Kitabı oku: «Il peccato di Loreta», sayfa 6
–Allora…
E ripetuta questa parola come macchinalmente, il Sant'Angelo curvò il mento sul petto senza poter proseguire.
Il vecchio amico gli posò in atto di benevolenza la mano sulla spalla.
–Andiamo dunque, Mattia, uscite una volta da queste esitanze. Perchè non sapete trovare, voi che siete un uomo forte ed onesto, il coraggio di chiedere al vostro cuore che cosa esso voglia? Perchè non avete almeno un poco di confidenza verso chi vi vuol bene?
L'altro gli afferrò la destra con effusione e con voce che l'emozione rendeva malferma:
–Che debbo dirvi, Prè Letterio, – riprese, – che debbo dirvi? Voi avete letto nell'anima mia. Voi sapeste indovinare assai più di quello che con le mie parole avrei potuto dirvi. Vedete, dunque, se io non sono da compiangere!
–Da compiangere? E perchè dunque? – dimandò il vecchio placidamente.
–Mi chiedete questo, Prè Letterio? Potete chiederlo? Poco fa avete detto voi stesso che mi stimate un uomo forte ed onesto. Ebbene, queste due virtù, che so di avere, che voglio gelosamente conservarmi, sono quelle che mi mettono in guardia contro me stesso. Prè Letterio, potete voi dunque credere che dopo tanti dolori che sono passati sopra il mio capo, io pure non abbia ceduto alla tentazione di un bel sogno; potete credere che io pure non abbia pensato, con aspirazione cocente, a veder tornare ancora una volta e per sempre la felicità nella mia casa e nell'anima mia? Sì, all'amicizia vostra lo confesso: questo sogno io lo feci, questa aspirazione la sentii, fortissima e tormentatrice. Ma ho saputo vincermi pensando a ciò che sono. Ma ditemi voi ora! Potrei io chiedere a una donna ancor giovane e bella, a una donna cui possono arridere ancora le speranze, ad una donna infine che non mi ama… di sacrificarsi per sempre a me, di legare il suo destino alla mia senilità già così triste?
Il Prandina l'aveva ascoltato silenziosamente in atto meditabondo.
–Via, don Letterio, potreste darmi torto? avreste animo di dirmi che non ho fatto il dover mio?
–Avete ascoltato come sempre quel sentimento di rettitudine che onora il vostro carattere. Lo riconosco. Ma lasciatemi in pari tempo che con franchezza vi dica che a questo sentimento avete dato ascolto così ciecamente da obbliare per esso ogni altro criterio. Guardate, Sant'Angelo: io non vi obbietterò che voi vi siete esagerata la vostra posizione e che le virtù vostre dovrebbero bastare per assicurarvi l'affetto di qualunque donna voi voleste eleggervi a compagna; so che non dareste alle mie parole altro valore che quello d'un vieto conforto. Però rispondetemi: che cosa avete fatto voi finora per sapere quello che forse sta celato nel cuore di Loreta? Chi vi dice che questa donna, che ha per la vostra famiglia sì forti argomenti di gratitudine; non abbia concepito per voi tanta affezione, che le sia di dolore il dovervi abbandonare? Infine, dinanzi alla necessità imperiosa, che il suo onore le detta, di lasciare la vostra famiglia ospitale, di tornare alle lotte di una vita dura ed incerta, pari a quelle che essa ha già una volta sostenute, che avete fatto voi per offrirle un conforto, per salvarla da una sciagura, per darle forse quella pace, cui essa nel suo cuore anela?.. No, Sant'Angelo, voi non avete ascoltato che la voce esagerata de' vostri scrupoli: voi vi siete piegato alle esigenze de' cattivi senza nulla tentare perchè essi sieno vinti e perchè voi siate felice… Chiedere a Loreta una spiegazione esplicita, chiara, confidente, come si può farla ad un amico, come si deve farla ad un fratello: ecco il vostro dovere: ecco quello che almeno a me pare che sia il vostro dovere…
–Ma poi, Prè Letterio… poi?
–Poi, quando aveste la certezza che Loreta non vi ama, ch'ella non potrebbe essere felice con voi, ch'ella è pronta, per isfuggire ad una situazione equivoca e non onorevole, a riaccettare una vita malsicura e tempestosa… converrà chinare il capo. Sarà triste il doverlo fare, ma almeno vi sarete tolto il dubbio di non aver accettato con colpevole cecità un dolore, che la malvagità degli uomini e la forza delle circostanze vi hanno procurato! Il professore era rimasto ad ascoltare queste parole-che il vecchio aveva pronunciato con un tranquillo accento di persuasione-senza nulla opporre, con gli occhi lucenti, tormentandosi colla mano convulsa la lunga barba canuta.
