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Kitabı oku: «Scritti editi e postumi», sayfa 6

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CAPITOLO XVIII

IL SUICIDIO

… Spendete meno massime, spendete più fatti: – allargate le vie della vita, sgombratele di tante spine, che vi seminò l'errore e l'ingiustizia. Con che titolo l'ozioso opulento verrà a filosofare aspramente sul corpo del suicida per miseria, – egli, che giornalmente in una bottiglia di Sciampagna beve almeno cinque giorni dell'esistenza di un povero?

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Discendendo poi dalle teoriche al fatto, osserviamo che più ordinariamente questo fenomeno si verifica o nell'estrema energia, o nell'estrema spossatezza dell'umana natura. Di rado tocca il grado intermedio; – di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue. Egli è buono a sopportare molti disastri, che fiaccano il debole; – egli in forza delle sue misurate facoltà non si trova mai avvilupato in quel nodo di eventi, che sforzano l'uomo superiore a sparire dalla scena del mondo celandosi in un sepolcro. L'uomo moderato può convenientemente transigere con una lunga serie di fatti. L'uomo debole vive a caso, – e se i fatti gli passano rasente senza urtarlo di fronte, può invecchiare pacificamente, e morir nel suo letto. Ma se un fatto lo prende di fronte, egli è perduto, egli non ha vigore bastante da sviarlo, e rimetterlo sul suo cammino. Una cosa lieve, un nonnulla, anche una risata, in un cervello così fatto diventa un'idea fissa; e allora la follia compie la paralisi delle sue forze morali, ed egli è costretto a morire senza poterne dar conto a chi glielo dimandasse. Io ho conosciuto un giovane leggiadro di forme, d'indole mite, ma vuoto di testa, che si fucilò, perchè i genitori, che l'amavano assai, non gli permisero di farsi dragone. – Ma l'anima atletica d'un eroe trascorre una scala lunghissima d'eventi, e nulla l'arresta; – la sua gagliardia rompe spesso la corrente, che strascinerebbe in rovina ogni altra forza fuorchè la sua; – poi ad un tratto si trova di faccia una combinazione intricata, profonda, dove freme l'onnipotenza del Destino. Allora il Genio si conosce perduto, – ma non cede sul subito; ei sviluppa una lotta da gigante a gigante, – e la lotta dura finchè le forze da una parte resistono: – finalmente il Genio soccombe, – il Destino supera, perchè il Destino è ciò che deve essere. Che deve fare allora l'eroe? – progredire è impossibile, perchè una barriera di adamante gli chiude i passi; – rovinare in fondo è impossibile, perchè la natura del Genio è di salire finchè può. Allora l'eroe decide di morire, non già perchè vuol morire, ma perchè non può più vivere. Non è il delirio, che spinge; è la coscienza, che sceglie. Il Genio si scava la fossa su quel gradino, dove la Fatalità gli ha reciso l'ale; – e si scava la fossa per insegnare che il sistema del Bene va portato innanzi finchè si può, e non va rinnegato colla codardia del tornare indietro. Certo, il suo concetto era di salire al sommo della scala, e piantarvi lo stendardo della vittoria. Dio non ha voluto, – egli è morto. Egli non poteva vivere sospeso fra il cielo e la terra.

Catone sta per la Repubblica, – e combatte all'usurpatore a palmo a palmo il terreno; ma questi, più felice di lui, lo incalza di provincia in provincia, – lo soffoga coll'alito ardente della vittoria. Catone finalmente è in Utica, chiuso in un circolo magico, donde gli sarà impossibile uscire come dalla tomba. – Già si sente fremere a tergo il delitto e la fortuna di Cesare. Ma i fati non sono per lui, – egli lo sa. Non v'è più scampo, – non v'è più spazio, – non v'è battaglia più da tentare; – la Virtù contro il Fato è un vetro contro una massa di ferro. Catone deve morire, e morrà. Poteva rendersi a Cesare, – ed ei l'avrebbe perdonato, – l'avrebbe anche onorato, – perchè Cesare era un tiranno, ma un tiranno di genio. Catone era come quei metalli, che si spezzano, ma non si piegano. Doveva morire per dimostrare, che la Virtù è un fatto sensibile, e non un nome vuoto; doveva morire, perchè la sua ragione gl'insegnava pacatamente la morte come un dovere, la vita come un tradimento. Se non fosse morto, nè i contemporanei nè i posteri avrebbero saputo in che più credere. La sua morte fu una protesta eloquente contro l'usurpazione felice, – una guarentigia del diritto, – un conforto, uno stimolo ai superstiti; e dal suo sangue usciva una voce, un insegnamento solenne a morire piuttosto che a disertare una causa santa.

