Kitabı oku: «Tre racconti», sayfa 4
VIII
Il principale era stanco del viaggio, preoccupato dal pensiero dell'esito della grossa, importantissima fondita che stava per essere gittata; oltre ciò, venuto colla speranza di vedere la moglie felicemente sorpresa e tutta lieta del suo anticipato arrivo, la trovò invece turbata di sì strana maniera, senza ch'ella ne volesse dire la cagione, che al suo primitivo buon umore era successa una stizza latente, la quale non cercava se non un'occasione per venir fuori e sfogarsi. Fu aspro con tutti, trovò che il combustibile non era stato abbastanza sollecitamente scaricato e riposto, gli parve che il fuoco nelle fornaci languisse; ebbe un rimprovero per ognuno, e, più che cogli altri, fu acerbo e severo con Atanasio.
– Sa tutto! – diceva fra sè quest'ultimo. – Or ora scoppierà la bomba: – ed accarezzava nella tasca il manico d'un coltello. – Meglio! Sono stanco di soffrire. La finirà una volta per tutte.
Pietro alzò la voce con accento imperioso.
“Avete udito tutti?” Disse dopo di avere ricapitolato le sue istruzioni. “Domani alle sei al posto… e guai chi manca!”
A quell'ora si sarebbero aperti i forni.
“A vegliare stanotte,” soggiunse, “rimarranno…” parve esitare un momento, e poi terminò la frase: “Atanasio e Girolamo.”
Erano il primo e l'ultimo degli operai. Atanasio saltò fuori dalle file.
“Non ha nulla da dirmi signor Pietro?” gridò egli con voce alta e sonora.
C'era tanta sfida nell'accento di quelle parole che Pietro si volse con aria di profondo risentimento.
“Vi parlerò domattina:” rispose asciutto ed imperioso. “Ora fate quello che vi dico.”
Se n'andò il principale, partirono gli operai, rimasero soli nelle officine Atanasio e quell'altro che doveva essergli compagno. Il primo di questi due scoppiò in una risata, proprio da pazzo.
– Ah, ah il vile! – esclamò, parlando a sè stesso. – Vuole prorogare fino a domani la tragedia… Vuole avere ancora questa notte per sè… Questa notte?.. Giuro al cielo e all'inferno!.. —
I forni incandescenti mandavano un calore veramente infernale, e quell'altro, facendolo notare ad Atanasio, propose di allontanarsi un poco.
“Eh via! tu senti caldo!” rispose il forsennato. “Minchione! to'! bevi: questo ti rinfrescherà.”
E porse al compagno la bottiglia del cognac, che l'altro non si fece pregare di molto per mettere alla bocca.
“Bisogna anzi aggiungere ancora del carbone:” gridava Antonio. “Animo! Mano alla pala, e giù combustibile.”
E congiungendo l'atto alle parole, cacciò a palate monti di carbone sul fuoco.
Due ore dopo batteva la mezzanotte al campanile del villaggio: tutto era silenzio come in un cimitero, non si udiva che il crepitare del fuoco e il ribollire del metallo in fusione. Girolamo, finita la bottiglia del cognac, si era addormentato in un cantuccio sopra uno stramazzo. Atanasio, accoccolato in faccia allo spiraglio ardente della fornace, le mani sulle ginocchia e la faccia nelle mani, pensava.
– Aspettare fino a domattina!.. Perchè?.. E poi che avverrà egli?.. Mi scaccerà… Forse mi vorrà umiliare in presenza di tutti… Oh no per Dio!.. Non lo vo' tollerare… È meglio finirla… Finirla subito, e tutti! Sì, tutti! Lasciarli dietro di me a godersi il loro amore? No: per la maledizione di Dio!.. Un poco d'acqua in quel metallo in fusione, e si salta tutti in aria, la fonderia, la casa, tutti!.. Oh sì, che bello spettacolo! —
Rise e si alzò con impeto, per mettere in esecuzione quell'orribile progetto. Ma nel migliore ebbe paura. Aveva già in mano una secchia per gettarla e si trattenne. Come se avesse avuto sentore del pericolo, Girolamo in quella si svegliò.
