Kitabı oku: «Tracce di Morte», sayfa 13
CAPITOLO VENTISETTE
Martedì
Tarda mattinata
Quando riprese i sensi, la prima cosa che Ashley sentì fu il dolore. Era così intenso che in un primo momento non riuscì a identificare da dove venisse. Una parte di lei era troppo spaventata per aprire gli occhi e controllare. Sapeva di essere distesa sulla schiena, almeno. Ma oltre a quello tutto era confuso. Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta svenuta.
Fece un respiro profondo e si costrinse ad aprire gli occhi. La prima cosa che notò fu che era atterrata quasi esattamente al centro della zona imbottita che aveva creato usando il materasso. La seconda cosa che notò fu che la testa le urlava dal dolore. Il corpo poteva aver colpito terra per primo, ma chiaramente l’aveva fatto anche la parte posteriore della testa. C’era sangue ovunque.
Guardò la dolorante mano sinistra e vide che il polso era ritorto in modo innaturale. Era chiaramente rotto. Le pulsava anche la gamba destra. Inclinò la testa per vedere meglio. C’era qualcosa che proprio non andava nella tibia. Tutta la parte inferiore della gamba si era gonfiata fino a raggiungere circa le dimensioni di un pallone da football. Spostò il peso e involontariamente gridò di dolore. Il coccige sembrava essersi rotto a metà. Se era su quello che era atterrata, probabilmente era così.
Ashley si costrinse a strisciare verso la porta del silo. Ogni movimento le inviava stilettate di dolore in tutto il corpo. Attraverso gli occhi annacquati, vide in un angolo ciò che sembrava essere un tavolo operatorio riconfigurato. C’erano delle cinghie sui lati e un ceppo per la testa. Decise di non pensare a cosa potesse servire.
C’erano una piccola scrivania e una sedia presso la porta, e le usò per tirarsi su. Sedette con cautela sull’orlo della scrivania mentre riprendeva fiato. Faceva caldissimo alla base del silo e il suo corpo quasi nudo era scivoloso per via del burro di arachidi, del sudore e del sangue. Si ricordò che i vestiti che aveva buttato nell’imbuto erano ancora sul grumo di imbottitura ma non c’era modo che riuscisse a tornare a prenderli.
Raggiunse la maniglia della porta e le venne in mente un pensiero terribile.
E se ho sopportato tutto questo e la porta è chiusa dall’esterno?
Si mise a ridere, conscia di essere leggermente isterica, però incapace di fermarsi. Alla fine si calmò, afferrò la maniglia e spinse.
Si aprì. La luce del sole inondò l’ambiente, accecandola temporaneamente. Quando gli occhi si abituarono, si prese un istante per valutare la zona. Fuori, tutto era silenzioso e normale. Un uccello la superò in volo mentre una brezza leggera scompigliava l’aria. A un centinaio di metri di distanza c’era una vecchia fattoria. Dietro, c’era un granaio fatiscente. Entrambi erano circondati da cambi brulli che non vedevano l’ombra di un raccolto da anni.
Afferrò la sedia e puntò nella direzione opposta, giù per una strada segnata dai solchi delle ruote e soffocata da erbacce e fogliame. Usava la sedia come una specie di deambulatore, zoppicando sulla gamba sinistra mentre si sorreggeva sulla mano destra e sull’avambraccio sinistro. La girava e ci si sedeva sopra quando aveva bisogno di una pausa.
Seguì la strada fino alla cima del pendio di una collina. Quando ci arrivò, ciò che vide le fece venir voglia di piangere dalla gioia. C’era una strada asfaltata a circa duecento metri di distanza. Era una strada lunga ma se ce l’avesse fatta avrebbe potuto fermare qualcuno per farsi aiutare.
Improvvisamente udì il rumore inequivocabile di una macchina. Girava l’angolo una berlina convertibile grigia. Due giovani donne, probabilmente di pochi anni più grandi di lei, occupavano i sedili anteriori.
