Kitabı oku: «Tracce di Morte», sayfa 14
CAPITOLO TRENTA
Martedì
Primo pomeriggio
Keri vide il tubo di piombo nella mani di Pachanga dal monitor. Lo teneva alto sopra la testa, preparandosi a sbatterlo contro la mano di Keri che reggeva la pistola, sperando di farle cadere la pistola e di spaccarle l’avanbraccio con un solo movimento.
Keri ruotò velocemente a destra. Il tubo andò a sbattere con forza dove prima c’era la sua mano, ma adesso lì si trovava la sua spalla sinistra. Sentì uno scricchiolio quando la clavicola le collassò. Cadde all’indietro, a terra, urlando dal dolore, temporaneamente accecata dai lampi dell’agonia.
Quando le si schiarì la vista, vide Pachanga avventarsi su di lei, a pochi passi di distanza. Alzò la mano destra e fece fuoco. Il latrato dell’uomo le disse che l’aveva colpito ma non sapeva dove. Collassò sopra di lei e le rotolò accanto sul pavimento. Per mezzo secondo pensò che fosse morto.
Ma non lo era. Lo vide aggrapparsi alla sua stessa gamba destra e capì di averlo colpito nella parte alta della coscia. Allungò la pistola sopra il suo stesso corpo per sparare una seconda volta. Ma lui la vide muoversi, afferrò il tubo e lo fece oscillare verso di lei, facendo saltar via sia la pistola sia il tubo. Volarono entrambi attraverso il pavimento del silo e si fermarono sotto al tavolo dove era distesa Ashley.
Pachanga le balzò addosso. Prima che potesse fermarlo, l’uomo le aveva afferrato le braccia, le aveva bloccate a terra, e si stava arrampicando sopra di lei. Era incredibilmente forte.
“Piacere di conoscerla, signora. Mi dispiace solo che le circostanze non siano delle migliori,” disse prima di darle un pugno in faccia.
Keri sentì spaccarsi l’orbita dell’occhio e ancora una volta una doccia di luce le esplose nel cervello. Si preparò per un secondo pugno ma non arrivò. Un altro urlo dall’angolo della stanza le disse che gli arti di Ashley erano stati tirati di un altro centimetro. Alzò lo sguardo annacquato per vedere Pachanga che le sorrideva dall’alto.
“Lo sai, sei piuttosto carina per la tua età. Avrei dovuto tenere gli esemplari incontaminati laggiù, a scopi negoziativi. Potevo fare solo esperimenti limitati. Ma non ho alcuna limitazione con te. Magari potrei fare di te il mio esperimento speciale, se capisci cosa intendo dire. Lo sai cosa intendo dire?”
Sorprendentemente, stava sorridendo con calore, come se le avesse appena chiesto di uscire per prendersi un caffè. Keri non rispose, il che sembrò renderlo triste. Il suo sorriso aperto si trasformò in una smorfia. Senza preavviso indietreggiò e le diede un pugno sulla costola, proprio su quella che già le pulsava per via della lotta con Johnnie Cotton.
Se non si era rotta prima, decisamente lo era adesso. Keri annaspò in cerca d’aria, così distrutta dal dolore da non sapere dove concentrarsi. Riusciva a sentire Pachanga parlare ma le parole erano sovrastate dal ruggito di angoscia nella sua testa.
“…vedrai il mio Vero Io. Non molti esemplari hanno avuto questo privilegio. Ma so che tu sei speciale. Hai trovato la mia Casa Base tutta da sola. E ciò significa che hai scelto di stare qui con me. Sono lusingato.”
Keri temette di stare per svenire. Se fosse accaduto, sarebbe stata la fine. Doveva fare qualcosa subito per cambiare la situazione. Pachanga stava continuando a blaterare in una specie di estasi delirante, parlava di case basi e veri io. Keri non aveva idea di che cosa stesse dicendo. Aveva gli occhi luccicanti di pazzia e sbavava leggermente. Sembrava essersi dimenticato della ferita alla gamba, che sanguinava profusamente. La ferita – ebbe un’idea.
“Ehi,” disse, interrompendo il suo discorso. “Perché non la pianti, patetico sfigato.”