E Bruto da quel sangue raccolse quella voce, e se la pose nel cuore. Quella voce gl'intimò primamente a non disperare della salute della patria, – a tentare la sorte incerta delle armi, e così fece; – poi quando a Filippi fu perduta l'ultima battaglia delle Libertà Latine, interrogò quella voce, e gli disse di morire. E Bruto moriva incontaminato, come devono morire le anime sublimi. – Comprese la santità della sua missione, – la grandezza dell'esempio, che andava a dare, – il frutto immenso di cui questo sarebbe stato fecondo nell'avvenire. Il suicidio in lui non fu il consiglio d'uno stretto egoismo, – fu un sacrifizio fatto alla dignità dell'umana morale. Se fosse vissuto, avrebbe commesso peggio, che una viltà; – avrebbe messo in dubbio i diritti dell'uomo; – avrebbe sanzionata la scelleraggine trionfante; – ne avrebbe in certo modo velate le vergogne: – così la lasciò nuda, – così col suo sangue si appellò pei diritti delle nazioni alla vendetta dei posteri rigenerati; – così piuttosto che concederla agli stupri della tirannide volle condur seco la Virtù vergine nella tomba. Bruto, anima esaltata, e inflessibile nell'amore del grande e del giusto, era portato al suicidio dalla necessità e dal dovere. Non gli rimaneva a fare più nulla nè di buono, nè di grande; – non gli rimaneva nè anche di sedersi sulle rovine della patria, e sciogliervi un canto funereo; – le rovine della patria erano ormai lo scanno dei Cesari. – Doveva fuggire? Il pensarlo solo è un sacrilegio; – ma e in qual parte di mondo fuggire? Il mondo era una Provincia Romana, e qualunque nazione avrebbe portato a gara la testa di Bruto in aggiunta ai consueti tributi. Doveva ricorrere alla clemenza di Augusto? Oh! l'ultimo dei Romani non poteva ricorrere al primo dei tiranni. La Fatalità aveva incatenato lui alla Repubblica, e la Repubblica a lui. Erano due in un destino solo; – dovevano esistere insieme, perire insieme, e perirono. E poi conoscete voi la clemenza d'Augusto? Ve lo dica Perugia. – Augusto non aveva, che talento e libidine d'imperio; – del resto, ineccitabile come una pietra; un alito di passione non aveva mai increspato quel mare morto dell'anima sua. Un giorno fece un conto e barattò la testa di Cicerone suo amico contro quella d'un uomo, che appena conosceva, come farebbe un fanciullo dei suoi balocchi; e sotto manto d'amore carezzava Cleopatra per menarsela a Roma in catene in un giorno di festa, e d'orgoglio. Augusto avrebbe messo la testa di suo padre per puntello a un piede del trono, se quel piede non avesse posato in piano.

Il suicidio di Catone, di Bruto e di mille martiri della Verità, è un eroismo, – un fatto di natura trascendentale, che sfugge al compasso di una volgare filosofia. È il punto culminante dell'umana grandezza, è il Sacrifizio. L'invidia sola può tentare d'impiccolire le proporzioni colossali d'un tanto fenomeno, ma la ragione sdegna l'analisi, e si contenta di venerare. Il suicidio è vero, che in questi casi stacca un fiore dalla corona della Virtù; ma la Gloria raccoglie tosto quel fiore, – ne fa una stella, e l'aggiugne al suo serto immortale.

