Kitabı oku: «Tracce di Morte», sayfa 11
CAPITOLO VENTIDUE
Martedì
L’alba
Alimentata quasi solo dall’adrenalina, Keri sbucò dalla freeway 210 vicino a La Cañada Flintridge e puntò a nord in direzione della Angeles Crest Highway. Stava spuntando il sole alla sua destra e riusciva a vedere in lontananza il Jet Propulsion Laboratory mentre seguiva la serpeggiante strada a due corsie nella Angeles National Forest.
In pochi minuti, la gigantesca città appena più a sud venne dimenticata e lei si ritrovò circondata da altissimi alberi mentre proseguiva su una scoscesa e rocciosa montagna. Poco dopo le sei e trenta raggiunse la sua destinazione, una stazione di sosta su una stradina di terra a ovest del Woodwardia Canyon.
Un quarto di miglio più giù, quattro veicoli della polizia erano parcheggiati davanti a un furgone nero. Due erano del LAPD e altri due erano dello sceriffo della contea di Los Angeles. C’era anche un furgone del CSU e vide gli investigatori esaminare attentamente il veicolo, raccogliendo prove. Ray e Hillman erano a bordo strada, a parlare. C’erano anche i detective Sterling e Cantwell, che ascoltavano attentamente.
Keri uscì e li raggiunse. Avrebbe voluto essersi ricordata di portare con sé una giacca. A quell’ora sulle montagne faceva freddo, persino durante un’ondata di caldo. Rabbrividì un po’, non sapendo se fosse per via della temperatura o per la vista che aveva davanti.
Le portiere del furgone erano tutte aperte. Dentro, non c’erano né sangue né segni di lotta. Il posacenere era pieno di mozziconi. Sul retro, una borsa marrone piena di barrette ai cereali granola, patatine, gatorade e cracker era lacerata. Le chiavi erano inserite nell’accensione.
Ray vide Keri e le si avvicinò.
“Stavano scappando,” disse, mostrandole un biglietto scritto a mano dentro a una bustina trasparente delle prove.
Sto per iniziare una nuova vita.
Tutto quello che voglio è che mi lasciate tutti in pace.
Se mi riporterete indietro, scapperò ancora.
Ashley
Keri scosse la testa.
“Queste sono stronzate.”
“No, è vero,” disse Ray. “L’abbiamo fotografato e inviato per messaggio a Mia Penn. Ha detto che è sicuramente la scrittura di Ashley. In più è la carta da lettere che Ashley ha ricevuto per il compleanno. Il biglietto è stato puntato al cruscotto con un orecchino, pure quello sicuramente di Ashley.”
“Non me la bevo,” disse Keri.
“Guardati intorno, Keri,” disse Ray. “Sei sulla Angeles Crest Highway in direzione nordest. Scommetto che avevano pianificato di evitare le autorità percorrendola fino a Wrightwood, più o meno, per poi prendere la Fifteen Freeway e proseguire a nord fino a Las Vegas. Da ciò che vedo, si sono fermati qui per usare il bagno. Poi sono tornati nel furgone, che non è ripartito.”
“Come lo sai?”
“Ci abbiamo provato, guarda.” La accompagnò al furgone, si sistemò i guanti e girò la chiave. Non accadde nulla. “I terminali della batteria sono corrosi fino all’osso. La batteria non entra in contatto con il cavo.”
“Cavolo, devi solo levarla e grattarne l’interno con una chiave e poi girarla ancora.”
“Tu lo sai, io lo so, ma una ragazzina di quindici anni non lo sa,” disse. “Non è partito e se ne sono andati in autostop.”
“Continui a parlare al plurale. Con chi era?” chiese.
“Con questa qui, solo Dio può saperlo.”
Keri rimase ferma in silenzio, cercando di trovare un senso alle cose.
Poi disse, “A chi appartiene il furgone?”
“Dexter Long.”
Keri non aveva mai sentito prima quel nome.
“Chi è?”
“È uno studente dell’Occidental College,” disse Ray. “Il furgone è registrato a suo nome. Apparentemente qualcuno l’ha rubato dal garage del campus. Il ragazzo non sapeva nemmeno che non ci fosse più. Vive in un dormitorio e non lo guida da più di un mese.”