Quando quegli ebbe finito si sforzò indarno, nella piena dell'emozione, a cercare una frase che valesse a manifestare ciò che si passava dentro al suo cuore:
–Amico mio! amico mio!
Non disse che questo ed alzandosi di scatto gittò le braccia intorno al collo del vecchio e lo baciò con effusione.
–Coraggio, via, Sant'Angelo! – disse l'altro sempre sereno. – Un giorno che vostra madre, côlta già dal presentimento della sua fine, mi parlò della possibilità che voi e Loreta aveste ad unirvi per sempre, io le risposi che, se questo sarà il volere di Dio, il suo sogno si sarebbe avverato. E le dissi ancora, che la Provvidenza non abbandona mai i buoni. Che altro volete ch'io dica oggi a voi? La mia povera scienza si arresta qui… Ma è quella, vedete, che basta per condurre al vero! Coraggio, Sant'Angelo, coraggio!
X
Uscito dalla casa di don Letterio col cuore come alleggerito di un peso, il Sant'Angelo si prefisse di seguire senza por tempo in mezzo i consigli del suo amico.
Doveva farlo: tutto sarebbe stato peggiore che il durare in tanta incertezza; poi sapeva come la più lieve esitanza avrebbe potuto di un sol tratto fargli dileguare quella fermezza, che i ragionamenti del vecchio gli avevano infuso.
Sceso appena dal carrozzino aveva chiesto alla Vige, che gli era mossa incontro nel cortile, dove si trovasse la signorina, e saputo com'ella si fosse già ritirata nelle sue stanze le mandò a chiedere di poterle parlare senza dilazione.
La Vige, comprendendo dalla ciera sconvolta del suo padrone che qualchecosa di grosso c'era per aria, corse subito a fare l'ambasciata; e tornata ad annunciargli che la signorina lo attendeva, non potè trattenersi dal fare, mentre il professore saliva frettolosamente le scale, una mimica eloquentissima per esprimere il dubbio ed il timore che al suo povero padrone non avesse dato di volta il cervello.
Fu con passo vacillante e col volto pallidissimo che il professore entrò nella camera di Loreta.
La giovane lo stava attendendo sull'uscio ed appena lo vide si scusò con lui di non aver potuto ella stessa discendere:
–Dovete perdonarmi; non sto bene.
Con un rapido gesto egli diede a divedere come reputasse tale scusa del tutto oziosa; poi subito le chiese con sollecitudine:
–Vi sentite male, Loreta?
–Un poco sì; la notte scorsa non ho dormito quasi nulla e me ne restò per tutta la giornata una grande stanchezza… Se sapeste come mi indispettiscono queste stupide debolezze. Ma deve passare presto: voglio che passi!
Il professore la guardò: da tutti i lineamenti di lei traspariva l'abbattimento: la consueta melanconia dei suoi occhi era quel giorno accresciuta dalla diffusa sfumatura azzurra ond'erano cerchiati.
–Loreta, – disse il Sant'Angelo, – è da più tempo che io vi vedo soffrire; ed è da più tempo ch'io me ne chiedo la ragione. Oggi, è inutile mentire più a lungo, questa ragione la so…
La giovane, benchè fosse preparata a questo momento, trasalì.
–La so, Loreta, – egli riprese subito, – e non posso dirvi quanto mi addolori che voi dobbiate soffrire così, senza colpa alcuna, per causa mia…
–Per causa vostra! – esclamò lei con affettuosa mestizia. – No, non dite questo. Verso di me siete stato sempre lo stesso; buono e generoso, avete avuto per me costantemente la indulgenza e le premure di un fratello. Perchè vorreste assumervi la responsabilità delle altrui cattiverie? No, non colpa vostra, Sant'Angelo, nè mia. È piuttosto il mio cattivo destino che ha voluto così.
Tacque un istante, poi come risoluta di venir a parlare, senza perdersi in vani commenti, della decisione che intendeva prendere:
–Avete visto Prè Letterio? – gli chiese.
–Sì, lo vidi e da lui ebbi la dolorosa conferma di quanto sospettavo.
–Vi disse ch'io gli avevo scritto?
–Fece di più: volle ch'io conoscessi il tenore della vostra lettera.
E, interpretando giustamente l'atto con cui la giovane accolse tali parole, soggiunse subito con islancio:
–… E fece bene così, Loreta! Quel vecchio amico non poteva, anche condannandomi al più aspro de' dispiaceri, non offrirmi il modo di giudicare esattamente quale sia oggi la vostra posizione e la mia. Nulla del resto in quella lettera che non vi onori; nulla che io non comprenda o di cui vi possa fare un rimprovero…
Ella levò il capo, vivamente.