CAPITOLO XIX

Poffare Dio! ho scritto queste quattordici pagine tutte d'un fiato, e con tanto impeto, che me ne trovo stordito. Ho lasciato fare il più al sentimento, e alla penna; – al cervello è toccata la minima parte. Non so se sia bene; – comunque siasi, è andata così. Mi son voluto lasciare andare, dove il flutto voleva portarmi, – ho lasciato le vele in balìa del vento. Se invece di arrivare in porto ho dato in secco, non ve ne prema; – il danno è tutto mio. Quando me ne vada il peggio, vuol dire che non avrò ragionato. Benissimo; – è una cosa, che mi succede spesso, anche quando ho le più serie intenzioni di fare il contrario. – Per me è una baia. Quandoque bonus dormitat Homerus. Non lo dico per superbia di paragone, – lo dico così per citare, e per far vedere, che anch'io sono stato in collegio, dove in quattro anni m'insegnarono a non sapere il Latino. Non lo dico per superbia di paragone. Omero era cieco, e poeta; io invece ho due begli occhi, e non sono nè poeta, nè prosatore. Scrivo per capriccio, – per far diventar nero un foglio bianco. Scrivo perchè non ho da parlare con nessuno, chè se io potessi anche con una vecchia, anche con un bambino, non pensate, non toccherei la penna. Andate a leggere, se vi riesce, quello che ho scritto quando io non era in prigione! Certo potrei parlar meco stesso, – ma non voglio avvezzarmici, perchè uscendo di prigione con questo vizio, e portandolo meco in società, mi potrebbero prender per matto. Assai in fatto di giudizio non godo di un credito troppo esteso! – allora la storia sarebbe bella e finita. – D'altronde, quando io scrissi le suddette quattordici pagine, avevo il cuore pieno pieno, – non so di che, – ma veramente pieno, – e bisognava sfogarlo. Se fossi stato un romantico, avrei scritto una ballata malinconica, – se un classicista, avrei scritto un'elegia; – se un musico, avrei cantato qualche melodia del Bellini. Ma io non sono nulla di tutto questo, – non so che fischiare; – però lo faccio quando ho l'umor nero, o quando una coppia di grilli mi mettono in festa di ballo la fantasia. – Del resto, ve lo ripeto, ho scritto quel che io sentiva; – il calcolo ci è entrato per un momento, e poi fuori. L'anima ha qualche quarto d'ora, in cui se ne vuole star sola sola con le sue sensazioni, liete o dolorose che sieno, e guai se la mente vuol venirne a parte; – guasta tutto, come qualche viso antipatico spesso mette il freddo e il silenzio in un crocchio cordiale d'amici. D'altra parte è impossibile star sempre sopra una nota, – e quand'anche ti riuscisse, verresti noioso a tutti, e i casigliani ti caccerebbero del casamento. La vita, a voler che sia bella, a voler che sia gaia, a voler che sia vita, dev'essere un arcobaleno, – una tavolozza con tutti i colori, – un sabbato dove ballano tutte le streghe. Il sollazzo e la noia, il pianto e il riso, la ragione e il delirio, tutti devono avere un biglietto per questo festino. Che serve far della vita una riga diritta diritta, lunga lunga, sottile sottile, noiosa noiosa, e color della nebbia? È un volersi reggere sopra un piede solo, – è un mettere l'anima umana nella stessa situazione, in cui si pose lo Stilita, che stette quarant'anni in cima a una colonna. Vuol essere un'orchestra piena, e non un piffero solo; – varietà vuol essere. Viva la varietà! Per tutti questi motivi, io ho scritto quattordici pagine senza pensare, e non me ne pento. Giorgio Spugna mio dilettissimo amico mi ha ripetuto sovente queste notabili parole: «L'uomo che è sempre savio val poco più dell'uomo che è sempre pazzo; – est modus in rebus: – l'arte di pensare è un'arte, che va stimata e riverita; è una fatica concessa all'uomo, e negata alla bestia; – ma il farlo sempre si assomiglia all'avaro, che conta e riconta perpetuamente i suoi scudi; – qualche volta bisogna spendere; – il superchio rompe il coperchio; – qualche volta bisogna non pensare per riflessione; se no, all'ultimo, spesso invece di una scoperta psicologica ti trovi di aver pescato un'emicrania». Così mi diceva Giorgio Spugna, filosofo, che si è fatto da sè senza bisogno di libri, senza bisogno di Pisa, di Bologna, e di Padova. Non già che Giorgio Spugna sia ritroso al viaggiare, – anzi è questo un suo desiderio vivissimo, e giuoca sempre al lotto per vedere se un giorno o l'altro potesse mettersi in corso; e mi ha giurato più volte, che se ottiene il suo intento vuol fare il giro del globo, componendo un trattato di pratica comparata sui migliori vini dell'uno o dell'altro emisfero. Mi ha detto ancora, che giro facendo non avrebbe scrupolo di mettere in carta le sue osservazioni di qualunque altra maniera, dacchè egli pure possiede un cannocchiale fatto da sè, col quale guarda tutti gli atti di questa umana tragicommedia. – «Ma io nol farei», – soggiugneva Giorgio, – «giusto appunto perchè mi è venuto fatto di osservare, che le opinioni, anche buttate là colla stessa insouciance, colla quale soffio il fumo della mia pipa, possono cadere in frodo peggio del tabacco, e la multa non è lieve, ed è certa sempre la perdita della merce, e talvolta anche quella della persona; per questo io nol farei, e procurerei al summum di tenermele a mente per ridirtele poi testa testa nel giolito d'un simposio, nell'intervallo fra un bicchier e l'altro.» – E credete, che Giorgio Spugna è più filosofo di quel che non pare, precisamente perchè non pare un filosofo. E ripeterò con lui: qualche volta bisogna spendere. Che direste d'un uomo, che stesse da mattina a sera a guardar l'orologio per far buon uso del tempo? Per lo meno perderebbe il tempo a vederlo passare. Mettetevi in tasca l'orologio, e fate le vostre faccende, l'orologio consultatelo di quando in quando secondo il bisogno. Bisogna fare a tutti la sua parte, e se coltivate una cosa sola, e l'altre trascurate, godete meno, e le altre vi vanno a male. Così è come io ve la dico, e vi esorto a crederci, o almeno potete fidar più sul mio senno quand'io discorro alla buona, e senza pretensioni, che quando mi metto in aria di ragionare. Sopratutto rammentatevi il nome e le opinioni di Giorgio Spugna. Ei se lo merita, ed a me farete cosa cara.

CAPITOLO XX

Io ho detto nel capitolo XVII, che sono in prigione, e lo confermo nel Capitolo XX. Oggi finiscono trentaquattro giorni, e non isbaglio; in mancanza del lunario li ho contati due volte sulle dita.

A chi me l'avesse detto il 2 di settembre io avrei riso in faccia di un cotal riso da venirne al duello. Eppure io ci sono!

Benedetti i primi giorni della mia prigionia! – io era così sempre fresco del passato, che sovente mi riusciva d'illudermi. Sovente sopra pensiere chiamava ad alta voce la serva, perchè mi recasse una cosa o l'altra; e sentendo che nessuno mi rispondeva, io mi accertava allora della prigione; ma ci rideva sopra, e non era più altro. Sovente sopra pensiere in un batter d'occhio m'indossava la giubba, mi calcava in capo il cappello, e tutto infuriato andava per uscire; – ma giunto alla porta mi accorgeva, che il chiavistello stava per di fuori, – segno evidente della prigione; – ed io al solito ci rideva sopra, e non era più altro. Benedetti i primi giorni della mia prigionia!

Oggi però è ben diversa la cosa. Io son mesto e spossato dalla noia, – e così penetrato fino al midollo del convincimento di essere in prigione, che questo pensiere dinnanzi agli occhi e alla mente mi brulica in infinite forme, come uno sciame di atomi innumerevoli traverso un raggio di luce; e così mi si è dentro inchiodato, che nei primi tempi della mia nuova libertà per avventura, crederò sempre d'essere in prigione.

Io sono mesto, e spossato dalla noia. La noia tacitamente ha tramato per me una così gran tela, che io non vedo parte donde salvarmi. Io son la mosca di quella tela, e più che mi dibatto per uscirne, e più vi dò dentro.