L’estatico fervore gli sparì dagli occhi, rimpiazzato dalla furia.
Alzò di nuovo il pugno sopra alla testa, pronto a rifilarle un altro cazzotto. Ma questa volta, quando lo fece, Keri infilò il pollice in profondità dentro alla ferita del proiettile. Cadde su di lei, a terra. Keri si era preparata, e rotolò con lui, tenendo il pollice dentro allo squarcio che aveva nelle carni, scavando con forza, rigirandolo, rifiutandosi di interrompere il contatto. Con la mano sinistra prese le chiavi del pick-up dalla tasca, le raggruppò insieme e, ignorando i flash di dolore che la scuotevano dalla spalla alla punta delle dita, le affondò con furia nel viso di Pachanga. Lo prese una volta alla guancia, lacerandogliela con un buco enorme, e una volta all’occhio sinistro prima che riuscisse a liberarsi e a scattare via.
Nel frattempo Keri usò il tavolo per mettersi in piedi. Guardò il suo aggressore. Era raggomitolato a palla, con le mani sulla faccia, col sangue che gli si versava tra le dita. Keri cominciò a muoversi verso la pistola ma nel frattempo Pachanga aveva lasciato cadere le mani e la fissava con il suo solo occhio funzionante. Sapeva che cosa voleva fare Keri e non gliel’avrebbe permesso. Ashley urlò ancora mentre la macchina le tirava gli arti un’altra volta.
Buone opzioni non ce n’erano, quindi Keri fece l’unica scelta possibile. Si voltò e corse fuori dalla porta del silo.
*
Aspettò di aver raggiunto una distanza di circa cinquanta metri prima di voltarsi a guardare il silo. Sapeva che non sarebbe mai stata capace di raggiungere la pistola. La sua unica possibilità di salvare Ashley e se stessa era attrarre Pachanga lontano dalla ragazza; mantenerlo concentrato su Keri.
Quando si guardò intorno, lui non si vedeva da nessuna parte.
Oddio, non ha funzionato. È rimasto con lei. Adesso la ucciderà.
Doveva fare qualcosa.
“Ehi, Alan,” gridò, “che c’è che non va? Ti arrendi? Non riesci a gestire una donna vera? Non sai cosa fare quando non sono legate? Immagino che adesso stiamo vedendo il tuo Vero Io. E sembra un pappamolle.”
Rimase lì in piedi, in attesa di una risposta, pregando per una reazione qualsiasi. Niente. Non se la stava bevendo.
E poi eccolo sulla soglia. Vi si appoggiava, come supporto. Si era tolto la t-shirt e l’aveva arrotolata attorno alla ferita alla gamba. Non poteva fare niente per la faccia, che era una maschera di sangue sul lato sinistro e piuttosto pulita su quello destro. Sembrava un costume di Halloween vivo e vegeto.
Incespicò verso di lei, pesante e lento ma convinto. Lei barcollava davanti a lui verso il granaio, ignorando la spalla, le costole e la faccia, tutte che pulsavano spietatamente. Quando ebbe raggiunto il granaio si voltò ancora.
“Vieni qui, tesoro,” urlò, “non mi vuoi? Non puoi farmi gridare se non riesci a prendermi. Pensavo che dovessi essere il capo, ragazzone. Ma a me sembri proprio uno smidollato.”
Pachanga si fermò per un secondo vicino a una vecchia berlina, posandoci sopra il braccio per non cadere. Keri pensò che stesse per dire qualcosa. Invece estrasse una pistola – la sua pistola – dalla parte posteriore della cintura e gliela puntò contro.
Doveva essere per quello che ci aveva messo tanto a uscire dal silo. Era tornato indietro per la pistola. La puntò contro di lei e fece fuoco. Lei schizzò sana e salva dietro al granaio e corse dentro. Entrò nel pick-up e cercò a tentoni la chiave prima di riuscire finalmente a infilarla nell’accensione. La girò e sentì un’ondata di sollievo quando il motore si avviò.
Il braccio sinistro era quasi del tutto inutile quindi dovette torcersi per chiudere la portiera. Ingranò la marcia, pigiò sull’acceleratore, e passò attraverso la parete posteriore del granaio puntando nella direzione in cui aveva visto per l’ultima volta Pachanga.
