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Kitabı oku: «La testa della vipera», sayfa 4

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IX

Il fratello di Matilde, che era solito vedere ogni giorno il cugino, e passare con lui gran parte del suo tempo, si stupì quando vide passata una settimana senza ch'egli comparisse in casa Danzàno, nè si lasciasse trovare ai soliti convegni.

I genitori di Matilde, i quali avevano approvato quanto essa aveva detto ad Emilio, e Matilde medesima avevano pensato meglio di tacere quell'incidente a Cesare, cervellino un po' leggiero e dominato dalla volontà più robusta di Lograve, onde, non sapendo a qual causa attribuire quella scomparsa del cugino, fuorchè a una malattìa, Cesare, otto giorni dopo, si recò al quartiere d'Emilio.

Trovò il giovane chiuso nella sua camera, terreo in faccia, collo sguardo spento, cupo, accasciato, rispondendo a mala pena e di cattiva grazia.

– Tu se' stato ammalato, caro Emilio?

– No.

– Che cos'hai dunque? Perchè non ti lasci più vedere? Perchè sei così abbattuto? Ti è capitata qualche disgrazia? A me dovresti dirlo.

Emilio piantò negli occhî di Cesare uno sguardo penetrante per leggergli nell'anima.

– Non ho nulla: rispose bruscamente. Non mi è capitata nessuna disgrazia. Che cosa mi avrebbe ad essere capitato?

– Mah! disse ingenuamente il cugino: io non saprei; però mi pare che non per nulla tu dovresti avere quella ciera da mortorio.

Emilio si persuase che a Cesare non era stato detto nulla della scena avvenuta con Matilde.

– Ebbene, sì, sono malato: riprese, malato di nervi. Ho una melanconìa che mi consuma; lo spleen degli inglesi che mi fa dare al diavolo.

– Eh! bisogna mandar lui al diavolo; bisogna cacciarlo ad ogni costo.

Scuotiti, esci, vedi della gente, cerca svaghi.

Emilio crollò le spalle.

– Gli è trovarne degli svaghi che mi par difficile… Nulla mi diverte.

– Eh via! Tu parli come un uomo esaurito, di cinquant'anni… Vieni stasera in casa X… e vedrai che ne sarai contento. C'è una raccolta sempre più ricca di belle signorine e di stupende signore, un'allegrìa di buon gusto, l'insuperabile gentilezza dei padroni di casa, del thè, dei vini, dei pasticcini e dei sandwiches squisiti. Se tu ci fossi venuto queste sere addietro, non saresti cascato in sì brutta melanconìa: ci siamo divertiti un mezzo mondo. S'è fatto un po' di tutto; mormorazioni, giuochi di società, sciarade in azione, musica, danza, danza sopratutto. C'è venuto un nuovo ballerino, un bel giovane di spirito, simpatico, amenissimo, un certo Nori.

Emilio si riscosse vivamente.

– Ah!

– Lo conosci?

Emilio esitò un momento e poi rispose risoluto:

– Sì… E Matilde è stata lei in casa X… queste sere scorse?

– Sicuro.

– E quel Nori le s'è fatto presentare?

– A Matilde?.. Sì, certo; ed ha ballato quasi sempre con lei.

– Sì, lo conosco quel Nori, soggiunse Emilio con accento di acrimonia, troppo bene lo conosco per dolermi ch'egli venga intorno a tua sorella.

– Come! Non sarebbe un giovane per bene?

– È uno fatto apposta per compromettere la virtù in persona; uno di coloro che si cacciano intorno a una donna, zitella o maritata, e la sanno circuire in modo che, anche non riuscendo a conquistarla, danno al mondo tutte le mostre d'esserci riusciti. È uno sfacciato millantatore, che, a sentirlo, tutte le donne cascano innamorate morte di lui: insomma tale che bisogna ben guardarsi dal lasciarlo penetrare in una famiglia e bazzicare per casa.

– Oh, guarda! esclamò Cesare tutto meravigliato. E dire che m'apparve tutt'altra cosa: e non soltanto a me, ma anche al babbo e alla mamma; allegro, vivace, un buon figliuolo.