“Che fai tu costì?” gli disse.
“Nulla,” rispose Atanasio: “Ho una sete che mi strugge le fauci, e pensavo di andare per un po' d'acqua fresca… Appunto, fammi il piacere, vacci tu.”
Girolamo si scosse come un can bagnato, prese la secchia ed uscì.
Atanasio, senza aver bene coscienza di sè stesso, saltò contro uno de' forni, il più grande, e con una gran mazza di ferro percosse nell'usciolo che ne otturava l'uscita. Un zampillo di fuoco sprizzò fuori lanciando scintille da tutte le parti. L'operaio ebbe appena il tempo di gettarsi in là, le bocche delle forme non erano ancora aperte e il rivolo di fuoco, come la lava d'un vulcano, precipitava rapido e stendevasi al suolo empiendo tutto di fumo, crepitando, fremendo, rombando. Atanasio spaventato volle gettarsi a tentar di tappare di nuovo quella uscita. Era impresa oramai sovrumana, impossibile: il fiotto impetuoso del liquido incandescente s'era aperto un largo passaggio e non era più un zampillo, ma un vero fiume ribollente, impetuoso, che si riversava per terra. Atanasio, assalito da alto terrore, gettò un grido spaventoso d'allarme e fuggì smarrito.
Incontrò sulla soglia Girolamo che veniva correndo, spaventato ancor egli da quel grido, che aveva udito risuonare per la notte.
“Che cos'è?”
“Scappa, scappa… Il metallo ha rotto la fornace e si riversa tutto…”
Le imposte delle porte e delle finestre della fonderia, i correnti e i travi del tetto, tutto ciò che si aveva di legno là dentro, le pareti stesse divampavano, fiammavano, e il tremendo fiotto di fuoco già si precipitava di fuori nel cortile.
Delle due ale del fabbricato, quella a sinistra conteneva i magazzini del combustibile, e lì presso subito, immediatamente confinante il quartiere abitato da Pietro, da sua moglie, dal bambino. La bollente lava di metallo fuso, come se fosse guidata dall'odio di chi le aveva dato l'aíre, si diresse a volute sempre più crescenti verso quella parte.
Girolamo si cacciò a fuggire, urlando come un dannato; Atanasio corse qual dovette correre Caino, dopo il primo assassinio commesso nel mondo.
Si fermò dopo dieci minuti sopra un'altura. Quale orrendo spettacolo! La fonderia era tutta una fiamma, il magazzino di combustibili ardeva come un mucchio di fascine, le fiamme lambivano colla loro lingua di fuoco la casa dove abitavano i Frangia, e del quartiere dove stavano Pietro, Lucietta e il bambino, già ardevano le persiane e i telai delle invetriate.
In mezzo a tutto quel chiarore, si vedevano come macchie scure correre affaccendati alcuni uomini; dal villaggio venivano pur correndo gli abitanti, svegliati dalle grida di Girolamo prima, degli altri operai poscia, e affrettati per ultimo dai rintocchi della campana suonata a martello; fino al luogo dove s'era fermato Atanasio, si udiva arrivare un rumore confuso che era il suono assembrato di grida, di esclamazioni, di preghiere, di bestemmie, di pianti di tanti uomini e di tante donne disperati, spaventati.
Atanasio stette un mezzo minuto a contemplare quello spettacolo, i denti stretti, le braccia serrate al petto, un mezzo minuto che gli parve un'ora; parevagli sentir nel volto il calore di quelle fiamme a cuocergli le carni. A un tratto sentì un fruscio fra le piante, e un essere animato giunse correndo presso di lui e gli saltò alle gambe guaendo, mugolando, vociando in ogni suo modo. Era Azor fuggito di casa, chi sa come, cui l'istinto aveva condotto sin là tra le gambe del suo padrone. Questi si chinò verso la povera bestia ad accarezzarla. Il cane lo addentava pei panni e pareva volerlo tirare.