“Non l’aveva prestato a nessuno?”
“No.”
“Allora come ha fatto qualcuno a prendere le chiavi?”
“Le lascia sul parasole.”
“Con la portiera aperta?”
“Pare di sì.”
“Merda.”
“Già.”
“Allora, state prendendo le impronte?”
“Le hanno già prese,” disse Ray. “Ma se Ashley è con un altro adolescente che non è ancora abbastanza grande da guidare, a meno che non abbia precedenti penali non troveranno nessuna corrispondenza.”
Hillman li raggiunse e disse, “Abbiamo solo perso tempo.”
Keri si accigliò.
“Crede che sia vero? Che Ashley sia scappata?”
Annuì.
“Non c’è nient’altro da pensare,” disse. “Non so con chi, né perché, esattamente, ma a questo punto non mi interessa granché. Per quanto mi riguarda, non è più un caso del dipartimento.”
“Che cosa intende dire?”
“Non è più sotto la nostra giurisdizione. La contea si è offerta di coordinare le indagini con l’FBI, una volta che avranno preso in carico ufficialmente il caso,” disse Hillman. “Torniamo tutti ai casi di persone scomparse davvero. Non è che manchino.”
“Ma…”
Hillman la interruppe.
“Niente ma,” disse. “Siamo fuori dal caso. Non mi sfidi su questo, Locke. Lei cammina sul filo del rasoio, da come stanno le cose. Per quanto ne so ha avuto alterchi fisici con almeno tre persone nelle ultime dodici ore. E queste sono solo quelle di cui sono a conoscenza. Tutta questa roba da far west finisce qui. Cerco di essere il più chiaro possibile perché sono tremendamente serio.”
Ray le mise una mano sulla spalla.
“Credo che il tenente Hillman possa aver ragione su questo punto,” disse. “Abbiamo seguito ogni pista. Ma nulla dimostra in modo definitivo che Ashley Penn sia stata rapita, Keri. Mentre invece abbiamo un sacco di roba che suggerisce che sia fuggita.”
“Potrebbe essere una trappola.”
“Tutto è possibile, immagino. Ma anche così, lo determineranno la contea e l’FBI. Lascia perdere, Keri. Ashley Penn non è tua figlia. È una ragazza problematica, ma non è più un nostro problema.”
“Se avete torto stiamo perdendo tempo prezioso.”
“Me ne prenderò la responsabilità io,” disse Hillman prima di andarsene.
Sì, ma lei non è il solo che avrà gli incubi.
CAPITOLO VENTITRÉ
Martedì
L’alba
Quando si svegliò, Ashley si accorse subito che c’era qualcosa di diverso. L’interno del silo non era più buio pesto. Invece, vaghi raggi di luce solare si infiltravano dai bordi del portello che c’era in cima. Abbastanza da permetterle di distinguere le cose senza usare la torcia.
Scattò in piedi. Dopo essersi presa un momento per mettersi a posto, notò qualcos’altro.
Un fascio di luce schizzava anche attraverso un buco nella parete del silo. Il buco aveva la dimensione di un quarto di dollaro, sul muro appena sopra la sua testa. Quando saltò, riuscì quasi ad arrivarci.
Aveva bisogno di uno sgabello. Rovistando nel cestino del cibo, trovò alcune delle scatolette di zuppa. Le accatastò sul pavimento sul lato del buco e poi vi sistemò l’asse allentata sopra, per il lungo, creando una tavola. Arrampicandosi sopra con cautela e posando le mani sulla parete interna del silo, era in grado di guardarci attraverso e vedere fuori. Vide un vecchio e fatiscente granaio, una piccola fattoria, e delle brutte strade di terra segnate dai solchi delle gomme che correvano attraverso campi abbandonati da molto tempo e ora strozzati dalle erbacce. Carcasse arrugginite di automobili abbandonate e macchinari da fattoria devastati ricoprivano come immondizia il terreno.
Guardando giù, capì quanto in alto si trovasse. Il silo raggiungeva facilmente i dodici metri di altezza.