Sperava che si trovasse abbastanza vicino da potergli proprio passare sopra. Ma lui si muoveva lentamente, ed era ad ancora a una trentina di metri buona di distanza. Sterzò direttamente su di lui e accelerò a tavoletta.
Pachanga alzò la pistola e si mise a sparare. Il primo colpo mandò in frantumi il parabrezza. Keri indietreggiò ma continuò a guidare. Sentì altri spari ma non capì che cosa colpissero. Poi ci fu un forte scoppio e seppe che un proiettile aveva colpito una delle gomme. Sentì il furgoncino sbandare a destra verso il letto del ruscello, poi capovolgersi. Perse il conto di quante volte era rotolato prima di fermarsi.
Keri tentò di orientarsi. Alla fine capì che il furgoncino era atterrato sul lato del conduecente e che Keri era distesa contro la portiera. Riusciva a vedere il cielo blu attraverso il finestrino del passeggero.
Non sapeva se il dolore che sentiva fosse dovuto alle nuove ferite che si era procurata nello schianto o a quelle vecchie. Si mescolavano tutte insieme. Si tirò su in modo da essere dritta, in piedi sul lato della portiera del conducente. Cercò di raggiungere il finestrino del passeggero ma qualcosa la strattonò all’indietro. Guardò giù e vide di avere il piede intrappolato sotto al pedale del freno. Si dimenò per liberarsi ma senza l’uso del braccio sinistro era impossibile. Era in trappola.
All’improvviso apparve la faccia di Pachanga al finestrino aperto del passeggero. Prima che Keri potesse reagire, le avvolse una catena al collo, la attorcigliò, e la tirò forte. Keri annaspò in cerca d’aria. Cercò di abbassarsi ma lui la tirò su di nuovo.
“Pensavo di usare la pistola ma ho deciso che questa sarebbe stata più divertente,” disse, per nulla preoccupato del pezzetto molle di guancia che sbatacchiava mentre parlava.
Keri tentò di parlare, sperando che, se fosse riuscita ad ammaliarlo, lui avrebbe lasciato cadere la catena e avrebbe cercato di entrare nel furgoncino con lei. Ma non le uscì nessuna parola.
“Hai finito di parlare, signora,” ringhiò Pachanga, e tutte le pretese di fascino ora se n’erano andate. “Pochi secondi ancora e perderai conoscenza. E poi ti riporterò alla Casa Base dove ho intenzione di farti cose che ti faranno desiderare di essere morta.”
Keri cercò di infilare le dita sotto alla catena ma era troppo stretta. Riusciva a sentire l’oscurità che cominciava ad avvolgerla. In un solo futile tentativo di replica, schiacciò il ginocchio contro il clacson, sperando che la strombazzata l’avrebbe spaventato. Non si spaventò. Ancora, lo schiacciò, in un ultimo atto di ribellione.
Il cielo blu divenne grigio e tutto divenne pruriginoso. La luce svanì. Le palpebre di Keri si chiusero. Con la coda dell’occhio, pensò di vedere l’ombra di un uccello sorvolarla. Sentì un grugnito. E poi ci fu solo oscurità.
*
Quando rinvenne, Keri capì che doveva essere rimasta svenuta solo per pochissimo tempo. Teneva ancora il ginocchio sul clacson. La pressione sul collo era sparita. In effetti la catena pendeva lenta, e fu in grado di togliersela di dosso. Sentiva dei rumori venire dall’alto, ma non riusciva a identificarli.
E poi improvvisamente due corpi si schiantarono contro il furgoncino sopra di lei. Pachanga era sotto, che si dimenava per liberarsi. Ma qualcuno si trovava sopra di lui, lo teneva giù fermo con dei colpi in faccia, sul corpo, ancora in faccia.
Era Ray.
Continuò a picchiarlo finché Pachanga non rimase fermo. La testa gli crollò di lato e andò a sbattere contro il lunotto del furgoncino. Era incosciente.
Ray si alzò in piedi, fissò l’uomo sotto di lui, poi gli diede un calcio allo stomaco. Pachanga rimase in silenzio.
