Kitabı oku: «Il peccato di Loreta», sayfa 5
VIII
Passato quel momento di espansione, del quale entrambi avevano sentita per diverse ragioni la grande dolcezza, si sarebbe detto che Loreta e il Sant'Angelo si fossero tacitamente accordati per evitare tutto ciò che ne avesse potuto richiamare il ricordo.
La loro vita in casa continuò nel suo consueto uniforme andamento. E unicamente a certi momenti, quando si trovavano soli, l'uno di fronte all'altra, pareva che un grande imbarazzo sorgesse improvviso a paralizzare la loro parola.
Secondo un'inveterata consuetudine, che il professore aveva seguito fin là costantemente, ogni anno, da quando le sere principiavano a farsi tiepide sino a tardissimo autunno, soleva egli indugiarsi, dopo la cena, fumando tranquillamente, per un paio d'ore dinanzi al portone della casa, in una specie di spianata, dove si collocavano alcuni rustici sedili e d'onde lo sguardo spaziava ampiamente sulla pianura.
Colà, in altri tempi, si facevano le lunghe chiacchierate con qualche ospite amico; colà, nella grande quiete notturna, che suadeva ai giocondi familiari colloqui, egli soleva trovare il più caro ristoro alla sua mente affaticata.
La primavera tornò quell'anno; già i campi erano in piena rifioritura e il maggio imminente, arriso da un costante sereno, invitava con le sue sere placide all'aria aperta. L'ortolano aveva avuto premura che fossero rinnovate intorno alla spianata certe ricche spalliere di amorini, che un dì formavano l'orgoglio della signora Sant'Angelo; e il piccolo Agnul, secondo l'antico uso, disponeva già ogni giorno, subito dopo il tramonto, ai posti consueti, le vecchie sedie di legno, che al principiare della buona stagione egli aveva ridipinto con una bella mano di color verde com'era ogni anno sua gelosa cura particolare.
Ma quella primavera, con molta meraviglia della Vige e non piccola mortificazione del diligente ragazzo, il professore non scese neppure una volta al luogo favorito. Terminato appena di cenare, accendeva il sigaro e seguito da Prè Zuan, il fido cane di casa, se ne andava a fare qualche lunga passeggiata scegliendo di solito le strade meno battute ed evitando di attraversare i luoghi più popolosi. Loreta intanto attendeva ai lavori, e, solo quando questi erano compiti, esciva un po' dinanzi al portone, trattenendosi a respirare l'aria refrigerante della sera.
Ma ritiravasi presto; quasi sempre prima che il professore fosse rientrato.
Di ciò pareva ch'ella facesse uno studio particolare. Anzi non era sfuggito neppure all'ingenuità dell'ottima Vige come la signorina alcune volte in cui il professore ritornava per caso prima del solito, s'affrettava vivamente a ritirarsi, non appena il passo di lui si facesse distinto su per lo stradone o quando per i campi s'udiva abbaiare il vecchio Prè Zuan, lieto di quelle libere scorrazzate in mezzo al verde.
Di questo s'era accorto lo stesso Sant'Angelo e tale osservazione non aveva fatto che accrescergli quel profondo e molesto turbamento, del quale, ad onta di tutti i suoi sforzi, non riusciva ad ottenere vittoria.
Assai spesso, nelle sue ore solitarie, egli si sentiva costretto a domandarsi il perchè dello strano mutamento operatosi in lui. Non si riconosceva più: la sua forza, l'amore del lavoro, la calma dello spirito gli parevano irreparabilmente svaniti; persino il pensiero triste, che prima dominava costante nel suo cervello, il pensiero della madre che aveva perduto, ora non tornava più così assiduo e doloroso. Era in lui un'inesplicabile inquietudine, un desiderio insistente di stancarsi, una malìa acuta e crucciosa, che talora gli accendeva le guance smorte di un foco improvviso ed altre volte gli velava repentinamente gli occhi di pianto.
Contro questo stato d'animo il Sant'Angelo volle reagire. Virilmente volle, e quasi disdegnando di confessare a sè stesso quello che dentro gli ferveva, cercò di porre un freno al male, che comprendeva farsi ogni giorno più veemente e più tenace.
