Kitabı oku: «La Bugia Perfetta», sayfa 2
CAPITOLO DUE
L’uomo era appostato nel corridoio esterno del condominio e si guardava continuamente alle spalle. Era mattina presto e un tizio come lui, grande e grosso come un armadio, afro-americano e con un cappuccino in testa, non poteva che attirare l’attenzione.
Era all’ottavo piano, subito fuori dall’appartamento della donna che sapeva abitare lì. Conosceva anche la sua auto e l’aveva vista parcheggiata nel garage di sotto, quindi era quasi certo che lei si trovasse in casa. Come precauzione, l’uomo bussò delicatamente alla porta.
Non erano neanche le sette del mattino, e lui non voleva svegliare prematuramente i vicini inducendoli ad affacciarsi curiosi per vedere cosa stesse succedendo. Era freddo fuori questa mattina e l’uomo non avrebbe voluto levarsi il cappuccio dalla testa. Ma temendo che avrebbe dato troppo nell’occhio, alla fine se lo tirò giù, esponendo la pelle all’aria pungente.
Non sentendo nessuna risposta al suo bussare, fece un inutile tentativo di aprire la porta, che era certo di trovare chiusa. Lo era. Andò quindi alla finestra accanto. Quella era leggermente aperta. Era dibattuto se provare davvero ad entrare da lì. Dopo un po’ di titubanza, prese la sua decisione, sollevò la finestra e saltò all’interno. Sapeva che chiunque l’avesse visto avrebbe probabilmente chiamato la polizia, ma decise che valeva la pena di correre quel rischio.
Una volta all’interno, si diresse silenziosamente verso la camera da letto. Tutte le luci erano spente e c’era uno strano odore che lui non riusciva a identificare. Mentre si addentrava di più nell’appartamento, si sentì percorrere da uno strano brivido che non aveva niente a che vedere con la temperatura. Raggiunse la porta della camera da letto, ruotò delicatamente la maniglia e sbirciò all’interno.
Lì sul letto c’era la donna che si aspettava di vedere. Sembrava dormire, ma c’era qualcosa di strano. Anche alla tenue luce della mattina, la sua pelle appariva stranamente pallida. E poi sembrava del tutto immobile. Il petto non stava salendo e scendendo nel normale movimento indotto dalla respirazione. Niente di niente. L’uomo entrò nella camera e si avvicinò al letto. L’odore ora era fortissimo, un puzzo di marcio che gli fece lacrimare gli occhi e gli rivoltò lo stomaco.
Avrebbe voluto allungare una mano e toccarla, ma non riuscì a farlo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non trovò le parole. Alla fine si girò e uscì dalla stanza.
Tirò fuori il telefono e digitò l’unico numero che gli venisse in mente. Ci furono diversi squilli prima che una voce registrata gli rispondesse. Lui premette diversi pulsanti e aspettò la risposta mentre si ritirava nel salotto dell’appartamento. Alla fine una voce risuonò dall’altro capo della linea.
“911. Qual è la vostra emergenza?”
“Sì, mi chiamo Vin Stacey. Penso che la mia amica sia morta. Si chiama Taylor Jansen. Sono venuto a casa sua perché per diversi giorni non sono riuscito a mettermi in contatto con lei. È stesa a letto. Ma non si muove e… non mi pare che sia a posto. E poi c’è puzza.”
In quel momento la realtà della situazione lo colpì: la vivace e allegra Taylor era morta, lì, a pochi metri da lui. Vin si chinò in avanti e vomitò.
*
Jessie sedeva nel sedile posteriore per quella che sperava fosse l’ultima volta. Il veicolo del servizio federale parcheggiò nella struttura del Dipartimento di Polizia di Los Angeles, in un posteggio dedicato ai visitatori. Lì ad attenderla c’era il suo capo, il capitano Roy Decker.
Non sembrava molto diverso dall’ultima volta che l’aveva visto. Sulla sessantina, anche se sembrava molto più vecchio, Decker era alto e magro, con la testa quasi calva, profonde rughe in volto, un naso adunco e occhi piccoli e penetranti. Stava parlando con un agente in uniforme, ma era evidente che si trovava lì per aspettare lei.