Ray guardò giù, dentro alla cabina del furgoncino.
“Stai bene?” le chiese.
“Sono stata meglio,” rispose, con la voce roca e ruvida.
“Ti avevo detto di aspettarmi,” disse severamente ma con un sorriso che gli affiorava alle labbra. Keri stava per rispondere quando un forte grido perforò l’aria.
“È Ashley. È legata a una specie di rastrello medievale in quel silo. Le strapperà via gli arti. Devi andare da lei subito!”
“E questo qui?” chiese facendo un cenno in direzione di Pachanga.
“Non credo che darà problemi. Va’ da Ashley. Adesso! Io sto bene.”
Ray annuì e sparì dalla sua vista.
Keri si calò sul fondo dell’abitacolo e chiuse gli occhi.
Pochi minuti dopo, le urla di Ashley finalmente terminarono. Ray l’aveva salvata.
Keri aprì lentamente gli occhi. Il mondo la inondò di nuovo, e con esso anche il dolore. Cercò di escluderlo concentrando l’attenzione sul liberare il piede da sotto il freno. Le ci volle un minuto ma riuscì a farcela. Si tirò su, preparandosi all’altro grande obiettivo – uscire dal furgone. Alzò lo sguardo, in cerca dei migliori appigli a cui arroccarsi. Immediatamente vide che qualcosa non andava.
Pachanga era sparito.
Cercando di stare calma, Keri incastrò il proprio corpo contro il lunotto dell’abitacolo e mise i piedi sul cruscotto, creando abbastanza tensione da tirarsi su. Alla fine riuscì ad alzarsi abbastanza da agganciare il braccio destro attorno allo specchietto del lato del passeggero. Il braccio sinistro pendeva ancora molle lungo il fianco quindi mise i piedi sul volante e spinse mentre strattonava lo specchietto. La combinazione di forze le permise di sollevare al di fuori del furgoncino metà del suo corpo. Si guardò intorno.
In lontananza vide Pachanga che zoppicava in modo scoordinato verso il silo. Era quasi arrivato alla porta. Nella mano destra teneva la pistola di Keri.
Tentò di urlare ma la voce era ancora rauca dallo strangolamento.
Pachanga sparì all’interno. Cinque infiniti secondi dopo, uno sparo risuonò nell’aria.
Keri dimenò la parte inferiore del corpo fino a uscire dal furgone, e si mise in piedi. Corse verso il silo, ignorando ogni parte pulsante del suo corpo, ignorando il fatto che anche respirare era difficile.
Mentre superava la berlina dove Pachanga si era appoggiato prima, vide un piede di porco nell’erba marrone vicino al portabagagli. Si curvò, lo strinse forte con la mano funzionante, e proseguì verso il silo.
Avvicinatasi alla porta aperta, voleva irrompere all’interno ma si sforzò di agire con calma. Ricordando la telecamera di sicurezza, si guardò intorno e la vide posata su una trave esposta, puntata dalla sua parte.
Corse dietro al silo, sperando che la porta sul retro che Pachanga prima aveva lasciato aperta fosse ancora socchiusa. Lo era. Diede una veloce occhiata all’interno.
Andava male.
Ray sedeva ricurvo contro il muro, e del sangue gli usciva da una ferita alla pancia. Non capiva se era vivo o morto.
Chiaramente aveva liberato Ashley, ma adesso Pachanga la stava legando ancora al tavolo. Lei combatteva disperatamente ma perdeva la battaglia. Aveva tutti gli arti tranne la gamba destra assicurati alla cinghia. La pistola era annidata nella cintura di Pachanga.
Keri avanzò, con il piede di porco in mano. Ashley la notò e guardò involontariamente nella sua direzione. Pachanga la vide e capì che qualcosa non andava.
Girò su se stesso ed estrasse la pistola. Keri era ancora a un metro abbondante di distanza, troppo lontano per balzargli addosso. Lui sorrise – aveva fatto gli stessi calcoli.
“Sei proprio piena di sorprese,” biascicò, e un agghiacciante sorriso gli si aprì sulla faccia rovinata. “Ci divertiremo così tanto insie…”
Con la gamba libera, Ashley calciò Pachanga proprio sulla coscia, dove aveva ricevuto lo sparo. Lui annaspò e si curvò dal dolore.