– Dove mi vuoi tu condurre? – diceva lo sciagurato, resistendo. – Laggiù? là in quell'inferno? Che cosa vuoi ch'io vada a fare?.. Là si compie ora la mia vendetta… All'uno tutto, e all'altro nulla! Ricchezze, agi, gioie, famiglia, e l'amore di lei! Tutto per lui!.. Ed io niente!.. D'ora in poi non avrà più nulla neanch'egli, nè sostanze, nè moglie, nè bambino… —
L'idea del bambino lo scosse.
– Ah! quell'innocente!.. E lei!.. lei!.. Morire così crudelmente!.. —
Azor, come se vedesse che la pietà stava per entrare nell'animo del padrone, raddoppiava il suo mugolìo.
– E lei che ti ha dato a me… La vuoi salva?.. Hai più cuore di questo miserabile. —
Prese la corsa verso l'incendio, e il cane dietro di galoppo.
Quando giunse, il fuoco già consumava il tetto dell'ala abitata da Lucietta; dalla finestra proprio della stanza di lei cominciavano ad uscir fumo e faville. Atanasio vide la donna con in braccio il suo bambino, che urlava con voce da straziare l'animo di qualunque.
Pietro, svegliato in sussulto alle grida di Girolamo, non aveva avuto tempo che di dire alla moglie: – Salvati col bambino, – ed era corso dove allora più premeva il pericolo. La donna, resa incapace di muoversi dallo spavento, si era lasciata sopraggiungere dall'incendio.
Un uomo accorreva con una lunga scala: dietro di lui, ansante, Pietro che in mezzo all'infernale tumulto, aveva pure udito il grido della madre di suo figlio. La scala fu appoggiata al muro; in quella un vortice di fiamme avvolse la misera donna col bambino alla finestra. S'udirono come un grido d'agonia suprema le parole: – Mio figlio! – e la madre e il piccino sparirono come inabissati.
Pietro, forsennato, fece per islanciarsi sulla scala: una mano di ferro lo fermò.
– Indietro! – gli gridò una voce che egli non riconobbe. – Tocca a me. —
E Atanasio, lesto come uno scoiattolo, si arrampicò su pei piuoli, e in un attimo fu alla finestra e si precipitò dentro.
Azor, postato innanzi a quella finestra, accompagnava il suo padrone cogli abbaiamenti, come se lo volesse incoraggiare.
Atanasio, avvolto nel fumo che turbinava, non vide nulla, ma inciampò in un corpo disteso per terra; si chinò, sentì che la era una donna, l'afferrò e stringendola fra le braccia, scavallò di nuovo il parapetto e incominciò a discendere con essa.
Lucietta era caduta in uno svenimento cagionatole dal terrore, ma le fiamme non l'avevano ancora toccata. Però l'incendio pareva che non volesse lasciarsi rapire la sua preda. Atanasio, con precauzione, cercava col piede il piuolo su cui posare, quando un'ondata di fuoco si scatenò addosso a lui, lo avviluppò, ne pose in fiamme la capigliatura e lo svolazzo della tunica sulla schiena. Egli col suo fardello fra le braccia vacillò: un alto grido d'orrore eruppe dai petti di tutti gli astanti, che tremavano e palpitavano. Pure il robusto uomo non fu vinto, con una mano aveva già afferrato il capo della scala, vi si mantenne e fra mezzo alle fiamme continuò a scendere.
Giunse in terra; tutti gli furono attorno ed aiutarlo, a sorreggerlo che barcollava come ebbro. Pietro gli tolse dalle braccia Lucietta sempre svenuta. Ma subito un'idea orribile gli venne.
– E mio figlio?! —
La madre, a queste parole del marito, gridate con accento di disperazione, risensò.
– Mio figlio! mio figlio! – ripetè. – Oh! salvatemelo, per amor di Dio! —
La infelice, nello svenire, l'aveva lasciato cadere…
Vide in quella Atanasio che si premeva la fronte e le occhiaie dove sentiva un orribile dolore.