“Wow,” disse Jessie con tono sarcastico ai federali seduti davanti nell’auto. “Mi sento come una donna nel diciottesimo secolo che viene formalmente ceduta al suo sposo dal padre.”
Il federale che occupava il posto del passeggero le lanciò un’occhiataccia. Si chiamava Patrick Murphy, anche se tutto lo chiamavano Murph. Basso e tarchiato, con i capelli castano chiaro tagliati corti, emanava una sensibilità pragmatica, anche se nel tempo quell’atteggiamento si era rivelato essere un po’ un suo stratagemma.
“Un tale scenario richiederebbe un marito intenzionato a prenderti, cosa che trovo piuttosto improbabile,” disse l’uomo che aveva coordinato buona parte della sua sicurezza durante la sua fuga dai due serial killer.
Un sorriso appena abbozzato che gli incurvava leggermente le labbra lasciava intendere che stava scherzando.
“Sei sempre un principe tra i principi, Murph.,” disse Jessie con finta gentilezza. “Non so come farò a cavarmela adesso, senza la tua affascinante presenza al mio fianco.”
“Vale lo stesso per me,” mormorò lui.
“E lo stesso vale per la tua carismatica loquacità, agente Toomey,” aggiunse Jessie rivolgendosi all’autista, un uomo dalla stazza imponente, con la testa rasata e l’espressione vuota.
Toomey, che parlava molto raramente, si limitò ad annuire.
Il capitano Decker, che aveva finito di parlare con l’agente, guardò i tre con impazienza, aspettando che uscissero dall’auto.
“Immagino che sia giunta l’ora,” disse Jessie aprendo la portiera e uscendo con maggiore energia di quanta ne sentisse in corpo. “Come va, capitano?”
“Più complicato oggi che ieri,” rispose lui, “ora che ho lei di nuovo fra le mani.”
“Ma le giuro, capitano, che il nostro Murph qui ha messo da parte un’ottima dote per me. E io prometto che non sarò un peso e che sarò un’ottima mogliettina.”
“Cosa?” chiese il capitano, perplesso.
“Oh, papi,” disse rivolgendosi a Murphy. “Devo lasciare la fattoria? Te e mamma mi mancherete un sacco.”
“Che diavolo sta succedendo?” chiese Decker.
Murph si sforzò di restare serio e impassibile e si girò verso il confuso capitano che si era avvicinato alla portiera del passeggero.
“Capitano Decker,” disse con tono formale, porgendogli un portablocco con un foglio attaccato. “Il servizio di sicurezza federale statunitense non è più richiesto. Riconsegno qui ufficialmente la custodia di Jessie Hunt al Dipartimento di Polizia di Los Angeles.”
“Custodia?” ripeté Jessie risentita. Murph la ignorò e continuò.
“Qualsiasi altra misura di sicurezza è ora obbligo del vostro dipartimento. La firma su questo documento la sancirà come tale.”
Decker prese il portablocco e firmò il foglio senza neanche leggerlo. Poi lo restituì a guardò Jessie.
“Buone notizie, Hunt,” disse con tono burbero, senza il minimo accenno dell’entusiasmo che solitamente accompagnava le buone notizie. “I detective che stanno tentando di rintracciare Bolton Crutchfield hanno trovato il video di una persona che corrisponde alla sua descrizione e che ha varcato ieri il confine con il Messico. Pare che lei si sia finalmente liberata anche del secondo inseguitore.”
“È stato confermato anche il riconoscimento facciale?” chiese Jessie scettica, rinunciando ora alla vocina farsesca di prima.
“No,” ammise il capitano. “Ha tenuto sempre la testa bassa mentre attraversava il ponte a piedi. Ma corrisponde quasi perfettamente alla descrizione fisica, e il fatto che sia stato attento a non farsi riprendere in viso suggerisce che sapesse quello che stava facendo.”
“Questa è davvero una buona notizia,” disse Jessie, decidendo di tenere per sé qualsiasi ulteriore commento.