– Un volpone… Farai bene a stare in guardia per Matilde.

– Diamine! diamine!.. È un fatto ch'egli le è sempre intorno… Per questa sera hanno già insieme impegnato non so quanti ballabili.

– Questa sera? In casa X…?

– Sì.

– C'è ballo?

– In tutta regola… Come fare a levarlo d'attorno a Matilde?..

Avviserò lei che stia in contegno; ma non basta.

– No, non basta.

– Ci verrai tu?

– Non so… Forse!.. Se sarò di umore meno rabbioso.

– Vieni, vieni: mi ajuterai a tener lontano il Nori.

– Va bene… Ah, senti! Parlando con tua sorella di colui, non dirle che le informazioni le hai avute da me.

– No?.. Perchè?..

– Perchè Matilde mi ha in uggia talmente, che le basterebbe sapere ch'io ho detto nero per veder bianco.

Ma questa cauta raccomandazione doveva sortire poco effetto. Quando Cesare venne ripetendo a Matilde le brutte cose dette da Emilio del Nori, la fanciulla, ficcando il suo limpido sguardo in quello del fratello, e con una vivacità che dimostrava quanto tale argomento l'interessasse, domandò:

– Chi ti ha rivelato tutto codesto?

– Una persona che lo conosce molto bene.

– Il suo nome?..

– Il nome non ci ha che fare.

– Ci ha che far moltissimo; e te lo dico io: è il nome di Emilio Lograve.

– Che che!.. nemmeno per sogno.

– È inutile il negare; già a me stessa Emilio ha tentato di mettere quel giovane in mala vista: e so che tu da Emilio ti lasci facilmente imbeccare.

– Mi lascio i fichi secchi! gridò Cesare stizzito. E da qualunque io abbia ricevuto quelle informazioni, è mio dovere e saprò ben io levarti quel moscone d'attorno.

– Tu avrai la compiacenza di non far nulla! proseguì con forza Matilde. Oltre il babbo e la mamma non ho bisogno d'altri vigilatori e custodi.

Quella sera, entrando nel salone di casa X… la prima cosa che vide Emilio fu la cugina e Alberto Nori che ballavano un valzer animatissimo, con aspetto evidentissimo di reciproca soddisfazione.

Egli s'accostò a Cesare, che era poco lontano.

– Bravo! gli disse con un sogghigno. Hai saputo bene tener lontano il Nori da Matilde.

– Che vuoi? Matilde era impegnata… io non ho voluto fare scandali.

– Hai ragione, hai ragione! disse Emilio, il cui labbro scolorato si assottigliava sotto l'impressione dell'ira repressa.

Il valzer era finito. Emilio traendosi seco Cesare venne ad appostarsi a pochi passi dal Nori che stava discorrendo con Matilde e colla madre di lei. Si mise a parlare vivamente col cugino, dando a quel suo satanico sogghigno la più maligna espressione e fissando instintivamente uno sguardo maligno del pari su Alberto Nori: questi sentì quello sguardo pesare su di sè; si volse, vide i due e capì che parlavano di lui; se ne avesse dubitato, ne lo avrebbe chiarito il suo nome che udì pronunciato da Lograve. Turbato, offeso da quel contegno, Alberto si congedò dalle signore Danzàno e venne accostandosi ai due giovani. Emilio lo lasciò venire fino alla distanza di due passi, e poi, quando già l'altro cominciava un saluto, girò sui tacchi e s'allontanò guardando in aria.

– Lograve! chiamò vibratamente Alberto che sentì il sangue salirgli alla faccia; ma Emilio non se ne diede per inteso, e continuò ad allontanarsi. Non fece un movimento per corrergli dietro, ma si trattenne e si volse a Cesare.

– Che cos'ha meco Lograve?

– Ma! che ne so io? rispose freddo freddo il fratello di Matilde.