–Grazie, Mattia, di queste vostre parole. Le aspettavo. Non potevo aspettarne altre dalla vostra lealtà. In questo momento così cattivo non mi potevate dare un più grande conforto!
–Loreta, – egli chiese dopo un istante, lentissimamente, – e voi… siete dunque decisa ad abbandonarmi?
–Lo debbo. Voi sapete se lo debbo.
–Si, è vero. Ma almeno, ditemi, non v'addolora affatto di lasciare la mia casa?..
–Se m'addolora, Mattia?.. Pensate al bene che ho trovato nella vostra casa! Ero sola, non avevo più nulla; nè una speranza, nè un affetto. Qui ho ritrovato tutto: ho ritrovato la fede e il coraggio, ho compreso che la mia povera vita poteva avere ancora uno scopo. Vostra madre, dopo essere stata il buon angelo della mia salvezza, ha saputo insegnarmi colla parola e coll'esempio la virtù della rassegnazione. Ero felice, mi pareva che non avrei avuto a desiderarmi altro mai più, sentendomi come risorta ad una nuova esistenza così confortata e serena! E mi chiedete se mi addolora di lasciare la vostra casa! Ne escirò, Mattia, perchè così il destino ha voluto, perchè il mio onore me lo impone e la pace nostra lo esige. Ma ne escirò benedicendo la ospitalità che vi trovai, portando con me il più caro ricordo, e serbando nel mio cuore incancellabile e adorata la memoria di vostra madre…
–E dove… dove andrete?
–Non so. La Provvidenza m'assisterà ancora una volta. Porse Prè Letterio potrà giovarmi con qualche raccomandazione. In caso diverso… ho il mio diploma di maestra… Mi riammetteranno forse in qualche scuola… Mi cercherò un lavoro… Non si respinge chi chiede di guadagnarsi onestamente la vita.
–E questo destino non v'impaura?
–No.
–Ma sapete, Loreta, a quante difficoltà, a quanti pericoli voi volete esporvi?
–Sì, lo so.
Ella rispose in tal modo, calmissima sempre, piena di fede, senza abbassare lo sguardo.
Il Sant'Angelo intendendo tutta la nobiltà di quelle parole fu spinto irresistibilmente a dar manifestazione del suo sentimento.
–Siete forte, Loreta, io vi ammiro e v'invidio. Vorrei anch'io, in questo momento, poter dire come voi dite, essere forte come siete voi. Ma non posso. No, Loreta, non posso adattarmi all'idea che voi abbiate a lasciarmi così. In voi m'ero abituato ad amare colei che fu l'amica devota, il sostegno e il conforto della mia vecchia madre: in voi ho visto continuata l'opera gentile di lei quando Iddio me la tolse. Che cosa sarà ora di me? Che cosa diverrà la mia povera casa? Loreta, Loreta, non avete dunque pensato anche a questo, prima di decidervi a tale passo?
Ella taceva, assorta nel suo pensiero, col capo chino.
–Loreta, guardate! – proruppe allora il professore con una sùbita fiamma che salì ad imporporargli il viso – guardate, Loreta, è così doloroso, è così fatale per me questo momento, che io trovo ora il coraggio, che non ebbi mai, che credevo di non poter mai trovare, di confessarvi il segreto, che da sì lungo tempo io nascondo. Loreta, non potete lasciarmi… per me voi siete tutto, siete l'unica persona al mondo in cui si sono concentrati i miei affetti… Se mi mancaste, portereste via con voi l'anima mia, la mia pace, tutto me stesso…
Ed arrestandosi un istante e passandosi con gesto febbrile la mano sul fronte, quasi per calmarne l'ardore:
–Ah! Loreta, – prosegui egli con un'intonazione di mestizia, – ve lo giuro che non avrei voluto dirvi mai ciò che ora vi ho confessato. Ho sofferto atrocemente per tener sepolto in me il mio segreto. Confessarvi, o Loreta, io-che per gli anni miei potrei quasi esservi padre-il sentimento che avete destato in me, mi pareva follia indegna d'un uomo, il quale non abbia smarrito la coscienza di sè stesso… Ebbene; questo coraggio io l'ho trovato: dinanzi alla vostra risolutezza, di fronte alla sorte che mi si prepara, io sento cadere ogni mia esitanza; io non vacillo pensando al rossore che ora m'infiamma le guance e vi dico, lealmente, come il cuore m'impone: Loreta, restate… restate per amor mio!..
Ella aveva ascoltato, colpita profondamente dalla sincerità del suo accento. Poi quando ebbe finito e restò incerto, a fissarla con intenso ardore, attendendo una sua parola, ella piegò ancora una volta il capo tristemente.