Oh! la noia è una parola sola, – una parola breve, che non conta più di quattro lettere, – ma il provarla è tal volume, che uomo al mondo non sfoglierebbe così per tempo, nè così di leggieri. La noia è l'asma dell'anima, – è una ruggine che può consumare la meglio temperata lama, che si dia; – è una cosa, che dai capelli alle piante ti fascia la cute d'un senso umido, fastidioso, ti perverte l'occhio, e ti fa veder tutto in bigio; – toglie il sapore al gusto, la fragranza ai fiori, – la dolcezza all'armonia. Schiaccia l'acume dell'intelletto, e lo rende bestialmente stupido, – e insugherisce il cuore, mortificandone la squisita sensibilità, disseccandovi dentro la lacrima del piacere e del dolore. Oh! la noia è il più insopportabile dei nostri dolori, perchè è il dolore della stanchezza; perchè non eccita in noi una forza, che valga a combatterlo. Essa non è un vulcano, ma cuopre di freddissime ceneri il sorriso della Natura intera.

E le ho tentate tutte per medicarla, ma senza pro. Il leggere non mi giova; – sto mezz'ora sopra un filaro, – e poi gitto il libro. Non ho più coraggio nè anche di scrivere i miei ghiribizzi; – i miei grilli son morti d'inedia, – essi volevano l'erba fresca del prato, e l'alito dell'aria aperta. – Non mi giova il passeggiare; – vado in su e in giù per i dodici passi della mia prigione, e di lì a poco torno a sedermi colla vertigine. – Se mi affaccio, vedo, è vero, un bel cielo, ma le sbarre, che mi traversano l'occhio, me lo tingono di color di ferro; – vedo un cerchio di monti, e mi paion sepolcri; – vedo una mandra di soldati, che la disciplina militare ha saputo convertire in altrettanti arcolai. – Pallida mi apparisce la verdura degli orti, e dei vigneti, e il canto degli uccelli mi suona lamento.

Alas poor Yorick! Io mi curvo sotto un peso, che non posso più reggere, e ho fatto di tutto per sollevarmene. Ho contato le battute del mio polso, e ho dovuto smettere; – ho fatto la guerra agli insetti, che mi son compagni, e ho dovuto smettere, perchè son troppi; – ho contato i travicelli delle mie due camerette, e sono diciotto e mezzo; – i travi grossi, e son otto; – ho contato perfino i mattoni, e son trecento novantuno. Io non ho più pace, e non so come averne. Non posso più pensare nè al passato, nè all'avvenire, spazi così vasti, e così comodi per il diporto dello spirito. Son confinato nel presente, – e il presente di un carcerato non è già il Tempo coll'ali snelle velocissime, – è una figura di piombo sdraiata in un canto.

… E come fare per il resto di tempo, che dovrò starmi in prigione? Avessero almeno detto: – ci starai tre mesi, sei mesi, un anno, – manco male; – ogni sera con un sospiro di sollievo esclamerei: – v'è un giorno di meno! – Se io potessi avere dell'oppio, forse sarei felice, e certamente tranquillo; – l'anima mia dolcemente assopita passerebbe le sue giornate in un mondo aereo, multiforme, – un mondo così dovizioso d'illusioni, e d'immagini, che la più alta fantasia dell'uomo desto può concepirne appena una frazione ben minima. Ma non posso sperare nell'oppio; – i miei custodi l'hanno in concetto di veleno, e non me lo farebbero vedere nè anche dipinto. E per questo io ho desiderato le mille volte una febbre acuta, che mi levasse fuori di me fino al giorno della mia scarcerazione. Ma la febbre anch'essa, che pur non dipenderebbe dai miei custodi, non vuol venire; – non vi è rimedio; è un calice, che bisogna bere…

Ecco qui; tutti i giorni sono i medesimi, misurati dalle medesime vicende. Alle otto la mattina il solito caffettiere colla solita colezione; – al tocco il solito pranzo portato dai due soliti selvaggi, che si son rubati il nome di camerieri. Il pranzo è composto sempre della solita zuppa, e di tre pietanze, che sembran tre morsi, presso a poco sempre uniformi, e di rado una di quelle variata in un uccello, strano, – una specie d'uccello, che avrà che fare coll'ornitologia, ma non so se abbia diritto all'ingresso d'una cucina; – una specie d'uccello che, a casa mia non ho mai veduto nè per aria, nè sullo spiedo. Io non so dove trovi quegli uccelli il trattore; – mi pare impossibile, che un cacciatore li trovi; e, se li trova, che abbia il coraggio di spendervi sopra una botta. Ma io ho veduto spesso il trattore sur un campanile, e di certo ei vi andava per quegli uccelli, e per noi.