Senza pensarci, le chiamò.
“Ehi! Qui! Aiutatemi! Vi prego!”
Agitava disperatamente il braccio buono. Sarebbero state troppo lontane per sentirla comunque, ma mentre l’auto passava sentì della musica diffondersi dalle casse. Non guardarono mai nella sua direzione.
Nella fattoria tornò il silenzio. Poi sentì un forte botto, come di una zanzariera sbattuta. Guardò in direzione della fattoria. Un uomo si trovava in piedi, lì davanti. Usava la mano per proteggersi gli occhi mentre scrutava l’orizzonte.
Ashley, accortasi di trovarsi sulla cima di una collina, immediatamente si buttò a terra e si distese. Afferrò una gamba della sedia, cercando di stenderla sul fianco, ma lo sforzo richiesto era esagerato e le ci vollero dieci secondi buoni prima che si rovesciasse.
Aspettò, ansimando piano, sperando contro tutte le speranze.
Poi, in lontananza, udì chiudersi la portiera di una macchina e un motore che si accendeva. Sgasò mentre il veicolo prendeva velocità. Si stava avvicinando. Si rotolò sull’altro versante della collina meglio che poté, ignorando il dolore, cercando di allontanarsi il più possibile dalla strada di terra.
Il veicolo si fermò. Girava al minimo quando la portiera si aprì e poi si richiuse. Udì dei passi che si avvicinavano. Sulla cima della collina apparve una figura, ma aveva il sole negli occhi e non riuscì a distinguerla. La figura fece un passo avanti, bloccando i raggi.
“Ma ciao,” disse l’uomo affabilmente.
Ricordi che aveva rimosso le inondarono il cervello più rapidamente di quanto Ashley potesse processarli. Riconobbe l’uomo. Era il tipo che aveva visto due sere prima al minimarket vicino alla scuola. Ricordava che aveva flirtato con lei e lei ne era stata lusingata perché era carino e probabilmente aveva qualcosa più di trent’anni. Si chiamava Alan. Gli avrebbe anche dato il suo numero se non fosse stato per Walker. Ed era lo stesso ragazzo che le si era accostato accanto nel furgone nero dopo la scuola, ieri pomeriggio. Aveva avuto solo un secondo per registrare che era lui prima che tutto si facesse buio. Quello era l’ultimo ricordo prima del risveglio nel silo.
E adesso era in piedi sopra di lei, l’uomo che l’aveva rapita, a salutarla con calore, come se non avesse una preoccupazione al mondo.
“Non sei un granché,” le disse avvicinandosele. “Sei tutta insanguinata. Il polso e la gamba sembrano messi piuttosto male. E, mio Dio, sei mezza nuda. Dovremmo davvero riportarti dentro e darti un’occhiata. Poi possiamo riprendere gli esperimenti.”
Mentre le si avvicinava, anche se sapeva che nessuno poteva sentirla, Ashley si mise a gridare.
CAPITOLO VENTOTTO
Martedì
Mezzogiorno
Keri indossò i guanti di lattice ed entrò per la seconda volta quel giorno nella baita di Payton Penn. Perlustrò la proprietà circostante prima di entrare, nella remota possibilità che Ashley fosse tenuta da qualche parte sottoterra. Non trovò nulla.
Non ne rimase sorpresa. Con il suo alibi di ferro, non c’era modo che Penn potesse aver preso Ashley, il che significava che doveva essere stato aiutato. E se non voleva sporcarsi le mani personalmente, non aveva senso portarla a casa sua. La tenevano in un altro luogo.
È per quella ragione che la prima cosa che fece subito dopo essere entrata nella baita fu aprire il vecchio laptop che si trovava sul tavolo da caffè. La polvere che ci si era accumulata sopra la rendeva nervosa. Significava che non veniva usato da un po’. Ci si sarebbe aspettati che rimanesse in contatto con il suo socio regolarmente.
Una rapida ricerca mostrò che la cronologia internet era stata cancellata. Di per sé, nulla di sospetto. Ma nel contesto aggiungeva dubbi.