Era d’accordo con il fatto che probabilmente non si trovava più tra le mire di Crutchfield, ma non per un qualche video approssimativo che le pareva fin troppo comodo. Ovviamente non le sembrava di poter raccontare a Decker il vero motivo della sua tranquillità, vale a dire la consapevolezza che il serial killer avesse un debole per lei.
“Pronta a tornare al lavoro?” le chiese, soddisfatto di aver sollevato ogni preoccupazione lei potesse ancora nutrire.
“Solo un minuto, capitano,” rispose Jessie. “Devo solo scambiare una rapida parola con gli agenti federali.”
“Faccia veloce,” disse Decker mentre si allontanava. “Ha ad aspettarla una lunga giornata da passare dietro alla scrivania.”
“Sì, signore,” gli rispose, poi si chinò verso il finestrino dalla parte dell’autista.
“Penso che mi mancherai più di tutti, Spaventapasseri,” disse a Toomey, che era l’agente principale assegnatole negli ultimi due mesi. L’uomo annuì in risposta. A quanto pareva non c’era bisogno di parole. Poi Jessie andò dall’altra parte dell’auto, dal lato del passeggero e guardò Murphy con volto colpevole.
“A parte tutti gli scherzi, volevo solo dirti quanto abbia apprezzato tutto quello che hai fatto per me. Ti sei messo in prima linea per difendermi e non me ne dimenticherò mai.”
Aveva ancora le stampelle, anche se i gessi alle gambe erano stati tolti la settimana precedente, sostituiti ora da stivali morbidi. E anche la fascia attorno al braccio era stata recentemente eliminata.
Tutti quei danni erano stati causati da Xander Thurman quando l’aveva investito con l’auto durante la sua imboscata a lui e Jessie in un vicolo. Murph ne era uscito con la frattura di entrambe le gambe e della clavicola. Quindi era ufficialmente in congedo dal lavoro per altri quattro mesi. Si era presentato questa mattina solo per salutarla.
“Non iniziare a fare la sentimentale con me, adesso,” protestò. “Abbiamo questa perfetta ‘alleanza’ fredda e immusonita. Rischi di rovinare tutto.”
“Come sta la famiglia di Emerson?” gli chiese lei sottovoce.
Troy Emerson era l’agente federale a cui suo padre aveva sparato alla testa in quella terribile serata. Jessie non aveva neanche saputo il suo nome di battesimo prima che morisse, e neanche sapeva che si era sposato recentemente e che aveva un figlio di quattro mesi. Non aveva potuto andare al funerale a causa delle sue ferite, ma aveva successivamente contattato la vedova. Non aveva ricevuto risposta.
“Kelly si sta riprendendo,” le assicurò Murph. “Ha ricevuto il tuo messaggio. So che vuole risponderti, ma ha solo bisogno di un po’ di tempo ancora.”
“Capisco. A essere onesta, capirei anche se non volesse mai rivolgermi la parola.”
“Ehi, non prenderti tutta la colpa,” le rispose lui quasi arrabbiato. “Non dipende da te se tuo padre era un pazzo. E Troy conosceva i rischi quando ha preso questo lavoro. Li conoscevamo tutti. Puoi sentirti vicina a loro. Ma non sentirti in colpa.”
Jessie annuì, incapace di pensare a una risposta adatta.
“Ti darei un abbraccio,” le disse Murph, “ma salterei per il male, e non per motivi emotivi. Quindi facciamo finta che l’abbia fatto, ok?”
“Tutto quello che vuole, agente Murphy,” gli rispose.
“E adesso non metterti a fare la formale con me,” insistette lui mentre si rimetteva comodo, appoggiato allo schienale del sedile passeggeri. “Puoi ancora chiamarmi Murph. Non è che io smetta di chiamarti con il tuo soprannome.”
“Che sarebbe?” gli chiese Jessie.
“La mia rottura di scatole.”
Jessie non poté fare a meno di ridere.
“Arrivederci, Murph,” gli disse. “Dai a Toomey un bacio da parte mia.”