Per riuscire in questo cimento, ch'egli sentiva a sè imposto dalla voce della ragione, procurò di concentrare tutti i suoi pensieri nella fredda realtà della propria vita, perchè da quella essi avessero ritegno ad ogni vano e sconsigliato volo. Indugiandosi talora dinanzi allo specchio, che colle sue abitudini di semplicità aveva sempre considerato inutile ornamento della propria camera, ostinavasi a fissare con una certa amarezza il suo volto avvizzito, il fronte calvo già solcato di rughe, gli occhi deboli e affaticati, la barba cresciuta incolta e pressochè interamente bianca. Si ricordava in quei momenti gli scherzi che con sua madre egli aveva fatto tanto spesso sulla propria vecchiezza. Lei non voleva udire, protestava che quelle erano declamazioni per farla andare in collera. Povera e buona madre, che aveva sempre veduto ogni cosa con gli occhi dell'affetto! No, egli non voleva e non doveva avere di queste illusioni: sarebbe stata debolezza indegna d'un uomo assennato. E dicevasi che la coscienza di sè, per quanto possa riuscire spiacevole e dura, è sempre il dovere del prudente ed è la salvaguardia più forte contro i disinganni.
Il Sant'Angelo di queste sue conclusioni provava un orgoglio, come d'un trionfo che l'animo suo avesse conseguito sopra una misera tentazione della vanità. E tacitamente egli faceva a sè stesso promessa di non lasciarsi rimuovere da siffatti pensieri, sotto il governo de' quali vedeva assicurata durevolmente la sua dignità e la sua pace.
Ma per quanto egli tentasse d'illudersi sulla saldezza di tali proponimenti, le sconfitte della sua volontà si venivano moltiplicando giorno per giorno.
A quale fascino obbediva egli mai per nascondersi ora, ogni sera, nelle ombre della campagna, e spiare di là, lungamente, al lume incerto delle stelle, se una nota figura apparisse lassù, tra le spalliere de' gelsomini, al memore posto, ov'egli nel suo tempo felice aveva passato tante ore tranquille?
Per queste improvvise debolezze, delle quali avrebbe voluto cacciare da sè ogni ricordo, egli era assalito poi da un rammarico crudele. Così una notte egli pianse di rabbia per aver baciato furtivamente, cento volte, una sciarpa di velo ch'egli aveva trovato, dimenticata da Loreta, sopra uno de' banchi rustici dinanzi alla casa, quand'egli era rientrato. Aveva compiuto quell'atto gentile, per potente stimolo dell'anima, col corpo scosso da un fremito delizioso, dopo essersi guardato intorno timorosamente, come fosse stato per commettere un'azione colpevole… E passato appena quell'istante di obblio, allorchè fu solo nel raccoglimento delle sue stanze e ripensò a' propositi fatti, ne ebbe vergogna e dolore.
Delle segrete battaglie, che lo turbavano così, il Sant'Angelo non cercò e non volle confidenti. Anzi, la ferma convinzione che nessuno avesse potuto leggergli nell'animo, gli era argomento di vivo conforto.
Senonchè, anche per tale riguardo trovavasi in errore. Per quanto egli vivesse isolato, sfuggendo le compagnie, l'occhio vigile de' disoccupati era intento abbastanza sopra di lui, perchè egli potesse andar salvo dai commenti della malignità. Il mutamento tanto radicale nelle sue abitudini, delle quali tutti lo sapevano schiavo, la sua taciturnità quasi scontrosa anche verso coloro che in altri tempi aveva particolarmente diletti, dovevano di necessità svegliare l'altrui attenzione. E se da un lato quest'attenzione nasceva unicamente da naturale curiosità, non mancava neppure chi con intento nemico vi infondesse nuovo alimento, ricorrendo pure alle più basse e volgari insinuazioni.