Perché uno che vive solo in una baita isolata cancella la cronologia? Non è che debba nascondere il porno a qualcuno. E allora, cosa sta nascondendo?
Andò ai preferiti e aprì l’account email Yahoo. Per uno che era così prudente con la cronologia, era stato piuttosto distratto in questo caso. Non aveva fatto il log out l’ultima volta che si era connesso quindi la pagina si caricava direttamente sulla posta in arrivo senza richiedere la password. Keri fece delle ricerche veloci – “rapimento”, “nipote”, “Penn” – non ebbe fortuna. Pensò per un istante, poi provò “furgone”. Saltò fuori un’email con lo username bambamrider22487. Ne cercò altre con quel nome e fece bingo.
La prima era stata scritta da bambamrider22487 un mese prima e diceva:
Re: La caccia grossa:
Attraverso il nostro amico in comune, ho accettato di venderti il mio biglietto. Costerà venti dollari. Ti aspetta sotto al sedile 21, al piano superiore della sezione 13 dello stadio dei Dodger questo giovedì sera. Se lo prenderai, supporrò che vorrai partecipare e che il prezzo sia giusto.
Payton, con lo username di PPHeeHee, aveva risposto:
Ci sarò.
La corrispondenza riprese due settimane dopo, da Payton Penn a bambamrider22487. Diceva:
Come da tua richiesta, ho un furgone per la caccia. Si trova nel parcheggio indicato. Le chiavi sono assicurate allo pneumatico interno, lato conducente.
La corrispondenza riprendeva una settimana prima, da bambamrider22487 a Payton Penn:
La caccia comincia a una settimana da oggi. 1500-West. Ti prego di confermare. Questa è l’ultima occasione per negare la propria partecipazione.
Payton aveva risposto un’ora dopo:
Confermata.
Alcune cose erano facili da capire. La caccia grossa era ovviamente il rapimento. Sospettava che i venti dollari fossero ventimila, per prendere Ashley. Il furgone si spiegava da solo. 1500-West quasi certamente era l’ora militare per le tre del pomeriggio a West Venice High.
Ma se Payton era stato alla partita dei Dodgers, aveva già un biglietto. Quindi cos’era il “biglietto” lasciato sotto al sedile? Poi, d’un tratto, comprese. C’era un punto in una delle email in cui si diceva “Come da richiesta, ho un furgone per la caccia”.
Ma non c’era nulla nelle lettere in cui si richiedeva un furgone. Doveva essere stata una richiesta verbale. Il “biglietto” era un telefono, molto probabilmente un usa e getta. Keri guardò il telefono di Payton sul divano dove l’aveva lanciato lei prima. Era un bell’Android – di certo non un usa e getta. Ciò significava che l’altro si trovava da qualche altra parte nella casa, probabilmente ben nascosto considerando la sua natura sensibile.
Keri chiuse il computer e guardò in giro per la stanza. Cercò di mettersi nei panni di Payton Penn. Dove avrebbe nascosto il telefono?
È abbastanza attento da sapere che deve essere tenuto nascosto. Ha cancellato la cronologia internet. Però ha anche lasciato aperto l’accesso alla posta elettronica. È stato abbastanza sveglio da mettere un segnalatore di emergenza sul telefono per contattare il suo avvocato. Però me l’ha anche detto. Quest’uomo è una combinazione di paranoia, negligenza, pigrizia e presunzione. Dove lascerebbe uno così il telefono?
Le venne in mente che Penn lo avrebbe voluto facilmente accessibile ovunque nella piccola baita, ma senza tenerselo addosso. Probabilmente si trovava in quella stanza. Mentre analizzava i dintorni, Keri si immaginò Payton che correva per afferrare il telefono che squillava, sperando di raggiungerlo prima che partisse la segreteria telefonica.
Vicino, ma non troppo.