“Lo avrei fatto anche se non me l’avessi chiesto,” gridò, mentre Toomey schiacciava sull’acceleratore e i copertoni fischiavano contro il pavimento del garage.
Jessie si girò e trovò Decker che la guardava impaziente.
“Ha finito?” le chiese col suo modo brusco. “O dovrei forse mettermi comodo a guardare Le pagine della nostra vita, mentre voi elaborate ancora un po’ le vostre emozioni?”
“È bello essere tornata, capitano,” disse lei sospirando.
Il capitano si diresse verso l’ingresso e le fece cenno di seguirlo. Jessie ignorò i dolorini a gambe e schiena e fece una piccola corsa per raggiungerlo. L’aveva appena raggiunto, che lui subito si buttò a spiegare il piano che aveva per lei.
“Allora, non si aspetti del lavoro sul campo per un po’ di tempo,” le disse burbero. “Non stavo scherzando quando parlavo di tenerla alla scrivania. È ancora arrugginita, e vedo che sta disperatamente tentando di non zoppicare da quella gamba, mentre cammina. Fino a che non sarò convinto che è tornata del tutto in forma, dovrà abituarsi alle luci fluorescenti della centrale.”
“Non pensa che potrei tornare più rapidamente quella di prima se mi tuffassi a capofitto in qualche caso?” chiese Jessie, tentando di non apparire implorante. Doveva fare due passi per ciascuno di quelli del capitano per non restare indietro mentre percorrevano velocemente il corridoio.
“Buffo, è proprio quello che ha detto anche il suo amico Hernandez quando è tornato la scorsa settimana. Ho messo anche lui alla scrivania. E indovini un po’? È ancora lì.”
“Non sapevo che Hernandez fosse tornato,” disse Jessie.
“Pensavo che foste amiconi,” rispose il capitano, mentre svoltavano l’angolo.
Jessie lo guardò di sbieco, cercando di capire se il suo capo stesse alludendo a qualcosa. Ma sembrava essere sincero.
“Siamo amici,” confermò lei. “Ma pensavo che con le ferite che ha subito e con il divorzio, volesse un po’ più di tempo per sé.”
“Davvero?” disse Decker. “Avrebbe potuto quasi convincermi.”
Jessie non aveva idea di come interpretare quel commento, ma non ebbe il tempo di fare domande perché arrivarono al centro della stazione, una grande stanza piena di un marasma di scrivanie tutte messe insieme e popolate da vari detective che rappresentavano le diverse divisioni del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Dalla parte opposta della stanza, insieme ad altri agenti della Sezione Speciale Omicidi, c’era Ryan Hernandez.
Per essere un uomo che aveva subito due pugnalate solo due mesi prima, sempre ad opera di suo padre (sembrava che ultimamente tutte le persone che conosceva venissero assalite e ferite da suo padre), Hernandez sembrava piuttosto in forma.
L’avambraccio sinistro non era neanche più fasciato. L’altra ferita era sul lato sinistro dell’addome. Ma dato che l’agente ora era in piedi e stava ridendo, era probabile che neanche quella gli desse più tanto disturbo.
Mentre Decker la accompagnava verso di lui, Jessie si sentì perplessa per il suo attuale sentimento di irritazione nel vedere Hernandez in atteggiamento così scherzoso. Avrebbe dovuto essere felice di non vederlo depresso perché il suo matrimonio era andato in pezzi e perché era stato quasi ucciso. Ma se stava così bene, perché non l’aveva contattata più di quelle due volte molto sbrigative negli ultimi due mesi?
Lei si era sforzata molto di più per contattarlo e raramente lo aveva sentito fare lo stesso. Aveva pensato che la cosa fosse dovuta alla sua difficile situazione, e aveva deciso di lasciargli spazio perché si riprendesse. Ma per come lo vedeva ora, tutto sembrava essere al profumo di rose.
“È bello vedere la Sezione Speciale Omicidi così di buon umore in una mattinata così bella,” tuonò Decker, facendo sobbalzare i cinque uomini e la donna che facevano parte dell’unità. Il detective Alan Trembley, distratto come sempre, lasciò addirittura cadere la sua brioche.
