari, sì invece delle obbigazioni di debiti, delle note da pagare. Parte dei beni è venduta; i restanti sono gravati da ipoteche… L'eredità paterna, per me, invece della ricchezza, non mi porterebbe che fastidî e penuria.
Marianna fece una faccia compunta, e con voce che voleva parere afflitta e commossa, rispose:
– Ah, caro il mio ragazzo, so troppo bene che tuo padre…
Ma Emilio la interruppe bruscamente.