E poi gli occhi le caddero sull’unico oggetto della baita che non aveva l’aria di appartenere a Payton Penn. Sulla mensola del caminetto, tra una birra vuota e una custodia vuota per dvd per una cosa che si chiamava Barely Legal: Volume 23, c’era un piccolo orologio antico, più o meno delle dimensioni di una scatola di fazzoletti di carta, col quadrante decorato con i numeri romani. A Keri non sembrò per niente lo stile di Payton. In più, segnava le sei e trentasette e in quel momento erano le dodici e nove.
Lo raggiunse e lo sollevò. Era molto più leggero di quanto si aspettasse e riuscì a sentire uno sferragliare da dentro. Ne scorse i bordi finché il dito non andò a grattare contro una piccola rientranza nel legno, sulla cima. La spinse e tutta la parte inferiore dell’orologio si aprì. Dentro c’era un piccolo scompartimento che conteneva un cellulare a conchiglia a buon mercato.
Keri lo prese e guardò il registro chiamate. A cominciare da tre settimane prima, Payton aveva ricevuto molte telefonate da diversi numeri di telefono. Li compose uno a uno. Il primo era un telefono pubblico. Il secondo era un altro telefono pubblico; stessa cosa per il terzo, e per il quarto. E poi, col settimo numero, dopo sei squilli, partì la segreteria telefonica, con un breve messaggio registrato.
“Lasciate un messaggio.” La voce era insipida e anonima, ma Keri sapeva che doveva essere il rapitore di Ashley. Memorizzò tutti i numeri sul suo telefono, rimise con attenzione quello di Payton nell’orologio, lo risistemò sulla mensola e lasciò la baita.
Una volta tornata in macchina, percorrendo l’infinito vialetto di Payton, fece tre telefonate. La prima fu al detective Edgerton, giù alla stazione di polizia. Era il guru informatico dell’unità. Gli diede tutti i numeri e gli chiese di tracciarli. Gli diede anche lo username Yahoo di “bambamrider22487.” Era quasi sicura che fosse un account anonimo. Quel tizio era molto più attento di Payton. Poi mise Edgerton in attesa mentre chiamava lo sceriffo Courson. Non la fece lunga e andò dritta al punto.
“Sceriffo, sto lasciando la città, però mi è venuto in mente che nessuno ha messo in sicurezza la baita di Payton Penn. La nostra squadra CSU non arriverà che tra un’ora o giù di lì. Odierei che qualcuno, magari un famoso avvocato di Los Angeles, ci andasse e ‘ripulisse’ il posto. Forse lei potrebbe mandarci uno dei suoi per tenere la baita in sicurezza finché non arriva la nostra squadra.”
“Credo che sia un’idea fantastica, detective,” disse Courson. “Arriverà qualcuno tra dieci minuti”.
“Grazie,” disse prima di tornare a Edgerton, che era pronto con le informazioni di cui aveva bisogno.
La chiamata successiva era per Ray, ma partì subito la segreteria. Non lo trovò strano, perché probabilmente stava risalendo le montagne verso Twin Peaks in quel momento, in una zona con campo limitato. Lasciò comunque un messaggio.
“Ray. Spero che sentirai presto questo messaggio. Payton Penn è coinvolto. Ho trovato delle email tra lui e un rapitore su commissione, nella baita. Ho trovato anche un telefono usa e getta con dei numeri nel registro chiamate. Edgerton me li ha tracciati. L’ultimo ha un indirizzo e un nome – Alan Jack Pachanga, trentadue. Entra ed esce di galera da quand’era un ragazzino, soprattutto per aggressione, rapina a mano armata e altra roba bella. Ma è rimasto fuori dai radar nell’ultimo paio di anni. Vive in una fattoria vicino ad Acton. Edgerton può darti i dettagli precisi se lo chiami. Sto andando là adesso. A quest’ora della giornata, con le sirene, immagino che ci metterò poco più di un’ora. Vuoi unirti a me? Proverò a non fare nulla finché non arrivi tu. Ma tu mi conosci, faccio sempre qualche stupidaggine.”