Keri avanzò immediatamente, alzò il piede di porco oltre la testa, e poi con l’estremità ricurva colpì veloce e forte la sommità del cranio di Alan Jack Pachanga.
Cadde sulle ginocchia.
In quel momento, Keri seppe che avrebbe potuto fermarsi, che sarebbe svenuto. Che era finita.
Però non riuscì a fermarsi.
Pensò a Evie. A tutti i mostri come quello che c’erano al mondo. Agli avvocati stronzi. A quell’uomo che sarebbe potuto essere rimesso in libertà, un giorno.
E non poteva permettere che accadesse.
Alzò il piede di porco, e lui alzò lo sguardo su di lei e sorrise, con il sangue che gli usciva dalla bocca.
“Non lo farai,” biascicò.
Lo colpì con tutta la forza che le era rimasta – e il piede di corpo gli si conficcò nel cranio.
Pachanga rimase lì senza muoversi per molti secondi, poi collassò sul pavimento. Dalla mano gli cadde la pistola di Keri, che si assestò ai suoi piedi. Lei la raccolse e la tenne puntata contro di lui mentre lo girava con i piedi. Lui la fissava con il suo unico e vuoto occhio azzurro.
Alan Jack Pachanga era morto.
Keri sentì il pianto leggero che veniva dall’altra parte della stanza e capì qualcosa di ancor più sorprendente.
Ashley Penn era viva.
Era finita.
CAPITOLO TRENTUNO
Giovedì
Metà mattina
Keri era distesa nel letto, sveglia, a godersi la solitudine. Sapeva che più tardi avrebbe avuto visite, ma per il momento aveva la stanza tutta per sé. Cercò di rimettere insieme gli ultimi giorni attraverso la nebbia del sonno e delle medicine per il dolore.
Dato che Ray Sands era stato più lungimirante di Keri, aveva chiamato i rinforzi mentre era per strada verso la fattoria. I primi agenti erano arrivati quindici minuti dopo che Keri aveva ucciso Pachanga e cinque minuti dopo la fattoria era uno sciame di poliziotti e dottori del pronto soccorso. Dopo aver stabilizzato Ray, che era in fin di vita, avevano portato tutti al vicino Palmdale Regional Medical Center meno di dieci minuti dopo.
Keri si era rifiutata di subire l’operazione alla clavicola finché i medici non l’avevano informata che anche Ray era in chirurgia. Aveva perso molto sangue ma erano ottimisti riguardo al suo futuro.
Il mercoledì era per la maggior parte offuscato. Aveva vagato tra la coscienza e l’incoscienza ma era rimasta sveglia abbastanza a lungo da scoprire che Ray era in condizioni serie ma stabili. Si trovava nell’unità di terapia intensiva. Ashley aveva il polso sinistro fratturato, la tibia a pezzi, il coccige rotto e una commozione cerebrale, tutte dovute alla caduta. Aveva anche la spalla sinistra dislocata come conseguenza del macchinario di Pachanga. Probabilmente sarebbe guarita del tutto.
Da parte sua, il braccio sinistro di Keri era fasciato. I dottori avevano detto che la rottura della clavicola si sarebbe risolta completamente e che sarebbe stata ricoverata per sei o sette settimane. Aveva una maschera imbottita sul viso, più o meno come quella che Ray usava nei suoi giorni da pugile olimpionico. Doveva proteggerle l’osso orbitale da danni ulteriori. Avrebbe dovuto usarla per almeno un’altra settimana. Il collo era avvolto in un tutore per proteggere i muscoli che erano stati stirati dalla catena. Non c’era nulla che potessero davvero fare per le costole rotte eccetto imbottire la zona. Aveva molti altri graffi e lividi, così come una commozione cerebrale, pure lei. Ma tutto sembrava poco in confronto a quello che era capitato agli altri due.
Un’infermiera entrò, spingendo qualcuno sulla sedia a rotelle.
“Ha visite,” disse.
Keri non riusciva a vedere chi fosse perché era distesa quindi spinse il bottone del telecomando mettersi in posizione seduta.