“Voi, voi qui, Atanasio!” disse, puntando il dito contro di lui. “Voi dovete salvarlo.”
Atanasio fremette a quell'accento, a quelle parole; tese le braccia innanzi a sè, brancolando come per cercar la scala, volle camminare ed inciampò; mandò un urlo da bestia selvaggia.
“Sono cieco!” gridò stramazzando al suolo come corpo morto.
Fu portato all'ospedale, insieme coi parecchi feriti di quel disastroso incendio. Le gravi scottature che aveva riportato posero in pericolo la sua vita, ma pur guarì tuttavia; i suoi occhi però furono irremissibilmente perduti.
Durante la lunga malattia, egli non chiese mai novella nè di Lucietta, nè di Pietro, nè della fonderia. Guarito, seppe che questa e la casa erano rimaste un cumulo di rovine; che Pietro, per cercare di alleviare il dolore della moglie che aveva minacciato divenirne pazza, l'aveva condotta a fare un lungo viaggio lontano, lontano; che prima di partire il padrone aveva lasciata una buona somma per lui.
Atanasio volle che questa somma fosse data ai poveri del villaggio; e senza un soldo, uscito dallo spedale, prese la prima strada che gli si parò dinanzi, per andare tanto lontano, che di lui in quel paese non si sapesse mai più novella.
Fatto poco cammino, udì un guaiolare festoso e le piote d'un cane si appoggiarono alle sue coscie: era Azor. Come aveva egli vissuto sino allora? chi può saperlo?
– Sei qui tu? – esclamò Atanasio commosso. – Il solo amico, il solo bene che mi resti… Vuoi seguirmi nell'esilio? Vuoi essere la guida del povero cieco?.. Vieni. —
Come capitasse nel villaggio in cui l'ho conosciuto, questo sciagurato non sapeva dire.
Quando il cieco morì, fu sotterrato in un cantuccio del cimitero, senza una croce, senza un segno qualunque di memoria dei sopravvivi, ma il domani Azor vecchissimo, fu trovato morto sulle zolle smosse, sotto cui avevano riposto la salma del suo padrone.
UN GENIO SCONOSCIUTO
RACCONTO
I
Era un genio davvero. Dio glie ne aveva data la scintilla immortale. Egli la volle nascondere, e fece che traversasse ignorata la vita terrena.
Non vi dirò il luogo in cui il mio eroe, circondato d'oscurità, mise per anni ed anni tutto il suo impegno a tener segregata dal mondo la luce della sua intelligenza. Gli ho promesso di tacerlo, e coll'ultima stretta di mano che abbiamo scambiata, ho dato ragione alla sua misantropica e valorosa rinuncia. Il suo nome, ch'egli decretò e volle seppellito nel più profondo oblìo, non comparirà su queste carte. A me stesso egli lo tacque, e se anche ho potuto indovinarlo, non contristerò, svelandolo, la memoria di quell'anima infelice.
In uno degli ultimi nostri colloqui, egli mi diceva, con un cotal suo sorriso, tra bonario ed amaro, che gli era abituale:
– Se invece di questo cimitero di campagna, in cui un'erba pietosa e non curante agguaglia tutte le fosse e circonda tutte le croci, il mio cadavere avesse da essere seppellito in un camposanto cittadino, dove si fa pompa di lapidi e di iscrizioni, vorrei che sulla mia tomba modesta si scrivesse superbamente: «QUI GIACE UN ANONIMO.» —
Codesto suo detto, fate conto che sia l'epigrafe della mia narrazione.
II
Dunque gli è in un villaggio, – in una remota regione – che l'ho incontrato.
Un mio nobile amico ha colà una gran tenuta intorno ad un'antica e vasta casona, che in paese chiamasi il castello, dove si conservano da tempi lontani, tradizioni rispettatissime d'una gentilezza ospitale senza eccezione.
Il paese è vicino alle montagne; un contrafforte delle Alpi allunga nella pianura le sue radici, a variare di collinette e di valloncini l'amenità dell'imboschito terreno; intorno all'antico palazzo si stende un giardino abbastanza vasto per potersi insuperbire del titolo di parco.