Riappese e buttò il cellulare sul sedile del passeggero, capendo che doveva ancora essere un po’ arrabbiata con il suo partner perché prima non l’aveva appoggiata. O c’era dell’altro?
Scacciò il pensiero dalla mente. Avrebbero risolto i loro problemi più tardi.
Mentre Keri si immetteva nella Highway 138 in direzione ovest, mise la sirena sul tettuccio e spinse l’acceleratore, andando tanto veloce quanto la strada di montagna le permetteva.
Resisti, Ashley. Sto arrivando.
CAPITOLO VENTINOVE
Martedì
Primo pomeriggio
La strada più veloce per Acton da Twin Peaks era la Highway 138 in direzione ovest, perché tagliava e costeggiava proprio il lato nord della National Forest di Los Angeles. La strada era per la maggior parte a due corsie, ma con la sirena accesa le macchine si spostavano velocemente a lato e Keri riuscì a farcela in poco tempo. In appena poco più di un’ora era entrata con la Highway 14 nell’Antelope Valley e si avvicinava alla periferia di Acton, dove si trovava la fattoria di Pachanga.
Superò l’entrata, che era delimitata da un cancello chiuso da un lucchetto, e guidò per un altro quarto di miglio prima di girarsi. Si mise a bordo strada a circa cento metri dalla fattoria e portò lentamente la Prius lungo la striscia di terra della banchina, sistemandosi dietro a un alto e incolto appezzamento di cespugli che forniva un ottimo nascondiglio – a meno che qualcuno non si fosse avvicinato.
Prese il binocolo e cercò di studiare la fattoria. Sfortunatamente, la strada di terra – che era più un sentiero, a dire il vero – portava in cima alla collina e non riusciva a vedere che cosa ci fosse dall’altra parte della salita.
Prese il telefono per chiamare Ray, da cui non aveva avuto notizie. Solo allora capì perché. Adesso era lei a non avere campo. Non era così strano, in quella zona. In retrospettiva, avrebbe dovuto chiamarlo quando stava passando vicino a Palmdale, dove sicuramente avrebbe avuto campo.
Notò l’icona della busta lampeggiante e capì di aver ricevuto un messaggio, anche se non l’aveva sentito arrivare. Era di Ray, e diceva:
“Arrivato a Twin Peaks. Ho ricevuto il tuo messaggio. Vengo verso la fattoria. Non fare la stupida. Aspettami.”
L’ora di arrivo era l’una e tre minuti, circa mezz’ora prima. Se avesse guidato veloce quanto lei, sarebbe arrivato in circa trenta minuti, appena dopo le due. Poteva aspettare fino ad allora?
I pensieri di Keri andarono a Jackson Cave. Payton Penn gli aveva ovviamente parlato. E se avesse detto a Cave di contattare Pachanga per dirgli che la cattura era imminente e che si sarebbe dovuto liberare di tutte le prove, inclusa Ashley? Non era una preoccupazione infondata. Se era accaduto, Keri magari aveva già tardato troppo. Aspettare un’altra mezz’ora sarebbe stato irresponsabile.
Non aveva scelta.
Doveva entrare.
*
Keri afferrò la pistola e il binocolo, indossò il giubbotto antiproiettile e un paio di occhiali da sole, e si diresse a piedi sulla tranquilla strada che portava alla proprietà di Pachanga.
Arrivando al cancello della fattoria, Keri notò che, mentre l’intera inferriata era arrugginita, il lucchetto che la teneva chiusa era brillante e nuovissimo. Un cartello lurido diceva:
Proprietà privata.
Vietato l’accesso.
Invece di cercare di scavalcarlo, si schiacciò tra le grate affilate della recinzione che costeggiava tutta la proprietà e cominciò a risalire la collina. Non procedette proprio sulla strada, nel caso in cui fosse apparsa all’improvviso una macchina, ma a circa dieci metri di distanza, dove si sarebbe potuta buttare nel fitto cespuglio di arbusti per nascondersi.