– Sì, che lo deve sapere: ribattè con qualche risentimento Alberto, perchè dianzi Lograve le parlava di me… Oh! l'ho ben visto… Che cosa le diceva? Ho pure il diritto di saperlo.

– Io non so se lei abbia questo diritto: ma so bene che io non ho il dovere di parlarne… e non dirò nulla.

– Ha ragione… Andrò a domandarlo a Lograve medesimo: e spero bene che non avrà sempre il coraggio di sfuggire, come ha fatto adesso.

Si mise subito in cerca d'Emilio. I due rivali s'incontrarono in un salottino appartato dove, mentre si danzava nel salone, rimasero soli.

– Tu hai parlato di me testè col signor Danzàno?

– Può darsi.

– E ne hai parlato in modo che quel giovane, il quale m'aveva sempre trattato con molta cortesìa, ha cambiato meco aspetto e contegno.

– Credi?

La calma beffarda di Emilio accrebbe lo sdegno del Nori.

– Ho diritto di sapere che cosa hai detto di me!

– E io non ho nessun obbligo di dirtelo.

– Ti obbligherò io a parlare, disse fremendo Alberto al quale facevano bollire il sangue la faccia canzonatoria, lo sguardo provocatore e l'accento insolente di Emilio.

E questi, con un ghigno ancora più insultante:

– Obbligarmi?.. Cospetto!.. Vediamo un poco! Eri un prepotentone in collegio e sei sempre tale e quale; ma allora avevi da fare con ragazzi.

– E ora ho da fare con un vigliacco.

Emilio s'allontanò d'un passo e disse lentamente, con voce sommessa, quasi soffocata, sibilante:

– Badate, signor Nori, che questo è un sanguinoso, gratuito oltraggio.

– È quello che vi meritate. Vile chi sparla di una persona dietro le spalle e si rifiuta di ripeterle in faccia le sue accuse.

– Ho capito! disse Emilio, accrescendo ancora l'insolenza del suo accento sarcastico. Questa è, come dicono i francesi, una mauvaise querelle che voi volete avere con me: ma io non mi lascierò trascinare a vostro talento, e per evitare il pericolo che alla fine il sangue freddo mi abbandoni, me ne vado.

E si mosse per partire.

Alberto lo trattenne, stringendogli vigorosamente il braccio.

– No, non partirete prima d'avermi dato soddisfazione.

– Signore! gridò vivamente Emilio, liberando con violenza il suo braccio, osate mettermi le mani addosso!.. È troppo!.. La soddisfazione che cercate sono pronto a darvela, ma non qui, non con parole, se voi avrete il coraggio di domandarmela.

– Sì, ve la domando.

– Badate bene!.. Sarete voi che l'avrete voluto. Io sono ancora disposto a darvi passata, purchè mi lasciate tranquillo e dimostriate, non fosse che con una parola, rincrescimento di quanto mi avete detto e fatto…

– O impudente vigliacco!..

– Basta, signore!.. Non più insulti. Sarà come volete. Aspetto i vostri padrini, e di tutte le conseguenze avrete da dire mea culpa.

E ratto, senza che l'altro avesse più tempo a trattenerlo, Emilio s'allontanò e sparì dal ballo.

Alberto, quando tornò in sala, aveva tuttora in viso un poco di quell'espressione di sdegno che la scena con Lograve gli aveva eccitato, e Matilde se ne accorse.

– Con chi l'ha, signor Nori? gli disse mezzo scherzosa, mezzo sul serio, esaminandolo bene con que' suoi occhî lucenti come diamanti sotto un raggio di sole. Qualcheduno l'ha fatta inquietare?

Il giovane rispianò subito la fronte, e seppe trovare un sorriso affatto di buon umore.

– Punto, punto, rispose; cioè sì, l'ho con un certo nojoso, che per discorrermi d'alcune sue bazzecole, m'ha fatto perdere una polka.

– Quel nojoso, se non isbaglio, è stato mio cugino.

– No, signorina.

– Mi è sembrato vederla parlare con lui e con mio fratello.

– Sì, poche parole… È stato un altro a trattenermi.