Una vegetazione ricca, fresca e feconda veste le chine dei colli con albereti leggiadri alla vista, e porge, anche contro l'insolente saettare del sole di mezzogiorno, gradevoli ripari d'ombra, rallegrati dal venticello della montagna. Al piede di quella collina, su cui il castello innalza le sue muraglie annerite, il villaggio – povero assembramento di casipole, che somigliano a capanne – si sdraia, direi quasi timidamente, e par che cerchi nascondere i suoi tetti, la maggior parte di paglia, alcuni di lastre di pietra, sotto le fronzute chiome di castagni e di noci, che crescono e s'innalzano a mirabili proporzioni da ogni orto, da ogni praticello.
È un cantuccio riposto, dove non penetrano le passioni e le gare degli uomini raccolti nelle agglomerazioni cittadine e spronati al male dall'interesse. Là non c'è strada di passaggio, non c'è commercio, non c'è industria, non ci sono caffè, non ci sono giornali. Un ramo assecchito di quercia indica una misera osteriuccia, composta di una sola stanzona a piano terreno, la quale vede la sua lunga tavola zoppa e le sue panche disoccupate tutta la settimana, per aspettare qualche avventore le domeniche.
Quando tutto sossopra è il mondo, appena se colà ne arriva debolmente un'eco incerta e paurosa.
In mezzo a questo sfoggio di vegetazione, spicca ancora per più fronzuta ricchezza il bosco del parco, in cui, sul culmine della collina, si drizza al cielo una fila di pini giganteschi, che hanno dovuto vedere molte generazioni d'uomini nascere e morire, e che coprono il terreno d'una oscura ombra solenne.
Il nobile padrone del castello verso gli abitanti del villaggio è cortese, generoso, caritatevole. Li ama e n'è riamato pei beneficii ricevuti, per la speranza di nuovi ch'egli è sempre pronto a rendere, per una specie d'orgoglio che sì distinta persona appartenga al paese e vi dimori la maggior parte dell'anno.
I cancelli del parco sono sempre aperti e dì e notte, tanto che, irrugginiti nei cardini, male si acconcerebbero oramai ad essere chiusi. I paesani vanno e vengono, con una libertà che non esclude il rispetto al padrone: e quando questi passeggia, ne trova sempre alcuni giù pei suoi viali, e ne viene salutato con ossequiosa famigliarità, a cui egli risponde lietamente accennando col capo e chiamando ciascuno col suo nome o nomignolo.
Sotto le ombre di quell'antichissimo parco si dànno appuntamento giovani coppie innamorate, per discorrere del loro futuro matrimonio; colà accorrono vecchierelle e ragazzi a raccogliere i rami secchi, con un fastello dei quali scendono al loro tugurio a cuocere la cena della famiglia. Alcune volte qualche tristarello sbaglia, e invece della legna secca ci viene tagliando bellamente dei rami in piena vitalità e arboscelli di buona cresciuta, il che, quando gli accade di accorgersene, sdegna non poco il proprietario.
– Ci porrò rimedio: – dic'egli allora in tono risoluto. – Il primo che io colga in sull'atto!.. —
Ma il suo quos ego innocente non ha ancora recato il menomo male a nessuno.
III
Tutti i giorni, nel gran viale dei pini veniva a passeggiare, verso le cinque del pomeriggio, un omiciattolo vestito di scuro, accompagnato da un cane brutto e vecchio, di quelli che da noi si chiamano volpini.
L'uomo faceva due o tre giri, tutt'al più, per quel viale, le mani dietro le reni, la persona curva, la testa bassa e l'occhio fisso continuamente sul cagnuolo, che correva un poco e tratto tratto veniva, la lingua penzoloni, a fregarsi alle gambe del padrone.
Quell'omaccino soleva parlare al suo cane, come avrebbe parlato ad un suo simile.
Quando il mio nobile ospite ed amico mi additò per la prima volta quest'originale, egli stava seduto per terra, e il cane, sdraiatoglisi accanto, teneva il muso sulle coscie di lui.