Non le piacevano le altezze – non le erano mai piaciute. Non le piacevano neanche i tuffi dal trampolino alto della piscina.
Non c’erano segni di vita all’esterno – zero persone, zero auto, zero cani, niente. Il suo rapitore non si vedeva da nessuna parte.
Dando un’altra occhiata allo scivolo a imbuto, vide della luce laggiù, quasi come se venisse da una porta o da una finestra alla base del silo. Puntò l’asse verso il basso e ne incastrò l’estremità contro le ossa finché queste non caddero giù. Con lo scivolo ora aperto, riusciva a vederne il fondo. Sembrava un pavimento sporco con una piccola pila di grano vecchio. Basandosi su quanto in profondità le ossa si erano sistemate nei grano, calcolò che la pila fosse spessa sei o sette centimetri.
Potrei buttarmi giù?
Osservando ancora una volta, immaginò la caduta. La strada era lunga. Dubitava che il sottile strato di grano avrebbe attutito granché l’impatto. E lo scivolo – era abbastanza grande perché lei ci passasse attraverso? Sarebbe stato stretto. Quale sarebbe stata la posizione migliore da tenere? Con le braccia strette in basso lungo i fianchi o puntate verso l’alto sopra la testa? Immaginò di rimanere incastrata con le braccia giù e poi con le braccia su. Quale sarebbe stata la sua posizione preferita se fosse rimasta incuneata in quel buco per il resto della sua vita? Scacciò il pensiero dalla mente scuotendo la testa.
Non è costruttivo.
In quel momento, con una sola asse rimossa, non si sarebbe potuta buttare nemmeno se l’avesse voluto. Avrebbe dovuto rimuovere un’altra asse. Valutò le sue opzioni.
Fanculo. Io lo faccio.
Almeno poteva rimuovere un’altra asse e rendere valida l’opzione.
Ashley fu più efficiente questa volta, e rimosse l’asse in due ore. Poi le venne un’idea. Usando il coperchio staccato da una scatoletta di zuppa, tagliò il materasso a pezzi e poi incastrò l’imbottitura di gommapiuma e le parti di cotone esterne nello scivolo, giù fino in fondo. Atterrò tutto più o meno nello stesso posto, creando altri quindici o venti centimetri di supporto. Se fosse atterrata proprio sopra alla pila, avrebbe potuto trovare un cuscino di almeno venticinque centimetri. Non era molto da quell’altezza ma era meglio di prima. In più, l’imbottitura copriva la maggior parte delle ossa, quindi almeno le possibilità che un osso le si conficcasse nel corpo all’impatto erano ridotte. Sono le piccole cose a fare la differenza.
Guardò il cestino del cibo, chiedendosi se avrebbe dovuto gettarne giù un po’ per portarlo con sé. Era un’opzione attraente. Ma temeva che facendo così avrebbe danneggiato l’imbottitura o che qualcosa di duro avrebbe potuto incastrarsi. Non aveva senso fare tutto quel faticoso lavoro per poi atterrare su una scatoletta di zuppa e spaccarsi la schiena.
Poi le venne un’idea che la fece sentire così orgogliosa di sé che sorrise davvero per la prima volta da quando era cominciato quell’incubo. Si tolse la gonna e il top e buttò anche quelli nello scivolo. Ora, con addosso solo il reggiseno e le mutandine, afferrò il burro d’arachidi dal cestino.
Poteva essere allergica a quella roba ma forse sarebbe stata utile per qualcos’altro. Lo aprì e cominciò a spalmarsi la sostanza vischiosa su tutto il corpo, ponendo particolare attenzione alla parte esterna delle cosce, al sedere, ai fianchi, allo stomaco e alla cassa toracica. Quando si fosse buttata giù tenendo le braccia sopra la testa, magari essere ricoperta dalla viscida sostanza l’avrebbe aiutata a scendere fino in fondo.
Quando ebbe terminato, Ashley si concesse un momento per concentrarsi in silenzio. Riusciva a sentire che stava cominciando a prepararsi psicologicamente per la caduta, come avrebbe fatto prima di un’importante gara di surf. Quasi involontariamente, il suo respiro rallentò. Tutto sembrò più acuto. Era ora.