Matilde sentì rinforzarsi il concepito sospetto, cercò di Emilio, e l'improvvisa di lui partenza l'inquietò maggiormente. Poco dopo anche Alberto se n'andò. Matilde interrogò vivamente il fratello. Questi negò bensì che fra Emilio e il Nori vi fosse stata contesa, ma la sua negazione parve debole e poco persuasiva alla ragazza.

Il domattina, Cesare, ricevuto un biglietto di Emilio che lo pregava di venire subito da lui, stava per recarsi alla chiamata, quando Matilde lo sorprese colla mano sulla serratura dell'uscio di casa.

– Dove vai così di buon'ora e così sollecito?

Cesare, che non era abbastanza accorto per vedere il motivo di tacere il vero, disse d'essere stato chiamato da Emilio.

Matilde se ne turbò.

– Ah! io l'avevo indovinato fin da jeri sera. Quel tristo d'Emilio vuoi battersi col signor Nori.

Cesare disse quanto meglio seppe a persuadere la sorella che ciò non era possibile, ma ogni sua parola rimase inutile.

– Senti, Cesare, disse Matilde con forza. Tu hai da impedire codesto duello ad ogni costo… ad ogni costo, capisci… Ne faccio te responsabile… Va, e torna presto a rassicurarmi.

– Cesare, disse Emilio al fratello di Matilde, appena l'ebbe veduto entrare, quel bellimbusto del Nori mi ha sfidato, e ci battiamo questa stessa mattina.

– Possibile! esclamò Cesare tutto turbato. Ah! Matilde ha visto giusto.

– Ah ah! Che cosa t'ha detto tua sorella?

– Che si trattava di questo duello, e ch'io dovevo a ogni costo impedirlo.

– Sì, proprio? esclamò col suo malvagio sogghigno Emilio. Convien dunque dire che Matilde s'interessa vivamente, troppo vivamente, per quel signore… Oh! me ne rincresce, perchè il duello oramai non v'è modo d'evitarlo.

– Oh sì che ci sarà, disse con calore il buon Cesare; ci dev'essere. Sento anch'io essere mio dovere d'impedirlo, questo duello… Tu ne hai già avuti troppi, nessuno più di te può rinunziare ad uno scontro senza scapitarne… Di questo duello poi non c'è una soda ragione.

Emilio l'interruppe bruscamente.

– La ragione c'è, e la so ben io… Non impacciartene dell'altro tu, che per quello ch'io ti domando… Vorresti farmi da Mentore? Questo duello ti dico io che è inevitabile… È stato lui, Alberto, quello che l'ha voluto… Io ho fatto di tutto per esimermene; sono stato rimessivo fin troppo; Nori ha persistito; mi ha mandato a sfidare, stamattina son venuti i suoi padrini e fra un quarto d'ora torneranno per intendersi definitivamente coi miei, dei quali tu sarai uno e B. l'altro. Siamo già d'accordo che si finirà tutto di questa mattina medesima. Posso io dare addietro? Mai più! Lo può egli, provocatore, sfidatore ostinato, senza coprirsi di vergogna? Nemmen per ombra. Dunque? E avresti cuore tu di abbandonarmi, di lasciarmi negli impicci?.. Hanno suonato. È certo l'altro mio padrino. Conto su voi due. Saprete fare le mie parti a dovere.

Cesare, dominato dall'accento e dallo sguardo di Emilio, non osò più contraddire, non osò più rifiutarsi.

Secondo le istruzioni date dallo sfidato ai suoi padrini, fu convenuto che il duello avrebbe luogo fra due ore, alla pistola, dietro il campo santo, i due avversarî alla distanza di venti passi, facendo fuoco nello stesso tempo.

Quando i due avversarî si trovarono a fronte, Cesare non potè a meno di essere colpito dalla differenza dei loro aspetti. Alberto Nori, un po' pallido, ma franco e sorridente, guardava dritto innanzi a sè cogli occhî levati; Emilio Lograve teneva un po' chino il capo e di sotto la fronte lo sguardo velenoso guizzava a scatti sull'avversario mentre sulle labbra gli si disegnava il sogghigno diabolico di un malvagio che vuole compiere un maleficio e sa di riuscirvi. Il fratello di Matilde fu assalito da una specie di rimorso; nel consegnare l'arma ad Emilio, gli disse piano, ma con calda espressione di preghiera:

– Tu lo risparmierai, non è vero?