La Sezione Speciale Omicidi era una divisione a cui venivano assegnati casi di alto profilo, spesso con intenso scrutinio mediatico. Ciò significava un sacco di omicidi con molteplici vittime, oppure casi di omicidi seriali. Era un compito prestigioso e Hernandez era considerato il migliore della squadra.
“Ma guarda chi è tornata,” disse con entusiasmo il detective Callum Reid. “Non sapevo che tornavi oggi. Ora finalmente è tornata un po’ di classe qua dentro.”
“Sai,” disse Jessie, decidendo di accogliere l’allegria del gruppo, “potresti avere classe anche tu, Reid, se non ne mollassi una ogni dieci secondi. Non è così difficile.”
Tutti scoppiarono a ridere.
“È divertente perché è vero,” disse Trembley allegramente, i riccioli biondi e selvaggi che rimbalzavano mentre rideva. Si tirò su gli occhiali sul naso, cosa che faceva di continuo, dato che gli scivolavano sempre giù.
“Come ti senti, Jessie?” chiese Hernandez quando le risate si furono placate.
“Sto recuperando,” disse lei, cercando di non suonare fredda. “Pare che tu stia alla grande.”
“Ci sono quasi,” disse lui. “Ho ancora qualche dolorino, ma come continuo a dire al capitano qui, se mi lasciasse giocare un po’, potrei davvero fare la differenza. Sono stanco di stare in panchina, coach.”
“È sempre la stessa storia, Hernandez,” disse Decker con il suo tono scontroso, chiaramente stufo della consueta analogia con la squadra di calcio. “Hunt, ti do qualche minuto per sistemarti. Poi daremo un’occhiata al tuo lavoro. Ho un bel mucchio di casi di omicidio irrisolti che potrebbero avere bisogno di un occhio fresco. Magari il punto di vista di una profiler potrebbe dare uno scossone alla situazione. Mi aspetto che tutti voi mi diate aggiornamenti sui vostri casi tra cinque minuti nel mio ufficio. A quanto pare avete tempo libero.”
Si diresse verso il suo ufficio, brontolando fra sé e sé. I componenti del team misero insieme le loro cartelle mentre Hernandez si lasciava cadere sulla sedia di fronte a Jessie.
“Tu non hai niente di cui fare rapporto?” gli chiese lei.
“Non ho ancora nessun caso mio. Ho passato tutto il tempo a dare aggiornamenti a questa gente. Magari adesso che sei tornata possiamo metterci in squadra per convincere Decker a mandarci fuori a seguire qualcosa. Noi due insieme facciamo quasi una persona sana.”
“Sono contenta che tu sia di così buon umore,” disse Jessie, cercando disperatamente di non dire di più, ma fallendo clamorosamente. “Mi avrebbe fatto piacere se mi avessi detto prima che stavi tanto bene. Me ne sono stata alla larga perché pensavo che stessi sistemando le tue cose.”
Il sorriso di Hernandez sfumò mentre capiva pian piano quello che gli stava dicendo. Parve soppesare il modo in cui rispondere. Mentre aspettava la sua risposta e nonostante la sua irritazione, Jessie non poté fare a meno di ammettere che quell’uomo si era davvero mantenuto bene, pur avendo dovuto gestire un divorzio e delle brutte ferite.
Sembrava tutto d’un pezzo. Non c’era un ciuffo di capelli neri fuori posto. Gli occhi castani erano limpidi e concentrati. E in qualche modo, nonostante le ferite, era riuscito a tenersi in forma. Poteva aver perso qualche chilo, probabilmente per la difficoltà a mangiare dopo che lo stomaco gli era stato aperto a metà. Ma all’età di trentun anni, aveva ancora l’aspetto tonico di uno che si allenava molto spesso.
“Sì, a proposito di questo,” iniziò a dire, risvegliandola dalle sue considerazioni. “Volevo chiamarti, ma il fatto è che sono successe delle cose e non ero sicuro di come parlartene.”
“Che genere di cose?” gli chiese lei nervosamente. Non le piaceva la direzione che il discorso stava prendendo.