Si avvicinò al bordo e guardò giù.
Anche se si trovava nella posizione giusta, non le piaceva l’idea di buttarsi nello scivolo da in piedi. La caduta sarebbe stata più breve se fosse entrata nel buco appesa a una delle assi rimaste e se si fosse lasciata andare da lì. Sistemò la torcia in modo che puntasse allo scivolo così da avere una buona visuale quando si fosse buttata. Poi scavalcò il bordo del pavimento e si appese lì, pendendo sopra allo scivolo.
Okay, facciamolo! Addio, mamma. Addio, papà! Vi voglio bene. Scusatemi per tutto.
Non voglio morire.
Il respiro le si fece più veloce; dentro e fuori, dentro e fuori.
Sentiva che stava andando fuori di testa.
No! È una pazzia!
Cercò freneticamente di risalire, ma non ce la fece. La forza che aveva nelle braccia non c’era più, ormai.
Era incastrata, con nessun’altra possibilità se non quella di buttarsi.
A quella realizzazione, il respiro le rallentò di nuovo. L’inevitabile le diede un’inaspettata sensazione di calma. Chiuse gli occhi per un lungo secondo e li riaprì, pronta a concentrarsi su quello che doveva fare. Oscillò avanti e indietro lentamente, in modo da riuscire a cadere proprio sull’apertura dello scivolo quando doveva.
Quando il momento fu quello giusto, Ashley Penn mollò la presa e scese in caduta libera.
CAPITOLO VENTIQUATTRO
Martedì
Mattina presto
Keri si tormentò per tutto il viaggio di ritorno a Venice. Tutto faceva pensare che Ashley fosse fuggita, proprio come credevano Hillman e Ray. Sui fatti, tutte le prove lo confermavano. Eppure c’era qualcosa che non quadrava. Tornata in città, non andò alla stazione di polizia. Non voleva affrontare gli sguardi sussiegosi e i sospiri sommessi che, lo sapeva, la stavano aspettando lì.
Guidò invece senza meta, superando tutti i luoghi in cui era corsa nella nottata precedente – la scuola di Ashley, il Blue Mist Lounge, il distretto artistico dove viveva Walker Lee, tutti i luoghi familiari. Un’ora dopo chiamò Mia Penn e disse, “Credi che Ashley sia fuggita?”
“Non lo voglio credere. Ma devo ammettere che è possibile.”
“Dici sul serio?”
“Senti, sulla base di tutto ciò che ho sentito nell’ultimo giorno, è piuttosto ovvio che non ho idea di chi fosse mia figlia,” disse. “Com’è potuta accadere una cosa del genere?”
“I ragazzi nascondono cose,” disse Keri.
“Sì, lo so, ma era come… non lo so, erano così estreme le cose che faceva. Pensavo di aver un buon rapporto con lei. Alla fine, però, è come se non si fidasse di me abbastanza da dirmi qualcosa. Cerco di capire cosa ho fatto per allontanarla da me…”
“Non incolparti,” diss Keri. “Ci sono passata anch’io. Ci sono dentro ancora. Non lo auguro a nessuno.”
“Senti,” disse Mia. “Sto scegliendo di credere che Ashley se ne sia andata di sua spontanea volontà. Prima o poi ci chiamerà e scopriremo che cos’abbiamo sbagliato. Sono pronta ad aspettare e a darle il suo spazio.”
“Posso passare da te…”
“No.”
“Ma…”
“Non è una buona idea,” disse Mia. “Che resti tra me e te, Stefford è furioso per l’allerta Amber. Ha fatto a pezzi la nostra camera da letto stamattina. Pensa che perderà il posto al senato per tutta la cattiva pubblicità, ne è proprio convinto.”
“Dà la colpa a me?” disse Keri.
“Restatene lontano. Passerà, ma per adesso mantieni le distanze.”
“Potremmo rivedere le prove,” disse Keri.
“Keri, niente di personale, ma smettila!”
Cadde la linea.
Sulla strada, in una zona scolastica, un furgone nero si stava allontanando bruscamente. Keri vide un movimento nel finestrino posteriore, sembravano capelli biondi che rimbalzavano su e giù.