E il Profosso? Mutassero almeno il Profosso una volta la settimana, come avevano cominciato dapprima! Ma dopo una volta non l'anno più fatto. Eccolo là, – è sempre il medesimo Profosso, – col medesimo viso, – col medesimo passo, – col medesimo vestito bianco mostreggiato di rosso, – colle medesime chiavi, – coi medesimi 12 Articoli, stabiliti contro di me, e contro di lui, – col medesimo suono di voce. Fin qui il Profosso non è ancora infreddato, per sentirgli fare almeno una voce diversa. L'unica mutazione, che segua in lui qualche volta, è quella da un casco a una berretta. È un uomo anche egli convinto della disciplina, – convinto dei suoi superiori, – persuaso, che le bastonate sieno un dovere a darle, e a riceverle, come voi siete persuaso a grattarvi in quella parte ove vuole il prurito. – Oh! le strane fantasie della noia! Quante volte non ho io desiderato, per non vedere sempre il medesimo Profosso, di vederlo un giorno con un occhio solo, un altro giorno con tre; un giorno con due nasi; un altro giorno con la bocca sulla fronte; una domenica, quando mi accompagna alla Messa, che camminasse colle mani e coi piedi; un lunedì di vedermelo vestito da donna; un giovedì colla testa voltata dalle spalle; un venerdì senza testa. Ma il Profosso non sì muta mai, – è inesorabile; e ogni giorno viene a menarmi fuori per prendere un'ora d'aria, com'egli dice, e spesso mi tocca invece un'ora d'acqua. E sul primo anche questo era un conforto, – ora non è più. È sempre il medesimo Forte… – le medesime salite, – le medesime scese, – i medesimi sassi ribelli, e pronti ad offenderti, – i medesimi cannoni, – i medesimi soldati; – non si trova un uomo, o una donna, se tu li pagassi al peso dell'oro.

Il Profosso è una disperazione; – quando io gli chiedo, se ci è nessuna nuova del mondo, mi risponde sempre, che non vi è nulla di nuovo. Possibile mai! – bisognerebbe, che tutto il mondo fosse in prigione. – Eccolo là il Profosso! è inconvertibile. – Viene tre volte al giorno nella mia stanza, uguale uguale, senza pendere un capello da quello che era la vigilia; e mi dice se può entrare, quando è già entrato; e, allorchè se ne va, mi domanda se io voglio nulla. Egli lo fa per dovere, non ci mette ironia, – così voglio credere; – ma quella dimanda mi fa il sangue più agro. O Profosso! Profosso! Se tu sapessi quello che io voglio, certamente non me lo dimanderesti due volte. D'ogni tre volte due almeno io voglio, che tu vada al diavolo.

E la notte? – non me la rammentate, per l'amore che portate a voi stessi. La notte è per me l'eternità di un dannato. La notte con quel suo vasto silenzio, così propizia ai fantasmi poetici, al meditare profondo, per me non significa nulla; e mi scende sull'anima, fredda, piatta, e pesante come una lapide. Invoco il sonno coi nomi più lusinghieri, ma vanamente. Disteso sopra un letto nè cattivo nè buono, mi volto a destra, mi volto a sinistra, mi giaccio supino, mi giaccio bocconi, mando fuori un Gesù mio, mando fuori una parola a rovescio, ma il sonno non viene. La notte la noia non è sola; – chiama sull'armi le zanzare, e mi fanno una guerra mortale da fedeli alleate. Finalmente prendo un poco di sonno, – ma torpido, vuoto, senza balsamo di riposo, senza sogni. Potessi almeno farmi de' sogni! chè la mattina dipoi m'ingegnerei a farne la storia, e a metterli in bello stile.

Sul principio, quando veniva la notte io mi consolava standomi alla finestra a godermi lo spirare dei venticelli, e lo spettacolo solenne d'un bel Cielo Italiano. Ma, dopo quello che mi avvenne una sera, ora appena cade il crepuscolo io chiudo le imposte, e disperatamente mi caccio nel letto. Sentite quello che mi accadde una sera. Io me ne stava, come v'ho detto, immergendomi lo spirito nella considerazione d'una gloriosa Natura, assorto in uno di quei momenti d'estasi e d'oblìo, nei quali l'uomo non è più una povera creta, ma è pellegrino dell'Infinito; e guardando sospeso sopra di me quell'azzurro immenso, sereno, gioioso, magnifico di stelle e di misteri, mi sentiva sollevare, mi sentiva intenerire: – a un tratto mi venne fissato l'occhio sulla Luna, che spuntava in un lato del firmamento, pallida amabilmente, e modesta; – allora il mio sentimento cominciò a svilupparsi in una forma più precisa, più palpabile, ed io volli esprimerlo con un inno, e cominciai:

È mesto il raggio della Luna, e Dio

Lo temprò in armonia colla Sventura.

Ma come fui a questo punto una fata leggiera leggiera, coll'ali color dell'iride, mi trasvolò dinanzi, mi fece un inchino, e mi diede la buona notte. – Era la Musa. – Io sul subito non me ne accôrsi, e non seppi interpretare in buona parte quel suo consiglio. Quindi, per non dirvi le bugie, avrò ripetuto almeno un cento di volte quei due versi in cadenza accademica, ma il terzo non venne mai. Alla fine ripensai più pacatameate alla figura veduta, e tra il dispetto e l'umiliazione mi coricai.

Io conosco a prova il martello della gelosia, – ma, faccia pure l'estremo di sua possa, non può arrivare alla noia.

O Torquato Tasso! io non ti chiedo nulla che valga; – non ti chiedo quella corona di stelle, onde tu cingesti in Palestina la Musa Italica; solo chiedo reverentemente, che tu mi dica come facesti, quando al Magnanimo Alfonso piacque decretarti pazzo, e chiuderti per lunghi anni in un ospedale, come facesti in quei lunghi anni a pensare alle sette giornate del Mondo Creato2, mentre io in trentaquattro giorni, se qualche volta ho pensato al mondo, ho pensato di disfarlo, non già per istizza, ma perchè mi sembra mal fatto.

O Silvio Pellico! io non ti domando la tenera ispirazione, da cui sgorgava quella tua Francesca, che sarà un palpito del cuore finchè l'amore sarà una passione dell'uomo; ma ti domando soltanto d'insegnarmi donde traesti la tua decenne pazienza…

N.B. – Questo Capitolo naturalmente è fuori della giurisdizione della Critica; egli non ha pretensioni; – è il Capitolo della Noia3.