Hernandez abbassò lo sguardo, come se stesse decidendo come affrontare al meglio quello che era evidentemente un argomento delicato. Dopo cinque minuti buoni, risollevò lo sguardo su di lei. Proprio mentre stava per aprire bocca, Decker uscì di scatto dall’ufficio.
“Abbiamo una sparatoria a opera di una gang nella Westlake Nord,” gridò. “La scena è ancora attiva. Ci sono già quattro morti e un numero indefinito di feriti. Mi servono SWAT, HSS e unità gang subito sul posto. Tutto l’equipaggio a bordo, gente!”
CAPITOLO TRE
Subito tutti si misero in moto nella centrale. Molti si diressero verso il centro per l’attrezzatura tattica, dove presero dell’artiglieria pesante e giubbotti anti-proiettile. Jessie ed Hernandez si scambiarono uno sguardo, insicuri sul da farsi. Lui fece per alzarsi dalla sedia, quando Decker lo fermò.
“Non ci pensi neanche, Hernandez. Non pensi di potersi nemmeno solo avvicinare a questa faccenda.”
Hernandez si lasciò ricadere sulla sedia. Sia lui che Jessie osservarono la frenesia della stazione con effettiva gelosia. Dopo pochi minuti, le cose si calmarono e la gente rimasta nella centrale tornò al proprio lavoro. Prima di quel turbinare di attività, nella centrale c’erano state con tutta probabilità una cinquantina di persone. Ora sembrava una città fantasma. Inclusi Hernandez e Jessie, c’erano meno di dieci persone in tutto.
Improvvisamente Jessie sentì un forte tonfo. Si voltò e vide che il capitano Decker aveva lasciato cadere sulla sua scrivania una dozzina di spesse cartelle.
“Questi sono i casi che voglio farle revisionare,” disse. “Avevo sperato di potervi dare un occhio insieme a lei, ma ovviamente sarò piuttosto impegnato nelle prossime ore.”
“Aggiornamenti sulla sparatoria?” gli chiese Jessie.
“La sparatoria è terminata. Si sono sparpagliati tutti non appena sono arrivate le nostre pattuglie. Siamo saliti a sei morti, tutti di gang rivali. Un’altra dozzina circa sono feriti. Abbiamo una trentina di agenti e una dozzina di detective che stanno rastrellando la zona. Senza parlare della SWAT.”
“E io?” chiese Hernandez. “Come posso essere di aiuto, capitano?”
“Può dare un’occhiata ai casi dei suoi colleghi fino a che non tornano. Sono certo che lo apprezzeranno molto. Ora devo tornare a questa cosa delle gang.”
Rientrò di corsa nel suo ufficio, lasciandoli soli con le loro montagne di carte.
“Secondo me sta facendo lo stronzo apposta,” mormorò Hernandez.
“Vuoi finire di dirmi quello che mi stavi raccontando prima?” chiese Jessie, chiedendosi se non stesse forse tirando troppo.
“Non ora,” rispose lui, perdendo del tutto la rilassatezza della voce. “Magari più tardi, quando saremo fuori dall’ufficio e tutto sarà meno… amplificato.”
Jessie annuì, d’accordo con lui, anche se era comunque delusa. Piuttosto che fare il muso o stare nello scomodo spazio della sua testa, si concentrò sulle cartelle dei casi che aveva davanti.
Magari concentrarmi sui dettagli di alcuni omicidi mi schiarirà le idee.
Ridacchiò silenziosamente davanti al proprio tetro senso dell’umorismo mentre apriva la prima cartella.
Funzionò. Si immerse così profondamente nei dettagli dei casi che quasi passò un’ora senza praticamente notare lo scorrere del tempo. Solo quando Hernandez le diede un colpetto sulla spalla, Jessie sollevò lo sguardo e si rese conto che era metà mattina.
“Penso di aver trovato un caso per noi,” disse, porgendole con fare provocatorio un pezzo di carta.
“Credevo che non dovessimo andare a caccia di nuovi casi,” gli rispose lei.