Il Sant'Angelo, così amato in tutto il paese, vi aveva anche de' nemici, pochi di numero, ma fieri e giurati: gente divisa da lui da questioni di partito o che, per atti da lui disapprovati, aveva sempre tenuto da sè lontana con freddezza e riserbo. In mezzo a costoro, più fiero di tutti, col lievito di un vecchio rancore, che non aveva peranco potuto trovar sfogo, don Giovanni Morganti, il prete-archeologo di Collalto.
Dell'essere rimasto soccombente nella memorabile e puntigliosa lite sostenuta contro il professore, il Morganti non tanto si risentiva ancora, quanto dell'atto di dileggio che quegli aveva voluto fargli col famoso battesimo del Terranova: origine di spassi clamorosi, che tuttavia, dopo tanti anni, si rinnovavano ancora a sue spese. Il vecchio non sapeva mettersi in pace: un odio sordo s'alimentava di continuo in lui contro quello "spregiudicato usurpatore" ed era odio così implacabile che se solamente il professore passava per caso dinanzi alla trattoria di Tricesimo, dove il Morganti soleva bere la sua tazza di birra facendo con gli amici la partita a tresette, il suo viso diventava scarlatto e la vista gli si annebbiava da non distinguere più le carte che aveva tra mano.
Le voci corse in paese sull'"innamoramento" del professore giunsero assai propizie al prete di Collalto, che subito vi scorse un mezzo più che favorevole per soccorrerlo ne' suoi non confessati, ma fermi propositi di vendetta.
Approfittando delle narrazioni che molti facevano durante le lunghe chiacchierate all'osteria, fra una partita e l'altra, sul cupo umore e sulla ciera rannuvolata, che il Sant'Angelo aveva costantemente, lo scaltro prete fu quegli che iniziò i commenti maliziosi. Con arte gesuitesca, fingendo prima una certa titubanza ad ammettere "benchè si trattasse di quel bel figuro" che un uomo come lui, non certo privo di senno, potesse alla sua età lasciarsi invescare così puerilmente nei lacci dell'amore, metteva poi, con molto lusso di parole, in evidenza il ridicolo che da ciò doveva necessariamente ricadere sulle sue spalle. Quindi, senza darsene l'aria e coordinando le ciarle vaghe, che or l'uno or l'altro riferiva, venne a poco a poco mettendo insieme una completa storiella, secondo la quale il professore Sant'Angelo era oramai ridotto alla parte di un povero zimbello, che la forastiera si divertiva a muovere a suo talento, dopo avergli fatta perdere la testa ed essersi impadronita di ogni potere in casa.
–Non sarà vero forse! – concludeva il vecchio ipocrita intrecciando le sue grasse mani di fannullone sull'ampio torace. – Ma intanto prima d'ora non s'era parlato mai ne' nostri paesi d'una simile tresca! Ah! questi liberaloni, questi liberaloni!..
Sciolto così il volo alle dicerie maligne, esse divulgaronsi rapidamente, e, come sempre, nel divulgarsi crebbero di intensità e d'acrimonia.
Si suol dire che al male facilmente si crede. In tesi generale è vero. Ma non manca, per onore degli uomini, anche chi, dinanzi all'aperta cattiveria altrui, protesti e si ribelli.
Il degno don Morganti trovò alle sue manovre insidiose sostenitori conniventi ed inconsapevoli complici; ma trovò anche chi gli oppose non solo confutazioni piene di convinzione, ma anche calde e vivaci rimostranze.
Fra questi ultimi fu il conte Leonardo Mangilli, che con tutta la sua ruvidezza, per la quale molti nel paese lo chiamavano semplicemente il conte orso, non era tipo da lasciar passare senza sdegno e senza difesa gli attacchi vilmente diretti alle spalle di persona, ch'egli stimasse degna di rispetto e di considerazione.
Il prete, che vedeva cadere con sì grande facilità nei suoi tranelli tanti semplicioni, i quali poi divenivano ciechi strumenti delle sue bieche arti, ingannato dalla rudezza del Mangilli, da lui interpretata come inclemenza d'animo, aveva sulle prime creduto d'aver trovato in quello, un nuovo e facile alleato. L'altro l'aveva lasciato dire. Per sapere ogni cosa sino al fondo, gli diè anzi animo a continuare; ma quando ebbe appreso fin dove si spingesse la perversità del suo interlocutore, gli fe' morire bruscamente sul labbro la parola.