2.«Le Sette Giornate non furono immaginate dal Tasso in prigione, ma a Napoli, molti anni dopo, nella villa del Marchese Manso, a richiesta della Madre di questo Signore».
  Questa Nota è apposta in margine nel MS. dell'Autore, ed è d'altra mano: credesi di un amico suo, al quale, relegato con lui in quelle prigioni, ei dava a leggere i suoi quaderni di mano in mano che erano scritti. – Vedi Serassi, Vita di Torquato Tasso; vol. II, pag. 226, – Berg. 1790.
3
  Qualche distrazione pur valse talvolta ad alleggerire il peso della noia sì vivamente sentita e dipinta dall'Autore. Il suo spirito si effondeva vivace, e poteva eccitare il sorriso anche nelle angustie del carcere, poichè gli era concesso di conversare scrivendo co' suoi concaptivi. E lo provano alcuni Capitoli, diretti ad uno fra loro, de' quali crediamo sufficiente offrire ai Lettori alcuni frammenti. Non mancano in essi la purezza, l'abbondanza, la vivacità dello stile, ond'ebbero vanto di Classici alcuni Scrittori italiani, specialmente del Secolo XVI, per siffatto genere di componimenti. E se questo non è avuto in pregio e consentito egualmente ai tempi nostri, giova rammentare come nascessero, e dove, i versi che seguono.
A MESSER AGNOLOCARCERATO CONTENTOAgnolo, ho in capo il ticchio della rima,Nè mi occorre argomento altro, che il vostro;Segno chiaro d'amore, o almen di stima.Che fareste altramente in questo chiostro,Se non scriveste? E a me non manca nulla;Ho pagato la carta, e ancor l'inchiostro.E poi la Musa mia è una fanciullaDi garbo, e non ha odio a chicchessia,Ma tratto tratto salta e si trastulla;E canta una canzone in melodiaFestosa, e alfin si cheta, come un ventoLieve, che agita un fiore, e poi va via.Ma torniamo di botto all'argomento,Non divaghiamo, – che se no, si sfumaIl mio vapore, e il fuoco si fa spento.Che debbo dir di voi? chi il sa? la piumaDell'ingegno è già cionca..…Ma non levate a Dio vostre querele,Agnol, chè potria dirvi: olà, tacete;Pei vostri falli questo è un pan di miele.Chi sa, che avete fatto? Io, se non siete,Pur vi credo un buon uom; ma Dio ci vedeAnche nel buio, ed oltre la parete.A vedervi in prigion non ci si crede,Avete l'aria dell'Angelus Domini,Siete il ritratto della buona fede.Nondimeno alle volte son quegli uominiAppunto come voi, che fanno un setteApparir per un cinque; – e se predominiIn cotestoro il vizio, o se le retteArti della virtude, ella è una cosa,Che di subito in chiaro non si mette.Se devo dir per me, siete una rosaCandida, e ve lo dico con tal cuoreChe il mio parlar non ha mestier di chiosa.Voi siete un pan di zucchero, un amoreSenz'ali e senza freccie, ma con gli occhi;Voi siete un Santo… .…– Che serve esser Santo, e le favilleMandar celesti dall'accesa faccia,S'Ei non sa scivolar come le anguilleDai Birri? – E voi pur deste in quella caccia,Agnolo mio! e via San GiovanninoChe disse il dì che più l'amata tracciaDel vostro piè non vide? – O mio vicino,– Disse la strada, –  sei forse in un forno?Dove ti celi? sei forse in un tino?Mostrati, – il Sole è quasi a mezzogiorno;Vedi il villan coi polli, e col canestro.Che fiuta il tuo consiglio, e gira intorno.Ratto corri allo studio, ed il maestroTuo bel labro di nuovo oda la gente;Scrivi col pugno sinistro e col destro.Accarezza la gola del cliente;Dàgli una presa di tabacco, e poiAccompagnalo all'uscio umanamente. —Sì disse: ma poichè seppe che voiEravate in prigion, non si sa come,Mandò per tutta Pisa un oi oi.Trecento volte vi chiamò per nomeQuella povera strada, e senza modoSi graffiò il viso e si stracciò le chiome.Non lo dico da burla, ma sul sodo,Un tegolo perfino si commosseE venne giù a sapere il quando e il modo.…Ma voi ci state come stare a lettoIn prigione, ed è cosa, a dire il vero,Che mi ha messo nel capo del sospetto.Svelatevi, parlatemi sincero;Io vi credo un buon uomo, ed io vi credoUn uomo bianco ancor che siate nero;Ma quando sì rassegnato vi vedo,E intendo il vostro placido discorso,Voi mi fareste rinnegare il Credo.E dico: – egli è una prova del rimorsoQuello star quatto quatto, e se di colpaNon fosse reo, darebbe un qualche morsoAlmeno al ciel, che gl'innocenti spolpaCosì del poco ben che regna in terra,E non ne dà ragion, nè si discolpa. –Agnol, sentite: io vi farò la guerra,Se non mutate stil, se non cessateDi viver come un morto sotto terra.Voglio sentirvi taroccar, le ingrateStelle accusar voglio sentirvi, e un suonoVo' sentir misto d'urli, e di pedateContro la porta; e tanto sia il frastuonoE il nabissare e il baccano, che ognunoPiù non vi adori come un Santo buono.Ira e dolor manifestate, e il brunoMettete al fiasco, ma non lo rompete,Che non vi è dato regger quel digiuno.