“Buona sera, Ambrogio:” gli disse il castellano. “Come va?”
L'uomo si levò il cappello con tutto il rispetto, ma non mosse la persona, per non disturbare il cane nel suo riposo.
“Grazie, signore, non va male… Pomino ha corso più del solito, è qui stanco che non ne può più.”
Di primo colpo la figura di quell'uomo aveva attirato la mia attenzione.
Era egli di una bruttezza fenomenale; però non aveva nulla di ributtante. Sopra un corpo debole, esile, quasi direi rimpiccinito, si reggeva, come a stento, una testa grossa a capelli arruffati, in cui la parte superiore, e massime la fronte notevole per forti protuberanze, aveva un eccessivo sviluppo. Il volto era scarno e le guancie incavate, larga la bocca e pallide le labbra; giù in fondo alle occhiaie tralucevano occhi di color chiaro fra il grigio e il cilestre, i quali sembravano amassero nascondere la loro lucentezza sotto foltissime sopracciglia che scendevano dall'arco dell'occhiaia e dietro lunghi cigli che ne ornavano le palpebre. La carnagione aveva di color terreo; lasciava crescere a capriccio una barba rada, di colore sbiadito, oramai più che a mezzo incanutita; sulle sue labbra errava abitualmente un sorriso tra mite ed ironico, che alle volte si sarebbe potuto dir scemo, alle volte amarissimo. Nel parlare, negli atti, nel sogguardare aveva alcun che di svagato, di distratto, di noncurante, come se altrove, sempre, fosse il suo pensiero. Vestiva alla peggio panni di colore scuro, logori, che gli si serravano spiegazzati intorno alle gracili e macilenti membra.
Mentre gli stemmo innanzi, egli fissò un istante gli occhi in volto al mio ospite e poi li chinò tosto sopra il suo diletto cane. A me non fece la benchè minima attenzione.
“Ambrogio,” disse il padrone del castello, “voi m'avete del tutto dimenticato. E perchè non venite più a vedermi? Una bottiglia di quel vino che vi piace è sempre lì ad aspettarvi.”
Quell'uomo fece il suo sorriso da scemo.
“Grazie,” rispose, “grazie tante!”
E si pose ad accarezzare il cane colla destra.
“Ricordatevene,” soggiunse il proprietario, “e a rivederci.”
“A rivederci:“ ripetè come un'eco l'omiciattolo, mentre il mio amico mi dava la spinta per avviarci ambedue.
“Chi è quell'originale?” domandai appena fummo un po' lontani.
“È il maestro di scuola del villaggio:” mi rispose. “Un essere misterioso, la cui vita è forse un romanzo.”
“Oh! oh! un romanzo!” esclamai: “rara avis, di cui andiamo a caccia noi scribacchiatori, senza poterla trovare il più spesso… E voi, naturalmente, lo sapete codesto suo romanzo?”
“Poco… Ne so forse l'epilogo, che venne a concludersi qui. Costui è il solo forestiero, a memoria d'uomo, che sia venuto a stabilirsi in questo remoto paesello, e il solo degli abitanti de' cui fatti non si sappia nulla. La sua esistenza, dacchè vive con noi, non ha vicende; e il suo passato prima che qui venisse è un mistero, intorno a che non ha mai voluto dare la menoma spiegazione e su cui non ama che lo s'interroghi.
“È molto tempo ch'egli è qui?”
“Ormai trent'anni. Me ne ricordo come se fosse ieri quando è arrivato. Ero giovanissimo e viveva il mio buon padre, allora…”
Stette alquanto sopra sè, e poi soggiunse:
“Oh sentite; io racconterò tutto quello che ne so; voi aggiungendovi le frangie, come siete soliti di fare voi altri romanzieri, e inventando quanto basti per riempire le lacune, potrete forse fare di costui il protagonista d'un racconto.”
“Da bravo, narratemi quel che sapete.”
E il mio amico così cominciò a favellare.