“Infatti,” ammise lui. “Ma qui non c’è nessun altro che lo prenda e penso che sia il genere di cosa che Decker potrebbe permetterci di assumere come incarico.”
Le porse il foglio di carta. Senza la riluttanza che probabilmente avrebbe dovuto mostrare, Jessie lo prese. Non le ci volle molto per rendersi conto che avrebbero potuto davvero avere fortuna nel convincere Decker ad assegnare loro quel caso.
Sembrava piuttosto semplice. Una donna di trent’anni era stata trovata morta nel suo appartamento a Hollywood. Il giovane che per primo aveva denunciato il ritrovamento era stato il principale sospettato quando un vicino aveva affermato di averlo visto entrare nell’appartamento dalla finestra. Ma lui aveva dichiarato di essere un collega intenzionato a controllare cosa le fosse successo non avendola sentita per due giorni. Non c’erano evidenti segni di violenza e l’impressione iniziale sulla scena era che si trattasse di un suicidio.
“Pare che abbiano la cosa ben sotto controllo. Non sono sicura di cosa potremmo offrire…”
“Sento un tacito ‘ma’ tra le righe,” disse Hernandez sorridendo.
Jessie non voleva dargli la soddisfazione, ma si trovò a sorridere leggermente a sua volta.
“Ma… c’è un riferimento a vecchi lividi su polsi e collo, che potrebbero suggerire precedenti abusi. Probabilmente vale la pena dare una controllata. E secondo il suo collega, lavorava come personal trainer in una palestra esclusiva dove si era specializzata in clienti di alta levatura. È possibile che alcuni di loro si stizziscano se il Dipartimento di Polizia di Los Angeles non investirà sufficienti risorse nel caso.”
“Esatto,” disse Hernandez entusiasta. “Qui sta il nostro ingresso, Jessie. Se conosco bene Decker, non vorrà rischiare di alienare il popolo, se può evitarlo. Assegnare il caso a un detective della HHS e a una celebre profiler forense lo allontanerà da ogni genere di critica. E poi sembra veramente fatto apposta per farci tornare tranquillamente al lavoro. Non ci sono segni di violenza. Se è stato un omicidio, parliamo probabilmente di avvelenamento o di qualcosa del genere. Mi sembra un fantastico caso privo di accoltellamenti.”
“A me sembrava piuttosto convinto nel volerci far stare incollati alle scrivanie per un po’,” gli ricordò Jessie.
“Io penso che accetterà,” insistette Hernandez. “E poi è così distratto con la sparatoria tra le gang, che potrebbe dire di sì anche solo per sbarazzarsi di noi. Almeno proviamoci.”
“Vengo con te,” disse Jessie. “Ma non parlo io. Se taglierà la testa di uno di noi, sarà la tua.”
“Codarda,” le rispose lui con tono canzonatorio.
*
Jessie doveva ammettere che Ryan Hernandez era bravo.
Gli bastò pronunciare le parole “clienti abbienti”, “Hollywood” e “probabile suicidio” perché Decker li mandasse fuori a lavorare sul caso. Quelle parole chiave erano andate tutte a colpire i punti deboli del loro capo: la sua paura della cattiva pubblicità, il costante obiettivo di non alienare i suoi supervisori e il suo profondo desiderio di non avere la costante presenza assillante del detective Hernandez alle calcagna.
La sua unica regola era piuttosto semplice.
“Se inizia a sembrare un omicidio e vi pare che il colpevole sia uno avvezzo alla violenza, chiamatemi per darvi rinforzi.”
Ora, mentre Hernandez andava verso Hollywood, sembrava quasi traboccante di entusiasmo. E così sembrava anche il suo piede sull’acceleratore.
“Stai attento con la velocità, Schumacher,” lo mise in guardia Jessie. “Non voglio finire in un incidente mentre vado sulla scena di un caso.”
Non fece nessuna allusione alla loro conversazione di prima, decidendo di lasciare che fosse lui a risollevare l’argomento quando l’avesse ritenuto opportuno. Non ci volle molto. Dopo che l’iniziale entusiasmo per essere effettivamente diretti verso la scena di un crimine fu svanito, Hernandez si voltò a guardarla.