–Potrà essere che il Sant'Angelo come tutti gli uomini al mondo commetta delle corbellerie. È cosa che accade ogni giorno e ne accadranno di simili in ogni tempo. Ma voler gittare su lui e sopra una povera e indifesa donna il fango a questo modo, è opera codarda e degna solo di gente cattiva!
A cotesta sfuriata il prete, rosso come un gallo, si sottrasse con mille assicurazioni di essere stato malinteso. "Eran cose che gli altri-tutti gli altri-dicevano: non lui, che anzi ci credeva pochissimo!" Ma il conte tagliò corto al discorso, mostrandosi profondamente nauseato di quelle malignità. – "L'orso ha mostrato i denti!" dissero in quell'occasione gli avventori del Caffè della Posta a Tricesimo, dove la scena era avvenuta.
E il Mangilli infatti aveva dovuto far violenza a sè stesso per non dar fuori in più aspre invettive. Che nello schiudere con tanta generosità le porte della sua casa alla cugina il professore si fosse tirato sul capo molti pericoli, egli aveva sempre creduto. In que' giorni, mentre gli altri lodavano in coro la buona azione, egli solo, contro tutti, aveva fatto le proprie riserve, con la sua rude ingenita franchezza. Ma ora, anche se i fatti venivano a dargli ragione, non poteva lasciar vilipendere a quel modo un fiore di galantuomo, com'era il Sant'Angelo, nè adattavasi a tollerare che la cattiveria altrui fosse lasciata proseguire, senza repressione, nelle sue velenose ed esagerate insinuazioni.
Col suo concetto dell'amicizia, reciso e franco, gli parve dovere d'aprire gli occhi al Sant'Angelo; e, senza dissimularsi la difficoltà del suo compito, si propose di parlarne subito, senza reticenze, al professore. Anche se la verità gli dovesse tornar discara, poco male: la conoscenza del vero l'avrebbe messo in guardia. Ed a questo unicamente egli tendeva.
Non parendogli adatto di recarsi a questo scopo speciale alla casa del Sant'Angelo, ch'egli da qualche tempo più non frequentava, stimò miglior consiglio cercare d'incontrarlo come per caso.
Nè questo gli riuscì difficile. Sapeva quali erano le passeggiate che ora il professore preferiva; e una di quelle sere, messosi da quelle parti, si avvenne in lui precisamente secondo il suo disegno.
Al primo incontrarsi parlarono di cose indifferenti, con quello scambio di frasi usuali, che la circostanza suggeriva. Ma il conte Mangilli, deciso, a non lasciarsi sfuggire l'occasione che aveva cercato, trovò il modo di entrare difilato in argomento.
–Non vi si vede più, professore. Vi siete messo a fare propriamente l'eremita. Che cosa vuol dire?
Il Sant'Angelo s'attaccò alle solite scuse: gli studi, l'umore cattivo, la salute che non aveva più buona come una volta.
–Male, male, caro Mattia! – l'altro riprese. – Con questa vita di solitudine vi avvelenate l'esistenza. Un uomo come voi, che era l'anima delle brigate, che portava a tutti la consolazione e l'allegrezza! Che abbiate avuto dei dolori, chi non lo sa! Non si perde, senza che sia uno schianto per l'anima, una madre come la vostra. Ma anche il dolore ha un limite. E fare come voi fate è torturarsi inutilmente!
–Che volete, caro conte Nardin, quando si hanno certi temperamenti benedetti!
–Sì, capisco; i temperamenti voglion dire assai. Ma, corpo di mille diavoli, quando si ha un po' di sangue nelle vene, si deve ben trovare la maniera di vincersi!
E, passato il braccio sotto quello del Sant'Angelo:
–In confidenza, professor Mattia, non andate in collera se vi riferisco quel che dicono in paese? Gente maligna, lingue sacrileghe, certo! ma poichè di queste si deve sempre temere…
Il conte sentì come il braccio del Sant'Angelo ebbe un sussulto sotto il suo.