Fu sorpresa di vedere che era Ashley.
Ashley le si avvicinò, poi rimase lì seduta per un po’, chiaramente non sapendo che dire.
Keri decise di rompere il ghiaccio.
“Sembra che ti ci vorrà un po’ prima di tornare a fare surf.”
Il viso di Ashley si illuminò al pensiero.
“Già,” disse. “Ma i dottori dicono che alla fine tornerò sulla tavola da surf.”
“Ne sono felice, Ashley.”
“Volevo solo… sa… uhm, lei mi ha salvato la vita,” disse, e le lacrime le sgorgarono dagli occhi. “Non so davvero come ringraziarla.” Si asciugò le lacrime con la mano buona.
“Conosco un modo in cui puoi ringraziarmi. Fa’ che conti qualcosa. Non fare che resti un’opportunità sprecata. Sei un’adolescente, e tutti gli adolescenti rischiano. Questo lo capisco. Ma avevi preso una strada pericolosa, Ashley. Ho visto molte ragazze prendere la strada che stavi percorrendo tu e non tornare più indietro. Hai una vita bella. Non perfetta, ma bella. Sei intelligente. Sei tosta. Hai degli amici. Hai un letto su cui dormire ogni notte e una madre che farebbe di tutto per te. Molti giovani queste cose non possono dirle. E adesso hai un nuovo inizio. Per favore, non sprecarlo.”
Ashley annuì. Un abbraccio sembrava appropriato ma nelle loro condizioni nessuna delle due ne aveva voglia, quindi dovettero sorridersi. In quei sorrisi, entrambe dissero molto di più di quanto avrebbero potuto dirsi a parole. Quell’ordalia le aveva legate, di un legame che Keri sentiva sarebbe durato per la vita. Avrebbe continuato a tenere d’occhio Ashley di quando in quando, e Ashley sarebbe rimasta in contatto con lei. Lo sapeva.
Dopo che l’infermiera l’ebbe portata via, Keri non poté fare a meno di pensare all’altra ragazza che aveva salvato: Susan Granger.
Chiamò un’infermiera, che la aiutò a telefonare alla casa famiglia nella quale era stata alloggiata Susan. Susan sembrava stare bene, era persino allegra. Sembrava anche che seguire le notizie sul salvataggio di Ashley le avesse dato speranza per il futuro. I cattivi, stava imparando, non erano affatto onnipotenti, dopotutto.
Susan accettò di concedere a Keri ancora qualche giorno prima di insistere per una visita a tu per tu. Apparentemente essere ricoverata con ferite multiple era una scusa abbastanza buona per rimandare l’invito.
Circa un’ora dopo, il tenente Cole Hillman entrò nella stanza. Con lui c’era Reena Beecher, il capitano dell’intera divisione West di Los Angeles. Era una donna alta e muscolosa sui cinquantacinque anni. Aveva lineamenti affilati accentuati da profonde rughe dovute ad anni a contatto con la feccia dell’umanità. I capelli nero-grigi erano raccolti in una stretta crocchia. Keri l’aveva vista nei corridoi ma non si erano mai parlate. Beecher si avvicinò al letto.
“Come si sente, detective?” le chiese.
“Non troppo male, capitano. Mi dia una settimana e torno al lavoro.”
Beecher rise sommessamente.
“Be’, potremmo darle anche un po’ più di tempo. Ma apprezzo l’atteggiamento. Prima che la giornata diventi pesante, volevo solo ringraziarla per la sua diligenza e per il duro lavoro. Se non fosse stato per lei, Ashley Penn sarebbe quasi certamente morta e nessuno la starebbe nemmeno cercando.”
“Grazie, signora,” disse Keri, cogliendo l’espressione infastidita di Hillman con la coda dell’occhio.
“Comunque, in futuro, farebbe meglio a informare appieno i suoi superiori su cosa sta combinando. Sarò onesta – se non fosse stato per l’alto profilo di questo caso, sarebbe sospesa adesso. Capisce quello che sto dicendo? Basta fare il lupo solitario. Ha un partner e una forza alle sue spalle. Li usi. Chiaro?”
“Sì, signora. Come sta il mio partner, lo sa?”