“Allora, ecco il fatto,” iniziò, le parole che gli uscivano dalla bocca più velocemente del solito. “Avrei dovuto contattarti più spesso quando le acque si sono calmate. Voglio dire, all’inizio l’ho fatto, ovviamente. Ma tu eri malconcia e non parlavi molto, cosa che capisco benissimo.”
“Davvero?” chiese Jessie scettica.
“Certamente,” rispose lui, mentre usciva dall’autostrada 101 e si immetteva sulla Vine Street. “Hai dovuto uccidere tuo padre. Anche se era un pazzo, era tuo padre. Ma non ero sicuro di come parlarne con te. E c’era il fatto che il tuo padre psicolabile mi aveva accoltellato. Non è stata colpa tua, ma avevo paura che tu lo pensassi. Quindi avevo tutte queste cose in testa mentre ogni tanto lo stomaco mi andava in emorragia, e mi riempivano di antidolorifici, e cercavo di mandare giù qualcosa da mangiare. E quando ho pensato di poter discutere della cosa in modo del tutto adulto e consapevole, mia moglie mi ha formalmente servito le carte del divorzio. Doveva succedere, lo so, ma c’è stato qualcosa nel ricevere realmente quei documenti ufficiali, soprattutto mentre ero ancora in ospedale, che mi ha veramente devastato. Sono caduto in questo buco nero. Non volevo mangiare. Non voleva fare riabilitazione. Non volevo parlare con nessuno, cosa che invece avrei dovuto fare.”
“Posso raccomandarti qualcuno se…” iniziò a dire Jessie.
“Grazie, ma a dire il vero è tutto a posto adesso,” la interruppe lui. “Decker alla fine mi ha ordinato di vedere qualcuno. Ha detto che c’era il pericolo che non mi facesse tornare se non mi fossi rimesso a posto. Quindi l’ho fatto. E mi è stato di aiuto. Ma allora erano tipo passate sei settimane dall’aggressione, e mi sembrava strano chiamarti così, di punto in bianco. E a essere onesto, non ero sicuro al 100% di stare bene… psicologicamente, e non volevo perdere il controllo quando avrei parlato con te seriamente per la prima volta dopo che entrambi avevamo rischiato di morire. Allora ho tergiversato ancora un po’. E poi c’è l’altra cosa.”
“Quale altra cosa?”
“Sai quella cosa dei ‘colleghi che vanno d’accordo e poi la situazione diventa strana perché forse c’è qualcosa’? Non sto immaginando cose inesistenti, vero?”
Jessie fece un profondo respiro prima di rispondere. Dare una risposta onesta avrebbe cambiato le cose. Ma lui stava mettendo tutto allo scoperto sul tavolo. Era da codardi non fare lo stesso.
“No, non stai immaginando niente.”
Hernandez rise con leggero disagio, una risata che si trasformò in un susseguirsi di colpi di tosse.
“Stai bene?” gli chiese Jessie.
“Sì, solo che… ero nervoso al pensiero di parlare dell’ultima cosa.”
Rimasero in silenzio per un minuto mentre lui si destreggiava nel traffico della Sunset Boulevard, cercando di trovare un posto dove parcheggiare.
“Quindi questo è il fatto?” chiese lei alla fine.
“Questo è il fatto,” confermò lui, mentre finalmente posteggiava.
“Sai,” disse lei con voce delicata. “Non sei per niente fico come inizialmente pensavo che fossi.”
“È tutta una facciata,” disse lui un po’ scherzosamente, ma chiaramente solo un po’.
“In un certo senso mi piace. Ti rende più… avvicinabile.”
“Dovrei dire grazie, penso.”
“Beh, forse dovremmo parlarne un po’ di più,” rispose lei.
“Penso che sarebbe la cosa matura da fare,” confermò lui. “Intendi dopo che abbiamo dato un’occhiata al cadavere su di sopra, giusto?”
“Sì, Ryan. Prima il cadavere. Poi le conversazioni strane.”