Ashley accelerò e riuscì ad affiancarlo. Il conducente era un uomo butterato sui trentacinque anni con lunghi capelli castani unti e una sigaretta che gli pendeva dalla mano posata sul finestrino. Keri gli fece segno di accostare. Lui le mostrò il dito medio e accelerò.
Lo seguì, allungandosi per mettere la sirena sul tettuccio. Non appena fu sul punto di accenderla, il semaforo davanti a loro diventò rosso e il furgone si fermò stridendo. Keri scartò a destra per evitare di tamponarlo. Schiacciò forte i freni e mise la macchina in folle. Uscendo dalla Prius tenne in vista il distintivo perché l’uomo lo vedesse dal finestrino aperto del lato del passeggero.
“Quando le ordino di accostare, lei obbedisce!”
L’uomo annuì.
“Ora esca da quella maledetta macchina e venga da questa parte.”
L’uomo obbedì.
Tenendolo d’occhio, Keri aprì la portiera laterale del furgone. Dentro non c’era nessuno. C’erano fiori, nient’altro. Guardò la porta scorrevole e notò qualcosa che prima non aveva visto: la scritta Brandy, consegne floreali.
L’uomo aveva raggiunto la parte anteriore del veicolo e si trovava in piedi davanti a lei.
“Apra il cassone,” chiese.
Lo aprì. Dentro non c’erano bambini. Solo altri fiori. Capì che quelli che le erano sembrati capelli biondi erano probabilmente mazzi di girasoli che si trovavano nel retro del furgone.
Sto perdendo completamente la testa.
Keri guardò il conducente e riuscì a capire che stava decidendo se sentirsi confuso, spaventato o arrabbiato. Decise che avrebbe fatto meglio a scegliere per lui.
“Mi stia a sentire,” ringhiò. “È uscito da quella stradina come un fulmine nel bel mezzo di una zona scolastica. E poi, quando le ordino di accostare, mi mostra il dito medio? È fortunato che non la porti dentro solo per principio.”
“Le chiedo scusa per essermi immesso in strada in quel modo. Ma non lo sapevo che fosse una poliziotta. Una signora in una Prius con uno sguardo folle negli occhi vuole che accosti, e io automaticamente non lo farò. Deve vederla dal mio punto di vista.”
“È l’unica ragione per cui la lascio andare con un avvertimento. C’è mancato tanto così che le venissi addosso. Guidi piano – capito?”
“Sì, signora.”
“Bene. Ora se ne vada.”
Fece quello che gli era stato detto. Keri tornò alla sua macchina e se ne rimase lì seduta per un minuto, a riflettere su quanto vicina fosse andata all’aggredire un’altra persona a caso. E questo non era uno spacciatore né un protettore e neanche un’aspirante rock star piena di arie. Era solo uno che consegnava fiori. Aveva bisogno di darsi una calmata, ma non sapeva come fare. Aveva ancora una cosa da risolvere. E finché non fosse riuscita a farlo, sapeva che non sarebbe stata capace di darsi una calmata.
Nel momento in cui lo capì, Keri seppe che c’era un solo posto dove andare e che non si trattava né di casa sua né della stazione di polizia. In effetti, si trovava a meno di cinque minuti di macchina dalla sua destinazione corrente.
*
Mentre Keri parcheggiava sulla stretta strada residenziale invasa da furgoni, reporter, paparazzi e ficcanaso, terminò la telefonata. Aveva parlato con l’assistente sociale assegnata al caso di Susan Granger. La donna, Margaret Rondo, le aveva assicurato che Susan era stata mandata in un rifugio sicuro per donne e bambini. Era a Redondo Beach su una strada di quartiere e a occhio pareva una casa qualsiasi, solo che i muri esterni erano un po’ alti e c’erano un po’ di telecamere sistemate con discrezione. Il protettore di Susan, che Keri aveva scoperto farsi chiamare Crabby, non sarebbe mai riuscito a trovarla.