…Agnolo mio dabbene, Agnol gentile,Andate sulle furie, io ve ne prego,E la mia prece non abbiate a vile.Se non v'imbiestalite, io me la legoAl dito, ed ho memoria sì vivace,Che sull'offese non dà mai di frego.Se al mio comando siete contumace,Vi farò guerra sino al finimondo,E non varrà che dimandiate pace.Star contento in prigione, e far giocondoViso ai rabuffi di sì rea fortuna?Io nol so concepire, e mi confondo.…E quanto al ber, ci vuol discrezïone;Farlo in presenza a tanta ribaldagliaÈ un affogare la riputazione.È ver che avete di sì buona magliaFatto il cervello, che puote una broccaDi vin, come potrebbe un fil di paglia;Ma bussar tratto tratto alla bicoccaDi Rebecca, e ordinarle un boccaletto,E farvelo di più mescere in bocca,È una tal cosa che a un uom provettoSconviene, e giudicare a voi la lascio;Una mano mettetevi sul petto.Voi mi risponderete, ch'io vi accascioSotto questo Capitolo, e che in fineSmetter dovrei, dovrei legare il fascio.Datemi la ragione, e le terzineCesseranno, e se no, tenete in cuoreChe ancor v'inseguirò colle quartine.Per or finisco; e in segno del mio amoreVoglio, che vostre laudi non sien mute:Avvocato, Poeta, e Bevitore,Trinità formidabile, salute!A MESSER AGNOLOBEVITORE NON PLUS ULTRAE soprattutto nel buon vino ha fede,E crede che sia salvo chi ci crede.Morgante maggiore.Agnol, voi siete vivo, e mi rallegraSì la notizia, che già sorge in altoL'anima, che giacca chinata ed egra.Agnol, dall'allegrezza ho fatto un salto;Agnol, dall'allegrezza ho fatto un trillo,E l'ho cantato in chiave di contralto.Se voi vedeste come in viso i' brilloAl sentirvi sì gaio e impertinente,E vispo più che a primavera un grillo;Voi mi dareste un bacio di repente,E mi direste: – Dio ti salvi, o Carlo,Dio ti salvi con ogni tuo parente. –Pace per questo non darovvi, e il farloNon è nel poter mio, sono un tormentoPer voi, sono il demonio, il vostro tarlo.Vi sono un pruno dentro un occhio, un vento,Che vi soffia tra mezzo alle lenzuola;Sono per consumarvi un fuoco lento.Nè lascerò di batter la mazzuola,Finchè non oda dimandar perdonoDai vostri labri color di viola.Vedrete s'io ci sono, o non ci sono,E sentirete se il mio verso pela;Dapprima aveste il lampo, or viene il tuono.Strugger vi voglio, come una candela;Voi mi avete sfidato; ebbene, accetto:L'arbor drizzate, e sciogliete la vela.Ma che fareste senza Musa in petto?Sperate forse, che vi voli attornoCome una mosca, o come un altro insetto?Siete, è vero, un bell'uomo, un uomo adorno,Un cicisbeo galante, un mugherino,Un cavaliere fatto proprio al torno;Ma bevete un po' troppo, e intorno a un tinoLa Musa non ci vien, – non è decoro;L'avete presa per un moscherino?Chiunque ne conviene, – è cosa d'oroIl bere, è cosa buona, è cosa degna,E le taverne meritan l'alloro,E lo portan di fatti per insegna:Ma un limite ci vuole; e quando il fuocoÈ bene acceso, bastano le legna;E non far come voi, che con un rocoAccento ognor gridate: – mesci, mesci; –E quand'anche trabocca, dite: – è poco.Ma che volete il vino giù a rovesci?Ma dite, il vin v'ha fatto la malia,Che ci stareste come in mare i pesci?…Voi per il vino anderete dannato,Non c'è rimedio; – voi fareste tuttoCol vino, ci fareste anche il bucato.In una chiesa un dì parata a luttoEntraste a sentir Messa, e dalla fèSembravate compunto, anzi distrutto,Ma quando il Prete ritto su due pièAlzò il calice in aria voi gridaste:– Don Girolamo, lasci bere a me, –Agnolo mio gentil, voi m'ingannasteUna volta nel dir, che tre sireneVi regnavano in cuor leggiadre e caste;Eran tre damigiane piene piene. –…Agnol, voi siete il vino in corpo umano,E voi sarete il vino sotto terra,E chi il negasse negherebbe invano.Voi mi diceste un dì: – se vien la guerraVo' portare una pevera per casco,E far con una botte il serra serra. –Diceste ancora: – s'io morto non casco,Giuro sull'uva bianca, gialla, e nera,Che mi farò una casa come un fiasco. –Voi siete per il vino una bufera,Una tromba marina, e un vostro ditoAlza un barile come altri una pera.Bevete in ogni lingua e in ogni rito,In istil di tragedia, e in stil di farsa;Or bevete arrabiato, ora contrito.A definirvi la parola è scarsa,Voi siete tutto sopra questa scena;Non pensate, non siete una comparsa.Bevete all'aria torba e alla serena,E il vostro bere è tutta una bevutaDa colezione fino a dopo cena.Voi bevereste infino la cicutaMescolata col vino, e il vetrioloTinto in rosso berreste all'insaputa.Anche l'aceto, il so, vi va a fagiuolo,Perchè è parente del vino; e, se mattoDiventate, credendovi un orciuoloAmmattirete; e, questo è un detto e un fatto:Non v'ho sentito io spesso in voce chiocciaD'un'estasi esclamare nello scatto:– Com'è