–Che cosa dicono? – chiese forzandosi a che la voce non tradisse l'emozione.
Il Mangilli, arrivato al punto cui egli mirava, non si tenne più e ruvidamente, senza ambagi, spiattellò quanto s'era proposto di dire, sino all'ultima sillaba, solo tacendo i nomi delle persone, onde aveva saputo la cosa.
-Vi volli dir tutto, – egli concluse, – non perchè io lo creda; non perchè, ove fosse vero, io ve ne terrei carico. Il mondo è mondo. Noi diciamo con un nostro proverbio che l'aghe rovine i puints e il vin il çhav…1, ma più del vino rovina il capo l'amore. Disgrazie queste… possono capitare a ognuno… anche a me, che sarebbe tutto dire! Ma poichè ci va di mezzo col vostro nome il nome di una donna… e che di questa si dicono le cose più tristi, sta bene che almeno voi abbiate gli occhi aperti e vi sappiate regolare!
Mattia a quella narrazione restò tutto sconcertato. Le parole rudi del conte, che senza mendicare perifrasi chiamavano le cose col loro vero nome, gli avevano dapprima messo il fuoco alle guance e alla fronte. Il comprendere che il suo segreto, ch'egli credeva da nessuno sospettato, fosse stato già scoperto e fatto argomento di bassi commenti, gli recava un profondo rammarico. Ma questo sentimento fu quasi cancellato al pensiero che il nome di Loreta, di quella donna gentile e buona, ch'egli adorava e stimava, fosse trascinato così nel dileggio con una diceria codarda ed oltraggiosa.
–Chi? chi? – egli chiese a un tratto stringendo le pugna, con un trasporto di collera, che contrastava in modo singolare colla sua indole pacifica e mite.
–Chi? – rispose il conte, fermandosi per non dire il nome che il suo sdegno di uomo onesto gli sospingeva al labbro. – Chi? Tutti e nessuno. La rana che gracida nel pantano, ma il cui grido insistente, che viene dall'ombra, tutti possono udire… Per questo: occhi aperti, diffidenza con tutti. Uomo avvisato mezzo salvato!
IX
Le cose risapute dal Mangilli misero l'inferno nell'animo del professore; e se da un lato comprendeva di dovergli riconoscenza per quella prova di amicizia, dall'altro quasi dolevasi ch'egli non gli avesse risparmiato una pena così crudele.
Da principio, colla testa ancora in fuoco, ad una sola cosa egli pensò: scoprire i tristi che avevano messo in giro le calunniose voci, affrontarli risolutamente e costringerli a farne immediata ammenda.
Ma che tale proposito fosse inattuabile s'appalesò a lui stesso non appena calmato il primo bollore dell'ira. Come avrebbe egli potuto con sicurezza, per quanto guidato da fondati sospetti, chiedere ragione a singoli individui di ciarle, che ad ogni ora trascorsa si spandevano sempre più vastamente nel paese? Poi in uno scandalo non sarebbe per avventura stato compromesso in modo ancor più grave il nome di Loreta, il nome stesso dei Sant'Angelo? E forse nella dimostrazione dei proprî risentimenti non avrebbero avuto conferma ed avvaloramento le dicerie circolate?
Queste considerazioni trattennero il Sant'Angelo da que' passi ai quali sulle prime erasi trovato spinto con istintiva veemenza. Ed anche da questo lato ebbe gratitudine al Mangilli dell'avernelo freddamente ammonito mettendogli sottocchio tutte le possibili conseguenze.
Con tutto questo però la battaglia che lo affannava non ebbe tregua. A tutte le interrogazioni che egli si proponeva sul modo di liberarsi dal martirio di quella situazione, non gli veniva fatto di dare risposta. E in tale impotenza della propria ragione egli s'abbatteva percosso in un avvilimento sempre maggiore, senza speranza di più poterne uscire ritemperato e vittorioso.