L'altro sogghignò a suo modo.

– Vedrai come!.. Lo colpirò al terzo bottone del soprabito.

Cesare volle insistere.

– Va, va al tuo posto, e non seccarmi.

Al cenno, i due colpi risuonarono insieme. Emilio stette fermo, immobile, senza batter ciglio. Alberto portò la mano sinistra al petto ed esclamò:

– Son ferito!

Si scosse come per fare un passo, vacillò, e perdendo di subito le forze, lasciò cader l'arma che impugnava colla, destra, si accasciò e si distese lungo per terra.

I quattro testimonî e il medico si precipitarono presso di lui; il terzo bottone del soprabito a doppio petto era rotto e lì vicino un bucherello lasciava uscire una goccia di sangue. Il ferito girò intorno uno sguardo incerto, volle parlare, una lieve schiuma sanguigna gli venne agli angoli della bocca, e svenne.

Emilio, senza muoversi dal suo posto, aveva incrociato le braccia e stava aspettando.

Il medico aprì sollecito i panni del caduto, ne stracciò la camicia, osservò la piaga, ne tastò coi suoi ferri la profondità, cercò la palla, non la trovò, e volgendosi ai presenti, disse con malauguroso scuoter del capo:

– La ferita è gravissima.

Mentre il medico faceva una fasciatura provvisoria, Cesare s'accostò ad Emilio, e questi senza lasciarlo parlare gli disse subito:

– Hai visto? Al terzo bottone.

Cesare sentì uno sdegno, un orrore indicibile per quel cinico omicida.

– Tu l'hai assassinato, gli rispose con labbro fremente. Ora, che vuoi tu ancora far qui? Vattene.

Emilio scosse la spalla sogghignando, gettò in terra la pistola che teneva ancora in mano e si allontanò lentamente.

Cesare rientrò in casa con aspetto così turbato, che i genitori e la sorella subito s'accorsero che qualche cosa di grave gli era intravvenuto; e siccome era impossibile nascondere la verità, egli narrò con ogni particolare l'avvenimento di quella mattina. Amarissimi rimproveri glie ne fece Matilde, severissimi il padre e la madre.

Il signor Danzàno scrisse al figlioccio tali rampogne che gli levarono affatto la volontà di presentarsi nella casa del padrino a sentirsele ripetere in faccia.

Per tutta la città l'interessamento fu vivo pel ferito, rigorosa la disapprovazione pel feritore.

Il fisco, trattandosi di un duello che fece tanto rumore, e di cui la conseguenza era la vicina, temuta, pur troppo inevitabile morte di un uomo, si trovò in debito di procedere con qualche premura.

Emilio, per togliersi alle seccature del processo e alla indignazione della cittadinanza, di cui in quei primi giorni sentiva gravarsi addosso il molesto peso, dato sesto ai suoi affari, provvistosi d'una buona somma, senza dare un saluto a chicchessia, fuggì all'estero, coll'animo di non rimpatriar più che a cose quiete e protetto dall'oblìo che nella vita sociale, coll'ajuto del tempo, seppellisce ogni cosa.

X

Alberto Nori stette parecchî giorni tra la vita e la morte; ma per fortuna quel benedetto bottone, preso di mira, aveva fatto deviare un pochino il projettile, e il cuore era stato salvo. Il pericolo di una emorragìa interna venne scongiurato; e dopo una settimana, i medici credettero potere affermare, che se non sopravvenivano complicazioni, il malato sarebbe guarito.