Quando fu vicina alla sommità della collina, Keri si mise giù sulla pancia e strisciò per il resto della strada. Teneva alta la testa per vedere tutta la zona.
Un tempo doveva essere stata una fattoria produttiva. C’erano campi delimitati, un silo di grano, un granaio e la vera e propria fattoria. Ma chiaramente non veniva usata a quello scopo da anni. I campi erano invasi dall’erbaccia e da molti vecchi trattori, che stavano silenziosi di guardia. Molti veicoli mangiati dalla ruggine punteggiavano la proprietà. Nessuno sembrava funzionare. Il granaio sembrava cadere a pezzi. E il silo era distrutto dalla ruggine. Il letto di un ruscello asciutto tagliava la proprietà in due metà uguali.
Non aveva molta copertura per scendere la collina e darsi un’occhiata intorno. Avrebbe dovuto strisciare per altri cinquanta metri tra i cespugli prima di raggiungere l’area alberata che costeggiava il ruscello fino alla fattoria. Da lì poteva usare qualche albero e qualche macchina abbandonata per nascondersi mentre si avvicinava al silo e al granaio. Sarebbe stato un procedere lento ma poteva farlo.
Controllò il telefono un’ultima volta – ancora niente segnale. Lo mise silenzioso per precauzione, fece scivolare il binocolo in tasca e cominciò la discesa della collina.
Dieci minuti dopo raggiunse la fattoria. La porta principale era chiusa a chiave. Fece il giro della casa, accovacciata, sbirciando dentro alle finestre, ma non vide movimenti. Puntò al granaio, lanciando occhiate a una stationwagon senza ruote e a molti alberi alle sue spalle, lungo la strada.
Raggiunse l’entrata e guardò dentro. Non vide nessuno ma al centro del granaio, proprio sotto al fienile, c’era un pick-up rosso brillante.
Pachanga dev’essere qui da qualche parte!
Doveva aver lasciato il veicolo lì nel granaio per tenerlo nascosto dalla strada. Con attenzione, Keri gli si avvicinò e guardò dal finestrino aperto. Le chiavi erano inserite nell’accensione.
Keri silenziosamente le tolse e se le mise nella tasca dei pantaloni. Almeno adesso, se avesse trovato Ashley, avrebbe avuto un modo per andarsene. E a meno che uno di quei trattori potesse essere avviato, Pachanga non avrebbe avuto modo di seguirla.
Un forte botto metallico la riscosse dal suo sogno compiaciuto.
Uscì di corsa e fece il giro del granaio per vedere da dove fosse venuto.
Un uomo stava scendendo da una scala a pioli fissata al fianco del silo. Il rumore doveva averlo provocato lui chiudendo il portello in cima. Keri non riusciva a vederne il viso ma i capelli erano di un biondo scolorito dal sole. Indossava jeans, stivali da lavoro e una t-shirt bianca che faceva risaltare la pelle molto abbronzata. Da ciò che vedeva Keri, non era particolarmente alto, forse un metro e settantasette. Ma aveva una corporatura grossa e muscolosa. Immaginò che pesasse sui novanta chili e i bicipiti gli scoppiavano sotto alle maniche della maglietta.
Keri non poté fare a meno di chiedersi se fosse il Collezionista. Era lui l’uomo che aveva preso Evie? Era biondo e le era sembrato di aver visto dei capelli biondi sotto il cappello del rapitore di Evie. Ma quell’uomo aveva un tatuaggio sul collo e Pachanga chiaramente no.
Certo, i capelli potevano essere tinti e i tatuaggi rimossi. Ma qualcosa non quadrava. Quel tizio sembrava più giovane, più o meno verso i trenta. Quindi avrebbe dovuto avere sui venticinque anni quando Evie era stata rapita. Ma Keri si ricordava che aveva delle rughe ai lati degli occhi – un dettaglio che non le era più venuto in mente fino a quel momento. Il rapitore di Evie probabilmente aveva quarant’anni o più.