Mai come in quei giorni egli sentì il dolore della propria solitudine. Gli pareva che nella tristezza di quei frangenti la parola affettuosa di una persona amata gli avrebbe fatto un bene immenso. E questo pensiero gli si faceva più cocente ogni volta che si trovava di fronte a Loreta. Da lei sola gli pareva che un conforto gli sarebbe potuto venire, da lei ch'era stata sempre per la sua casa come un buon genio consolatore.
Ma neppure siffatto bisogno di una espansione confidente valse a disuggellare il labbro del Sant'Angelo nei suoi incontri con la cugina. Diffidando di sè stesso, comprendeva come una sola parola avrebbe potuto trascinarlo alla confessione di quel segreto, ch'egli ascondeva con tanta gelosia. E si prefisse di durare coraggiosamente nel proprio silenzio.
Questo però gli costava una fatica estrema, non pure per gli impulsi del proprio cuore, ch'egli doveva frenare, ma più ancor in causa d'un fatto, ch'era venuto ad accrescere in modo grave le sue preoccupazioni.
Loreta in que' giorni mostravasi assai sofferente. Ella che di consueto lavorava in casa senza tregua, lieta di quell'attività continua, da qualche tempo era costretta a negligere una parte delle sue occupazioni. Restava a lungo ritirata nella sua camera, evitava di scendere alle ore dei pasti allegando un malessere, ch'ella assicurava passeggero e pel quale non d'altro sentiva bisogno che d'un poco di quiete.
A Mattia, che con affettuosa premura venne a chiederle che cosa soffrisse, ella rispose forzandosi a trovare qualche frase scherzosa. Nè altrimenti si contenne colla Vige, che le stava intorno continuamente piena di sollecitudine e di interessamento.
Ma nè la Vige nè il professore rimasero per tal guisa tranquillati. Che Loreta soffrisse e che i dinieghi suoi non rispondessero al vero, lo diceva chiaramente la pallidezza del suo viso e lo dicevano i suoi occhi arrossati e gonfi come per lungo piangere.
La Vige non potè tenersi dal dire al professore ciò ch'ella pensava:
–La signorina sta male. Io so che non mi sbaglio. Così, com'è ora, non l'ho vista che una volta, nel primo tempo quando venne in casa… Si ricorda, padrone mio, di quella volta… Era lo stesso, proprio lo stesso!
Il Sant'Angelo non rispose. Che la giovane si trovasse sotto il peso di una preoccupazione fortissima non aveva dubbio. E subito il pensiero gli venne ch'ella non soffrisse per qualche maligna voce giunta al suo orecchio. Benchè Loreta vivesse isolatissima, uscendo di casa appena due volte la settimana, per recarsi a Tricesimo nel giorno di mercato e alle domeniche per la messa, certo i nemici suoi dovevano aver trovato il mezzo perchè ella venisse a cognizione delle dicerie che s'erano fatte.
Cotesta idea lo inasprì vivamente. Le sofferenze proprie gli parvero avessero ad un tratto perduto la loro insistente asprezza. E assorbito completamente in questo nuovo pensiero, si sentì riardere d'ira contro i vili, che non paghi del male a lui fatto, avevano per fermo voluto gittare il turbamento anche nell'anima di quella povera donna.
Incapace di appigliarsi ad alcun partito e tormentato ognor più acerbamente da tanta indecisione, un lampo di luce balenò al professore nel leggere una breve lettera che gli giunse improvvisamente da Udine da parte di don Letterio Prandina.
L'ottimo prete chiedeva di avere con lui un abboccamento: si trattava di cosa delicata, risguardante lui stesso e Loreta Lambertenghi: era costretto a pregarlo di venire in Udine non potendo egli, in causa di malferma salute, recarsi al paese.
Il professore non frappose ritardo. Letta appena la lettera, chiamò Agnul perchè allestisse il carrozzino e, fatta avvertire la Lambertenghi che recavasi in città per affari, si mise tosto in via.
Mai come in quel giorno il cavallino di casa fu costretto a percorrere di un trotto continuo e serrato il lungo stradone polveroso, che congiunge con una linea retta Tricesimo a Udine.