Se in tutta la cittadinanza grandi furono lo interessamento pel Nori e la indignazione pel Lograve, grandissimi essi furono nella famiglia Danzàno, e in Cesare medesimo, e più di tutti in Matilde. Le pareva che su lei pesasse un po' di colpa, che avendo essa scoperto il pericolo avrebbe dovuto fare di più per iscongiurarlo; se la prese col fratello, che non era stato capace d'impedire lo scontro, e non gli perdonò che quando vide con quali amorose cure egli si facesse ad assistere il ferito. Con ansia essa ne aspettava da Cesare le notizie, e come si era vivamente afflitta alle tristi, provò e manifestò una vera gioja al sopraggiungere delle buone. A un punto si stupì essa medesima di tanto interessamento che per la persona più cara non avrebbe potuto avere maggiore: ne interrogò tra sè e sè il suo cuore, e la risposta che n'ebbe le fece salire un'ondata di sangue alla faccia.

Fra Cesare Danzàno ed Alberto Nori, durante la malattia di quest'ultimo, venne stabilendosi una amicizia, una intimità, che non avrebbe potuto essere maggiore dopo anni ed anni di convivenza.

Guarito, Alberto frequentò la casa del nuovo amico, e vi mostrò carattere così aperto e buono, costumi così onesti e sentimenti tanto lodevoli, da ottenere la stima e l'affetto di tutti.

E quindi, allorchè, sei mesi dopo il fatal duello, Alberto Nori venne a chiedere ufficialmente la mano di Matilde ai genitori di lei, fu unanime il parere di tutti, di premurosamente acconsentire. Il matrimonio, che ebbe luogo al chiudersi dell'anno, ottenne l'approvazione e l'invidia di tutti, come quello che per le condizioni reciproche di età, di fortune, di carattere dei conjugi prometteva di riuscire il più felice che sia possibile.

E mantenne la promessa. Gli sposi furono felicissimi e lo meritarono. Matilde e Alberto potevano dirsi davvero fatti l'uno per l'altra; la dolcezza di lui temperò ancora meglio la primitiva petulanza di lei che gli anni avevano pure già scemato; l'amore, la fioritura della giovinezza, la soddisfazione del cuore, diedero alla beltà di Matilde nuovo pregio, nuovo incanto, nuovo splendore.

Come se la fortuna volesse favorire con ogni sua grazia quella giovane coppia amorosa, un anno dalle nozze non era ancora trascorso, che Matilde si vedeva appeso al seno e dondolava fra le sue braccia un amorino di bimbo così bello che Alberto voleva fosse tutto tutto il ritratto della mammina, e Matilde affermava ch'era una copia fedele in miniatura del babbo.

La loro felicità sarebbe stata troppa dove non fosse venuto a colpirli qualche dolore, e questo venne alla morte della madre di Matilde. Se per questa il colpo fu crudele, fu crudelissimo per il signor Danzàno, il quale, dopo tanti anni di convivenza sempre in pace e accordo, adorato da quella donna, ora a lui rapita, che lo sapeva circondare d'ogni cura e d'ogni affetto, sentì proprio mancarsi metà dell'esistenza, metà della ragione di vivere.

La sua casa divenne muta e deserta: Cesare, giovane vivente la vita elegante di società, non poteva e non sapeva dargli conforto; il povero vedovo in ogni stanza del quartiere trovava argomenti di ricordi che incrudivano sempre il suo dolore: egli non aveva sollievo, non provava consolazione che recandosi in casa della figlia, dove le parole e la presenza stessa di Matilde, le carezze dei nipotini (che ora erano in numero di tre, due maschietti e una femmina) gli facevano, non dimenticare, ma sentir meno la sua disgrazia. Valevano a ciò sopratutto le moìne, la figurina, i baci della bambina, alla quale era stato posto il nome della nonna, e in cui il vedovo a sua volta, s'ostinava a vedere il ritratto parlante della perduta donna. Un giorno, Alberto, andato in casa dello suocero, lo trovò così abbattuto che ne ebbe paura.

– Se quest'uomo continua a starsene qui solo, è bello e spacciato, pensò; e rientrato a casa, trasse in disparte sua moglie e le disse:

– M'è nata in capo un'idea, che spero approverai. Tuo padre ha bisogno di compagnìa e di cure: o perchè non verrebbe egli a viver qui con noi, ad ajutarci a tirar su que' birichini dei nostri figli?