“Lascerò che il tenente Hillman la aggiorni – su tutto quanto.” Sorrise fermamente, toccò la mano di Keri, e lasciò la stanza. Hillman si sedette sulla sedia in un angolo della stanza.
“Che cosa significa?” gli chiese Keri. “Aggiornarmi su tutto quanto? Prima che la giornata diventi pesante?”
Hillman sospirò profondamente.
“Innanzitutto, Ray sta migliorando. Lo tengono sedato ma lo sveglieranno più tardi nel pomeriggio. Non deve chiedere – mi sono già mosso in modo che lei sia presente. Per quanto riguarda la giornata che il capitano ha menzionato, c’è una conferenza stampa organizzata per oggi, più tardi, davanti all’ospedale. Ci sarà il sindaco, insieme ai Penn, a Beecher, me, il capo Donald, dei rappresentanti dello sceriffo, l’FBI, il dipartimento di polizia di Palmdale – e, ovviamente, lei.”
“Io? Non voglio esserci, signore.”
“Lo so. Francamente, neanch’io. Ma non abbiamo proprio scelta. Le chiederanno di dire qualche parola. Non dovrà rispondere a nessuna domanda – sull’investigazione in corso, etc. Più che altro dovrà sedere su una sedia a rotelle per un’ora, e ascoltare persone importanti che blaterano. Non mi chieda di tirarla fuori. È un ordine.”
“Sì, signore,” disse Keri riluttante. Non aveva ancora la forza necessaria per rispondere. “A proposito dell’investigazione, lo sa a che punto siamo?”
“Payton Penn si trova alle Twin Towers. Con tutte le prove che hanno trovato nella baita, nemmeno Jackson Cave potrebbe farlo uscire su cauzione. Probabilmente il processo inizierà in primavera. Con la perquisizione della casa di Pachanga sono saltate fuori un sacco di prove di rapimenti precedenti. Ashley Penn ha detto di controllare la cima del silo. Apparentemente alcune vittime hanno scritto i loro nomi sui muri interni. Molte famiglie saranno in lutto questo weekend. Hanno trovato anche un laptop nella sua fattoria ma finora nessuno è stato capace di craccare la password. Edgerton ci sta lavorando adesso. Secondo me è migliore di qualunque uomo abbia l’FBI. Quindi, le cose stanno a questo punto. Le consiglio di dormire un po’ prima della conferenza stampa.”
Si alzò e fece per uscire e Keri pensò che se ne sarebbe andato senza salutarla.
Però poi si fermò sulla soglia, dandole la schiena.
Senza voltarsi, mormorò, riluttante: “Accidenti; ottimo lavoro, ragazza.”
Poi, senza dire altro, se ne andò.
Quelle poche parole significavano per Keri più di quanto potesse dire.
Keri lo guardò andare, poi premette di nuovo il pulsante per chiamare l’infermiera, che l’aiutò a fare un’altra telefonata, questa volta al detective Edgerton.
Cercare di accedere alle informazioni contenute nel laptop era come sbattere la testa contro un muro. Apparentemente si bloccava se si scriveva lo username o la password sbagliati per dieci volte. Lui era arrivato a otto e aveva paura a riprovare. Keri ci pensò su un momento, immaginandosi Pachanga che le stava sopra a cavalcioni, con gli occhi infiammati dall’estasi maniacale mentre predicava il suo pazzo manifesto. Poi le venne in mente un’idea.
“Posso darti un consiglio? Se mi sbaglio, avrai ancora un’altra possibilità.”
“Non lo so, Keri,” disse Edgerton riluttante.
“Ascolta. Sono stata con lui. Mi ha parlato. Mi ha svelato la sua anima. Sono abbastanza sicura di conoscerlo, questo tizio.”
Ci fu un lungo silenzio. Poi:
“Solo un tentativo.”
Respirò profondamente.
“Okay. Per lo username prova VEROIO. Per la password usa CASABASE.”
Attese mentre lui digitava le parole. Ci un lungo e spiacevole silenzio, il cuore le batteva nel petto, pregava di non essersi sbagliata.