In men d'un'ora il professore giunse alla meta e, lasciato il carrozzino al solito stallaggio dell'Albergo Italia, se ne andò rapidamente alla casa di don Letterio, posta appunto in quei pressi, non lunge dal palazzo arcivescovile.
Egli trovò il vecchio prete nella sua stanza da lavoro. Benchè ammalato, don Letterio sedeva alla sua scrivania e, con gli occhiali a cavalcioni del naso, stava ordinando un voluminoso pacco di atti. La stanza, che il Sant'Angelo conosceva benissimo, era quasi povera: mobili vecchi coperti d'una stoffa che il tempo aveva scolorato, moltissimi libri ammontati un po' dappertutto, due o tre rozzi disegni a penna incorniciati di nero e rappresentanti alcune vedute de' paesi ove il prete era stato da giovane in missione: unico ornamento appariscente sulla nudità delle bianche pareti un grande crocefisso, pregevolissima opera di scultura in legno. Sul tavolo, in un bicchiere di cristallo alcune grosse rose rosse.
Quando il professore entrò, don Letterio alzò il capo da' suoi scartafacci e tendendogli la magra mano bianchissima, lo salutò con affetto:
–Siete venuto presto, Mattia. Così va bene; vi ringrazio.
–Mi ringraziate, don Letterio? Che cosa dovrei dir io a voi per la bontà vostra? E la salute?
–Non bene, figlio mio. La vecchiaia è per sè stessa una brutta malattia… Con tutto ciò, Iddio m'aiuta… Vedete: lavoro…
–Fate male, Prè Letterio, ad affaticarvi.
–Che volete? Non posso farne a meno. Poi i miei poverelli avevano bisogno di me. Da due settimane non avevo potuto muovermi di casa. Dovevo bene, appena ne ebbi il modo, riparare a tanti giorni perduti.
–Benedetto voi, siete sempre eguale. Dovunque passate tutti vi debbono benedire.
–Non dite queste cose, Mattia: non mi piace di udirle.
–Non è forse la verità cotesta? E d'altronde non la dicono tutti? Perchè dovrei tacerla io, che vi debbo tanto, che non posso dimenticare il bene che avete sempre fatto alla mia famiglia; io, che anche oggi, venendo qui, entrando in questa vostra pacifica casa, ho sentito tanta dolcezza? Se sapeste, don Letterio, il bisogno che ne avevo!
Il vecchio ebbe un sorriso buono sul suo volto pieno di serenità.
–Lo immaginavo, Mattia, lo immaginavo.
–Lo immaginavate?
–Sì.
–E come? come mai?
–Perchè so che siete buono; perchè so che i Sant'Angelo hanno il cuore ben fatto, da padre in figlio; ch'essi non possono a meno di ribellarsi e di soffrire dinanzi alla ingiusta malignità altrui.
–Voi sapete dunque, sapete… e in qual modo?
Il vecchio rimosse colla sua destra, che parea scossa da un tremito continuo, il monte di carte che aveva dinanzi e presane una lettera la porse al professore.
–Leggete.
Mattia spiegò la carta e corse con gli occhi alla firma:
–Loreta!.. È lei che vi narra? Lei!
Don Letterio rimase tranquillo a quelle esclamazioni irruenti, come vi fosse preparato.
–Lei, – rispose, – lei stessa. Leggete.
La lettera che il professore percorse rapidissimamente, in un baleno, non era lunga: tre sole facciate di piccolo formato; ma nella brevità delle frasi, piene di quella naturalezza che è figlia del vero, era ritratto con potente evidenza lo stato d'animo in che la giovane si trovava.
Quello che il professore Mattia s'attendeva era avvenuto. La malignità, che già era riuscita ad ordire intorno a lui così tenace la rete dell'intrigo, aveva trovato la maniera di arrivare con le sue subdole arti fino a Loreta.