E grazie al detective Suarez, i documenti relativi a Crabby erano andati momentaneamente persi e lui sarebbe rimasto incastrato nella cella delle Twin Towers per altre quarantotto ore, più del tempo necessario a Keri per scrivere un rapporto che gli avrebbe sicuramente negato una cauzione ragionevole.
Dopo qualche sollecitazione, Rondo, riluttante, aveva permesso a Keri di parlare con Susan brevemente.
“Come stai?” chiese.
“Ho paura. Pensavo che saresti stata qui.”
“Sto ancora cercando quella ragazza scomparsa di cui ti ho parlato. Ma quando tutto si sarà sistemato, ti prometto che verrò a darti un’occhiata, okay?”
“Ah-ha.” Susan sembrava a terra.
“Susan – scommetto che molte persone ti hanno fatto promesse e non le hanno mantenute, vero?”
“Sì.”
“E so che pensi che anch’io farò la stessa cosa, vero?”
“Forse.”
“Be’, io non sono molte persone. Hai mai visto qualcuno trattare Crabby come ho fatto io ieri notte?”
“No.”
“Credi che qualcuno così, con un gigantesco e puzzolente uomo sopra di sé che finisce col sederglisi sullo stomaco e mettergli le manette, credi che qualcuno che ha fatto una cosa del genere non riesca a trovare il modo di vederti?”
“Credo di no.”
“Cazzo, certo che no – scusa la parolaccia. Sarò lì quando potrò. E quando arriverò, ti mostrerò alcune delle mosse che ho usato. Ti piace l’idea?”
“Sì. Puoi mostrarmi quella cosa del pollice negli occhi?”
“Certamente. Ma quello lo usiamo solo per le emergenze, okay?”
“Mi sono trovata spesso in emergenza.”
“Lo so, tesoro,” disse Keri, rifiutandosi di permettere alla sua voce di incrinarsi. “Ma adesso è tutto finito. Ci vediamo presto, okay?”
“Okay.”
Keri riappese e rimase seduta in silenzio in macchina per un momento. Si permise di immaginare tutti gli orrori che Susan Granger aveva subito, ma solo per pochi secondi. E quando sentì che il pensiero di Evie nella stessa situazione le si stava insinuando nella mente, lo respinse. Non era il momento di crogiolarsi nel dolore. Era il momento dell’azione.
Uscì dalla macchina e si avvicinò svelta alla residenza dei Penn. Erano quasi le otto del mattino – abbastanza tardi per una visita a domicilio. Sinceramente, non le interessava che ore fossero. Qualcosa dell’ultima conversazione telefonica che aveva avuto con Mia non le tornava. La rodeva da quando aveva messo giù. E aveva intenzione di ottenere delle risposte.
Nell’istante in cui fu vista, uno sciame di reporter la circondò. Non rallentò il passo e alcuni inciamparono gli uni sugli atri per cercare di non perderla. Combatté il sorriso che le saliva agli angoli della bocca. Una volta attraversato il cancello della villa, i reporter si fermarono, come se ci fosse stato una specie di campo di forza a impedir loro di proseguire.
Bussò forte alla porta. L’addetto alla sicurezza della sua prima visita aprì. Come lei si precipitò dentro alla casa, lui esitò, ovviamente considerando per un secondo di fermarla. Ma la guardò una sola volta negli occhi e si bloccò.
“Sono in cucina,” disse. “Per favore, mi permetta di accompagnarla. Se li prende d’assalto così, penseranno che sono inutile e mi licenzieranno.”
Keri gli fece la cortesia e rallentò abbastanza da permettergli di guidarla. Quando entrarono in cucina, Keri vide Mia seduta al tavolo della colazione in accappatoio, a sorseggiare debolmente un caffè. Stafford Penn le rivolgeva la schiena mentre saltava da un canale all’altro sul televisore della cucina. Ogni canale parlava solo di Ashley.
Mia alzò lo sguardo e l’espressione stanca le sparì dal viso. Gli occhi le si illuminarono – non di rabbia – di qualcosa che era quasi paura. Cominciò a parlare.
“Pensavo di averti detto…”
Keri alzò una mano, e qualcosa nei suoi modi fece lasciare a Mia la frase a metà. Il senatore Penn si voltò per vedere perché ci fosse quel trambusto. Aprì la bocca, ma vedendo lo sguardo sul viso di Keri si bloccò.