“Ha funzionato!” urlò Edgerton. “Oddio! Cazzo, Keri. È la vena principale! Ora la vedo… chat multiple sul dark web… aspetta un attimo, sta caricando… ecco! Abbiamo l’accesso a tutte quante. Cazzo! Potrebbe aiutarci a risolvere decine di casi! Devo lasciarti andare così posso concentrarmi! È fantastico.”
Stava per chiedergli se da qualche parte avesse visto il nome “Collezionista” ma aveva già riappeso. Probabilmente era comunque meglio così. Voleva tenersi quel dettaglio per sé, per il momento.
L’infermiera riappese il telefono per lei e abbassò il letto d’ospedale. Keri avrebbe voluto ringraziarla ma si appisolò prima di riuscire a dire qualsiasi cosa.
*
La conferenza stampa si svolse proprio come Hillman aveva predetto. Delle persone importanti blaterarono. I Penn la ringraziarono. Mia sembrava sincera, tra le lacrime. Il senatore Penn mise su un bello spettacolino ma Keri lo vedeva che la detestava. Anche se aveva salvato sua figlia, la sua carriera era rovinata e lui sembrava ritenere lei responsabile.
Alla fine l’accompagnarono al microfono.
Aveva pensato a cosa avrebbe detto prestando ascolto agli altri. Dopo un po’, le si era formato un piano nella mente. Non avrebbe mai avuto un palcoscenico più grande. E aveva intenzione di usarlo.
Cominciò col ringraziare tutte le persone giuste e col dichiarare quanto fosse felice che Ashley stesse bene.
“Quella giovane donna ha combattuto per se stessa finché altri non sono venuti ad aiutarla. Ha dimostrato coraggio e tenacia e un’inarrestabile voglia di vivere. In effetti è stato il suo ragionamento veloce a salvarmi la vita. Sono orgogliosa di lei e so che lo sono anche i suoi genitori.”
Poi Keri fece una pausa di un secondo prima di decidersi. Alzò il suo telefono, sul cui schermo c’era una fotografia.
Vide con la coda dell’occhio che Hillman le faceva furiosamente segno con la testa, la avvertiva di non farlo.
Ma nulla l’avrebbe fermata adesso.
“Questa è mia figlia, Evelyn Locke. La chiamavamo Evie. La prossima settimana saranno cinque anni che è stata rapita, quando aveva solo otto anni.” Keri scorse lo schermo per mostrare un’altra immagine. “Questo è un bozzetto di invecchiamento che mostra quale aspetto potrebbe avere adesso, a tredici anni. Apprezzo tutte le parole gentili di oggi. Ma tutto ciò che voglio è riavere la mia bambina. Perciò, se questa immagine vi sembra familiare, per favore contattate le autorità locali. Mia figlia mi manca e voglio solo riabbracciarla ancora. Per favore, aiutatemi a farlo. Grazie.”
Venne inondata da un mare di domande, tutta l’attenzione era passata dai Penn a Evie, e lei si sentì scaldare il cuore.
Forse l’avrebbero trovata, dopotutto.
*
Un’ora dopo, Keri sedeva su una sedia accanto al letto di Ray, aspettando in silenzio che si svegliasse. I pensieri le andavano a ciò che avrebbe fatto una volta che fosse stata dimessa. Stava accarezzando l’idea di lasciare la casa galleggiante. Era un luogo per persone, capì, che vivevano in attesa. Lo capiva adesso. E le sembrava di dover andare avanti se voleva avere una vita.
Magari si sarebbe presa un appartamento, uno con due camere, così Evie avrebbe avuto un posto in cui dormire quando l’avrebbe trovata. E avrebbe cominciato a vedere la dottoressa Blanc con maggiore regolarità. Non aveva blackout dall’operazione, ma non credeva che se ne fossero andati sul serio. Per far sì che accadesse, per quanto odiasse ammetterlo, avrebbe avuto bisogno di aiuto.
E magari era il momento di affrontare davvero i sentimenti che provava per Ray. Facevano quella delicata danza da un po’. Sapeva che lui voleva avvicinarsi a lei, ma lei aveva paura a lasciarlo entrare, terrorizzata com’era dall’idea di permettersi di voler davvero bene a un’altra persona che avrebbe potuto esserle strappata via. Non voleva perdere anche lui.