vaga la forma della boccia!E se piovesse invece d'acqua vino,Bramerei convertirmi in una doccia. –Agnol terrestre, e Poeta divino,E Avvocato Pisano in un'essenza,Voi siete un bevitore uno e trino.Siete del ber la pratica e la scienza,Un'osteria colle mani e co' piedi,In genere di fiasco una potenza.O sommo Giove, è ben che ci provvedi,Non tinger più le nuvole di rosso;Se no, cose vedrai che tu non credi.Quest'Agnolo terren vedrai, che, scossoIl suo carco mortal, si leva a volo,E le nuvole rosse a più non possoT'inghiottisce dall'uno a l'altro polo;E se mai tu facessi il mar rossiccio,In un attimo sol ti beve un molo.Non ti venisse mai, Giove, il capriccioDi scender giù di porpora coperto;Ti vedrei, sommo Giove, in un impiccio.Giove, non ci venir, sii bene esperto,Beve ogni rosso quest'Agnol terreno,Nè mette distinzion fra merto e merto.…Or torno, Agnolo, a voi col mio pensiere,Quando son vosco l'animo mi gode…Ma che vedo? bevete anche il bicchiere?Agnolo, non lo fate, il vetro rode;S'intende bere! ma bere anche il vetro!Basta! bisogna dir: – voi siete un prode;Un uomo tal, che puote in questo metroInsegnare a chiunque, un corridoreChe ancora il vento si lascia di retro. –Moderate un tal poco il vostro ardore,Ci son degli altri che pure hanno sete,Voi stabilite il regno del terrore.Lasciate un po' di vino se potete;Ci son degli altri: e se non siete sazio,Sorbite, quando vengon, le comete.Capisco ben che avete letto Orazio,Ma costui loda il vino, e non comandaChe se ne faccia poi cotanto strazio.…Voi gli volete proprio troppo bene,Il troppo stroppia, e qui voi siete tristo.Del resto siete un uom come conviene,Un uomo che vorranno celebrareLe nove Muse in nove cantilene.E se in Duomo volesse battezzareLa vendemmia, dipoi che ha partorito,Chiamerebbe voi solo per compare,S'ella non vi sapesse tanto arditoDa bevervi la madre col figlioccio,Senza lasciargli dare un sol vagito.E a dirvi queste cose io non vi noccio,Nè vi calunnio, chè in questa materiaSiete un grand'uomo, e non siete un fantoccio.Siete un poema epico, una seriaCosa davvero, voi siete un abissoSenza fondo, non siete una miseria.E per non esser più troppo prolissoVo' dirvi cosa che non è una ciancia;Sentite quel che nella mente ho fisso:Il dì che al mondo mostrerò la guanciaDi nuovo, in segno di una lieta cosa,Vi metterò un cannello nella pancia,E al popolo darò da bere a iosa.PANEGIRICODI MESSER AGNOLOAgnol di nome, e babau di sembianza,Chi dice mal di voi non vi ha veduto,Non vi ha sentito, non vi ha conosciuto,Non ha senno nè in forma, nè in sostanza.Voi non siete un mortal, ma una fragranzaDel ciel, che Dio con sè non ha voluto;Un vaso d'elezione giù piovuto,Pieno di vino e di buona creanza.Chi dice mal di voi non ha giudizio,Io lo ripeto, o parla per invidiaDella vostra eccellenza; e questo è un vizio,Che vela l'intelletto, una perfidia:Voi non siete un mortal, ma un precipizioDi belle cose; e se vedeva FidiaQuel volto ove s'annidiaTanto raggio di cielo, incontanenteSi disperava, e non facea più niente.Voi siete un accidenteNell'ordin naturale, un uomo nuovo,Nato non come noi, ma dentro un uovo.Parole io non ritrovoPer dir di voi chè lo stupor m'imbriglia:Non siete voi l'ottava maraviglia,Un caos, un parapiglia?Voi non avete d'uopo d'un cartello,Nè di chi gridi: – vengano a vedello. –Voi siete un filunguelloQuando cantate, e a lode ve lo reco,Se di paura fate morir l'eco.Convenitene meco,Vi fe' Natura, e si grattò l'orecchio,E disse: – questa è seta, e non capecchio. –La testa come un secchioVi fece, destinandola a capireUn capitale che non può fallire.…Io canterò, nè bramoMercè: conosco il merito, e l'adoro;Ravviso in faccia vostra il secol d'oro.Vergini Muse, in coroCantate, come l'Agnol mio gentileNascesse in Pisa in un bel dì d'Aprile.La Stella del BarileBalenò su quell'alma pur mo nataE l'ebbe de' suoi influssi battezzata.Canta, Musa garbata,Come apprese il Garzone ogni sapere,Si fe' dottore, e diventò bracciereCon sue dolci maniereDi Madama giustizia, che gli vuoleUn ben, che non si narra con parole.– E tu mi sembri un Sole, –A lui dice Madama; ed ei sospira,E gli occhi a guisa di lanterne gira.E la voglia mi tiraDi seguitare a dir; ma come fareA metter la mia barca in tanto mare?Io mi sento gelare;Nelle vostre virtù mai non si approda,Voi non avete nè capo, nè coda.La lingua invan si snodaA nuovo canto; immenso è l'argomento:Voi siete un astro, io sono un lume spento.

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Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
04 ağustos 2017
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
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