“Prima di tutto, dovreste sapere che ho intenzione di fare a meno delle formalità. Uno, non è il momento di curarsi di queste cose. E due, non ho la pazienza necessaria.”
“Di cosa sta parlando?” chiese il senatore Penn.
Keri si concentrò su Mia.
“So che non credi che Ashley sia scappata più di quanto ci creda io. Per tutto ieri e per tutta la scorsa notte ci hai spinti a investigare. Eri sicura che fosse stata rapita. Poi ti chiamo stamattina e all’improvviso pensi che se ne sia andata da sola? Vuoi darle i suoi spazi? Non me la bevo. Nemmeno per un secondo.”
“Francamente, non mi interessa cosa crede lei,” disse Stafford Penn. “Non ho fatto altro che dirle che qui si tratta di un’adolescente in ribellione. E adesso viene fuori che avevo ragione. Lei semplicemente non vuole sembrare cattiva.”
Keri lo studiò bene. Quello era un politico, e chiaramente uno di successo per aver raggiunto la sua posizione. Ed era esperto nel far sì che la gente gli credesse, che si trattasse di elettori o giornalisti o ragazzine che metteva incinte nel suo studio.
Ma Keri non era nessuna di queste. Era una detective del LAPD. Ed era piuttosto brava a riconoscere un bugiardo, perfino uno abile quanto il senatore Stafford Penn.
“Lei mi sta mentendo. E quindi, che Dio mi aiuti, non mi interessa se lei è un senatore o il presidente degli Stati Uniti, non mi interessa se mi costerà il lavoro. La porterò dentro per ostruzionismo alle indagini. E lo farò scortandola fuori da quelle porte ammanettato davanti a tutti quei reporter e infilandola nel sedile posteriore della mia acciaccata macchinetta. Vediamo se verrà rieletto, dopo.”
Con la coda dell’occhio Keri vide l’addetto alla sicurezza coprirsi la bocca per nascondere un largo sorriso.
“Che cosa vuole?” sibilò Penn a denti stretti.
“Voglio sapere esattamente che cosa mi sta nascondendo.”
Stafford non esitò, “Non sto nascondendo nulla.”
Mia lo guardò. “Stafford…”
“Mia, zitta.”
“Dai, Stafford, basta così.”
“Abbiamo finito,” disse il senatore, fissando Keri. Lo fissò anche lei per molti secondi.
“Pare di sì,” disse lei, prendendo le manette e facendo un passo verso di lui.
Mia si alzò in piedi.
“Diglielo,” disse con un tono energico che Keri non le aveva mai sentito usare prima.
Lui scosse la testa in segno di diniego.
“Non ne ha diritto.”
“Stafford, diglielo tu o lo farò io.”
Stefford sospirò, poi scosse la testa come sconvolto dalla stupidità che stava per commettere.
“Aspetti qui.” Si recò di sopra. Un minuto dopo tornò e porse a Keri un pezzo di carta. “Era nella nostra cassetta della posta stamattina.” La carta era di un semplice bianco e le parole erano battute al computer.
Mi avete fatto del male. Ora il male lo subirete voi.
La vendetta è stronza. Preparatevi ad affrontare le conseguenze.
“Non riesco a credere che non ne abbiate parlato,” disse Keri.
Stafford sospirò. “Non è vero.”
“Perché dice così?”
“Perché sono sicuro al novanta percento di sapere chi l’ha mandato.”
“Chi?”
“Payton Penn; è il mio fratellastro,” disse Stafford. “Abbiamo lo stesso padre, madri diverse.”
Keri disse, “Continuo a non capire.”
“Payton, per dirla gentilmente, è un fallito,” disse Stafford. “Odia questa famiglia. Odia me, per via di alcune cose che sono accadute quando eravamo piccoli. In più, ovviamente è geloso di me per come si è risolta la mia vita. Odia Mia, perché lui non potrebbe mai avere una come lei. E odia Ashley, per lo più perché Ashley odia lui. Lui conosce cose sulla nostra famiglia, incluso qualcosa di cui il pubblico è all’oscuro e che le dirò in confidenza: io sono il padre naturale di Ashley.”