Matilde gettò le braccia al collo del marito.

– Oh grazie! gli disse baciandolo appassionatamente. Tu sei il miglior uomo del mondo.

Fecero così una famiglia sola; e il vecchio Danzàno si riprese alla vita. Cesare medesimo ne fu soddisfattissimo, perchè in verità egli voleva pure un gran bene alla sorella, e ai nipoti, e al cognato stesso, ed era lieto di vedere suo padre contento, mentre egli ne diveniva ancora più libero del suo tempo e della sua volontà, di guisa che per quella brava e buona famiglia tutto camminava prosperamente, allorchè, dopo cinque anni d'assenza, fece ritorno in patria Emilio Lograve.

Questi, fuggendo, portava seco la quasi certezza che Alberto Nori sarebbe morto della sua ferita; ne aveva aspettato impaziente le nuove ulteriori, e siccome nessuno glie ne aveva scritto, s'era rivolto replicate volte per lettera a Cesare, affine d'essere informato non solo della sorte d'Alberto, ma delle cose della famiglia Danzàno. Ma Cesare non gli aveva mai risposto, e la prima notizia ch'egli ebbe, fu la partecipazione a stampa del matrimonio seguito fra il signor Alberto Nori e la signorina Danzàno.

Emilio fu assalito da un vero accesso di furore; fantasticò ogni fatta di propositi violenti a vendicarsi.

Il pensiero di Matilde in braccio ad un altro gli era un supplizio che l'angosciava giorno e notte. E quell'altro così felice era quel Nori, per cui fin da ragazzo egli aveva avuto un odio, un rancore speciale! Stette a un pelo di pentirsene e precipitare in patria per costringere Alberto a un nuovo duello da cui non lo avrebbe più lasciato uscir vivo di certo. Ma se ne trattenne comprendendo che siffatto scontro sarebbe stato sicuramente impedito. Calmato il primo furore, un'altra vendetta che giudicò più cara, più degna e più compiuta, venne a sorridere al suo tristo talento.

– Egli l'ha sposata, pensò, ha vinto la prima partita, ma non può darsi una rivincita?.. togliergliela, strappargliela… averla, ora che è sua, ferirlo nell'amore insieme e nell'onore!.. Impossibile?.. E perchè?.. Matilde è onestissima e mi odia… Ah! l'onestà delle donne, anche la più pura, può transigere sotto l'impero d'una necessità: anche l'odio la necessità fa superare… Crearla questa necessità, farla incombere minacciosa, imminente, inesorabile… Con arte, con pazienza… e il mio cervello d'artificî non ha penuria, e di pazienza il mio odio ne saprà avere. Chi sa?

Continuò i suoi viaggi. Visitò la Francia: visse la vita chiassosa di Parigi: e in quel bailame dove si cola, s'agita e ribolle «la gran fiumana di tutti i vizî d'Europa e d'America» non ebbero a farsi migliori il suo cuore, l'anima, l'indole. Passò in Inghilterra, e ciò da cui più venne colpito furono l'egoismo, la crudezza della lotta degl'interessi, il disprezzo pei deboli che contraddistinguono quella razza di forti; in Germania vide il trionfo della forza: a Berlino e Vienna incontrò le stesse passioni, gli stessi difetti e vizî e ingiustizie, onde la sua primitiva disistima degli uomini e delle donne, il suo scetticismo, il suo rancore contro chi godeva gioje a lui contese, la sua rabbia di soddisfare le sue brame si accrebbero, nè migliorarono i suoi costumi e il suo carattere. Dopo cinque anni, intravvenuta un'amnistia pei reati di duello, Emilio Lograve tornava in patria, ancora più tristo, più invidioso, maligno, ma esteriormente cambiato affatto, grazie alla maschera e alla veste d'agnello ch'egli aveva creduto utile imporsi e aveva saputo vestirsi.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
150 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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