Narrava ella in termini precisi e dolorosi il modo con cui ebbe sospetto da prima, e più tardi certezza, delle dicerie oltraggiose che sul conto suo si facevano in paese: fu sul principio un'eco vaga, che le giunse senza sapere da qual parte; furono quindi voci discrete di amici che la metteano, con indeterminati accenni, in guardia; e fu da ultimo l'improvviso glaciale riserbo che notò in alcune famiglie del vicinato, da taluna delle quali si vide togliere perfino quel saluto di convenienza, che sin allora le ricambiavano sempre con tanta simpatia nell'incontrarla in paese o alle domeniche in chiesa. In una condizione siffatta non si sentiva di poter resistere: per quanto negli anni trascorsi in casa Sant'Angelo si fosse trovata felice, non le bastava l'animo di continuarci a vivere adesso a quel modo, sotto il peso di un disprezzo, non men doloroso perchè ingiusto, il quale si sarebbe fatto su lei sempre più grave e l'avrebbe condannata ad un avviliente e sconfortato isolamento. Ricordando con molta gratitudine e con soave rimpianto la ospitalità de' suoi parenti e la bontà di don Letterio, cui era debitrice di quegli anni sereni, a lui rivolgevasi Loreta esponendogli com'ella fosse decisa di uscire da quella situazione insostenibile e supplicandolo ch'egli le fosse largo del suo soccorso ancora una volta in questo frangente.
A mano a mano che Mattia avanzava nella lettura uno strano rimescolio si faceva dentro di lui, e quando fu giunto alla fine sentì così ardente il viso per il sangue che v'era affluito, che durante alcuni istanti rimase immobile, fissando sempre la carta, come avesse provato, un'esitanza a rialzare il capo e ad incontrare lo sguardo del suo interlocutore.
Questi fu il primo a rompere il silenzio:
–Ebbene? – domandò. – Che ne pensate?
Il Sant'Angelo si scosse e, stringendo nervosamente la lettera fra le mani poderose, ebbe uno scatto improvviso d'ira:
–I miserabili! – esclamò. – I miserabili!
Il prete lo lasciò dire e solo dopo un momento riprese con molta calma:
–Dell'ira? Sì, è giustificata, è umana, e non saprei io stesso, come sarebbe dover mio, farvene rimprovero. Ma a che potrebbe giovare la vostra ira? E contro chi potrebbe essa con maggior ragione essere rivolta? No, no, innanzi tutto ponderazione e calma! Che negli uomini abbia maggiore dominio la malvagità è vero purtroppo, ma è altresì dolorosamente vero che qualche volta a tale malvagità sono troppo deboli le armi degli onesti!
–Quando si ha per sè la coscienza della propria illibatezza!.. – esclamò il professore.
–Si, in teoria, voi avete ragione. Sarebbe bello il poter ricambiare sempre col disprezzo la malignità. Ma potete voi, onestamente, chiedere ad una povera creatura, che è debole, che ha già patito, che ha bisogno di pace, di accettare una simile battaglia, in cui i nemici le si moltiplicheranno ogni giorno di contro e che le costerà ogni giorno più aspre ferite? E perchè dovrebbe questa povera creatura, quando non le sia negato di cercarsi altrove la pace, durare in cotesto cimento?
–Allora voi approvate quello che Loreta vuol fare?
–Se scorgessi un mezzo per mutare la situazione, che le circostanze hanno creato, avrei forse qualche esitanza. Ma così…
–Così?
–Debbo approvarlo non solo, ma consigliarlo e lodarlo. È il divisamento di chi si rispetta. E vi confesso che da questo momento, se compiango Loreta per la tristezza della sua sorte, sento accresciuta a cento doppî la mia stima per lei. È una buona, sventurata, esemplare donna…
Il professore ebbe un rapido sfolgorio in tutti i suoi lineamenti.
–Sì, questo sì, – riprese con sùbito trasporto, – buona, esemplare donna… Io lo posso dire che l'ho vista per la mia casa, per la povera mia madre, ricca di tante tenerezze, capace di tanta abnegazione… Vedete, don Letterio, io non posso adattarmi all'idea ch'ella debba abbandonare la mia casa: sarebbe un vuoto, che nulla potrebbe colmare, sarebbe per me una nuova sventura!
–Lo capisco. Ma allora…