Keri annuì con solennità, fingendo di essere lusingata e sorpresa dalla grande rivelazione.
“Apprezzo che si sia fidato a condividere con me quest’informazione, senatore. So che la privacy è importante per lei e non la violerò. Ma sto ancora aspettando che mi spieghi perché il suo fratellastro non dovrebbe essere un sospettato.”
“Da quando sono diventato senatore lo paghiamo perché taccia su Ashley e… su qualche altra cosa di cui non è necessario parlare al momento. Quindi non ha senso che rompa le condizioni adesso. Mette a rischio i suoi soldi sicuri. In più non è neanche un vero biglietto di riscatto.”
“Che cosa intende dire?”
“È tipico di Payton. Non vuole andare fino in fondo. Guardi com’è vaga la lettera. ‘Mi avete fatto del male’? Potrebbe venire da migliaia di persone, di qui o di Washington. Non ha neanche chiesto dei soldi, in realtà.”
“Allora lei cosa crede che stia succedendo?”
“Conoscendo mio fratello, ha sentito che Ashley è sparita e ha pensato di sfruttare al meglio la situazione scrivendo questa lettera. Ma non ha avuto le palle per chiedere davvero un riscatto. Più o meno ha solo lasciato aperta l’opzione per il futuro, nel caso in cui sarà in grado di tirare fuori il coraggio. Così, oppure ha pensato che fosse un buon momento per rigirare il coltello nella piaga, ora che sono nel mio momento peggiore. Non ha molte occasioni per tormentarmi. Quindi non voleva sprecare questa.”
“Okay. Ma cosa la rende così sicuro che non abbia tirato fuori le palle e che non l’abbia rapita sul serio?”
“Perché quando Ashley è scomparsa ieri, dopo la scuola, e Mia ha cominciato a dare i numeri, ho chiamato un investigatore privato che uso occasionalmente proprio per controllarlo. Payton è stato al lavoro per tutto il giorno ieri fino alle diciassette. Come sa, Ashley è salita nel furgone poco dopo le quindici.”
“È certo che fosse al lavoro?”
“Sì. L’investigatore mi ha mandato una copia del filmato di sorveglianza dell’edificio. È lì dentro.”
“Potrebbe aver assunto qualcuno.”
“Gli mancano i soldi per farlo.”
“Pensavo che lo stesse pagando.”
“Non abbastanza da assumere qualcuno che rapisca mia figlia.”
“Magari il suo socio sta pianificando di ottenere un guadagno inatteso dal riscatto.”
“Il riscatto che non ha chiesto? Basta così, detective. Ho risposto alle sue domande. È un vicolo cieco. E, giusto perché lei lo sappia, chiamerò il tenente Hillman per informarlo che lei mi ha minacciato. Con il suo stato di servizio, non so quanto le farà bene questa cosa.”
“Oh, stai zitto, Stafford!” gli urlò Mia. “Se tua figlia ti interessasse la metà di quanto ti interessa la tua carriera, niente di tutto questo sarebbe accaduto!”
La guardò come se gli avesse dato uno schiaffo. Gli occhi gli si orlarono appena di lacrime e si voltò veloce senza rispondere, concentrando l’attenzione di nuovo sul televisore.
“Ti accompagno fuori,” disse Mia. Mentre si dirigevano alla porta principale, a Keri venne in mente una cosa.
“Mia, Payton ha mai avuto accesso alla casa?”
“Be’, abbiamo cercato di riconciliarci con lui qualche volta, nel corso degli anni. L’abbiamo anche ospitato qui con noi per il weekend lungo di Pasqua. Non è andata bene.”
“È stato sempre controllato?”
“No, voglio dire, controllarlo sarebbe andato contro i nostri scopi. Stavamo cercando di risolvere tutti quei problemi. Farlo tallonare dalla sicurezza per tutto il weekend avrebbe minato la fiducia, non crede?”
“Ed è andata a finire male?”
“Lui e Stafford hanno litigato furiosamente e se n’è andato in anticipo. È stata l’ultima volta che l’abbiamo visto.”