Keri si sentì scivolare in una delle sue tristi fantasticherie e si riscosse. Non era né il luogo né il momento. Aveva un lavoro da fare e non poteva permettersi di avere un doloroso blackout proprio adesso.
Pachanga raggiunse il fondo della scala e si voltò, asciugandosi il sudore dal sopracciglio con l’avanbraccio. Keri rimase colpita da quanto fosse bello. Aveva gli occhi azzurri e il sorriso sbilenco. Non era difficile immaginare Ashley che si avvicinava al furgone solo per guardarlo meglio.
Pachanga diede un’occhiata alla proprietà per un momento, poi scomparve alla base del silo attraverso una porta metallica che chiuse alle sue spalle.
Keri si mosse veloce tra gli alberi finché non si trovò appena fuori dalla porta. Non c’erano finestre nel silo ed era piuttosto sicura di non poter essere vista. Posò l’orecchio alla porta e rallentò il respiro in modo che non interferisse con l’udito.
Riuscì a identificare una voce. Era maschile e le parole erano lente e calme. Non riusciva a capire che cosa stesse dicendo ma sembrava quasi addolorato. Poi sentì un’altra voce – più forte, spaventata e femminile. Piagnucolava quasi, ma parlava a intermittenza. Le parole erano biascicate, come se fosse stata drogata. Keri non riusciva a capire molto di quello che diceva. Ma tre parole erano chiare:
“Ti prego! No!”
Keri controllò l’arma, tolse la sicura, fece un lungo, lento e profondo respiro, e poi piano e lentamente girò la maniglia della porta. Spinse la porta per aprirla giusto quello che le serviva per sbirciare dentro. Riuscì a malapena a credere ai suoi occhi.
Ashley Penn era distesa su quello che sembrava il tavolo operatorio di un medico, con lo schienale rialzato di quarantacinque gradi. Le gambe erano assicurate a delle staffe e le braccia tenute giù alla base del tavolo da cinghie in pelle. La testa era incastrata in una specie di morsa che le impediva di muoversi. Indossava solo le mutandine e il reggiseno e tutto il suo corpo era ricoperto di sangue misto a una sostanza marrone. Aveva qualcosa che non andava al polso sinistro, che pendeva floscio nella sua cinghia. Neanche la coscia destra aveva un bel aspetto. Era viola scuro e gonfia in modo orribile. Un dispositivo accanto al tavolo emetteva un bip e Keri vide che ogni cinghia si stringeva e tirava gli arti di Ashley di circa un centimetro alla volta. Urlava dal dolore.
È una specie di versione automatica del rastrello medievale. Se continua così, le braccia e le gambe le verranno strappate dal corpo.
Keri si costrinse a non correre dalla ragazza. Non c’era traccia di Pachanga. Keri guardò dietro alla porta per vedere se si stesse nascondendo lì – niente. Poi notò un’altra porta pochi metri dietro alla tavola. Era appena socchiusa. Doveva essere entrato lì.
Keri tornò a guardare Ashley e vide che la ragazza le stava restituendo lo sguardo direttamente. Keri si portò un dito alle labbra per dirle di rimanere in silenzio e fece un passo dentro. Ashley sembrava cercare disperatamente di formare una parola senza successo. Keri osservò il tavolino presso alla porta e notò che sopra c’era un piccolo monitor in bianco e nero.
Mentre lo fissava, cercando di identificare l’immagine sullo schermo, Ashley riuscì a sputare fuori una parola:
“Deeeelo!”
Dopodiché, tutto sembrò accadere in una volta sola. Keri capì che il monitor era collegato a una telecamera di sicurezza che era appesa alla porta principale del silo. E mentre capiva che Pachanga doveva averla vista lì, l’unica parola di Ashley le divenne chiara nella testa.
Dietro!
In quel momento, sul monitor, vide passare per un istante un’immagine e capì che si trattava di Alan Jack Pachanga – e che si trovava proprio dietro di lei.