–Restare! – mormorò quindi con un'amara inflessione di dubbio.
Al Sant'Angelo balenò allora l'idea ch ella avesse potuto fraintendere il vero significato delle sue parole.
–È un sacrificio che io vi chiedo, Loreta; lo so: era per questo che mille volte mi son sentito mancare l'animo di dirvi quello che mi stava nel cuore. Ma ora che ho parlato, non posso più nascondervi nulla; sento che adesso si gioca di tutta la mia vita: sento che tutto il mio destino è riposto ormai nelle vostre mani!
E afferratale la destra, con un repentino slancio, in cui la sua passione, per tanto tempo rattenuta, scoppiava finalmente senza freni, vittoriosa:
–Rimani, Loreta, rimani… Non capisci che senza di te la mia esistenza sarebbe infranta? Non capisci che tu sei la mia pace, il mio solo pensiero, l'unico e caro mio amore?.. Senti: è vero, io non ti posso più dare nè gli entusiasmi della giovinezza, nè le ebbrezze di un'anima ancora sorridente. Ma questo sì ti posso dare: un affetto puro, una venerazione costante che sarà la legge della mia vita, che non cesserà che coll'ultimo battito del mio cuore. Loreta, resta… Tu sarai la mia compagna fida e adorata, l'arbitra della mia sorte, la regina della mia casa…
Mentre il professore diceva queste cose appassionatamente, stringendole forte le bianche mani, ella, guardandolo con molta tenerezza, aveva gli occhi gonfi di pianto.
–Siete generoso, Mattia. Non vi posso dire quanto bene mi abbiate fatto con la vostra profferta, di cui apprezzo tutta la grande nobiltà. Ma appunto per questo, no… non posso accettarla!
–Non potete, Loreta, non potete? – chiese il professore con accento d'angoscia.
Ella non rispose subito.
–Dunque-egli insistè con voce ognor più commossa-voi sentite di non potere assolutamente concedermi il vostro affetto?
–Il mio affetto! – la giovane proruppe. – No, no, Mattia, non è questo. Chi mai conoscendovi ed apprezzando le vostre virtù potrebbe non amarvi? Qual donna non dovrebbe essere orgogliosa ed onorata della profferta che voi avete fatto a me ora con tanta sincera bontà? Mio Dio! sarebbe stato questo il mio bel sogno, sarebbe stato il mio paradiso…
–Ma allora… allora?
–Non posso, non devo. Lasciate ch'io parta, Mattia, lasciate ch'io segua la mia stella cattiva!
–Loreta, per pietà, non farmi impazzire. Se tu dici che senti per me qualche affetto, che hai per me della stima, che la mia casa ti è grata… ma allora perchè queste esitanze? Pensa, Loreta, al male che tu fai a me col tuo rifiuto, al male che faresti a te stessa! Qui c'è la pace per te e per me: qui vivresti onorata, potendo disprezzare ogni viltà dei cattivi… qui, Loreta, avrai nella mia casa e nell'anima mia il posto che vi tenne mia madre…
–No, non dirmi questo, Mattia, – proruppe con accento commosso la giovane donna. – È una profanazione il ricordo che tu adesso richiami della santa tua madre… Vedi, Mattia, è in nome di lei ch'io ti prego; lasciami andare, lasciami partire!
Egli abbandonò la sua mano ed ergendo la persona in atto di risolutezza:
–Ah! no, Loreta, non partirai! Dopo quello che m'hai detto non è più possibile che tu parta, lasciandomi col tormento di questi dubbi. Credi tu dunque che ora-sentendomi forte e felice nella certezza del tuo affetto-io non saprò difendere il mio avvenire? Ah! Loreta, non si vive com'io ho vissuto in preda a sì grandi angoscie per poter poi rinunciare così facilmente al bene, quando ci sembra di averlo al fine raggiunto! No. Tu devi dirmi quello che ti spinge a volermi lasciare: ho il diritto di saperlo e tu me lo dirai!
–Mattia, ciò che mi domandi è molto triste. Il ricordo che tu mi costringi ad evocare io volevo che fosse morto per sempre. È il mio passato, Mattia, che oggi risorge fra noi. È questo l'ostacolo che si frappone alla mia felicità!
Il Sant'Angelo restò calmissimo: una pietà profonda si dipinse sul suo nobile viso, che aveva ripreso l'abituale pallidezza:
–Il tuo passato, Loreta… – egli disse lentamente. – So ch'esso fu doloroso. Ma qualunque cosa in esso si celi, colle tue lagrime, col tuo lavoro, col sacrificio della tua giovinezza, hai conquistato il diritto dell'oblìo. Che tu sei buona e che l'anima tua è bella, questo io so. Che altro m'importa di sapere per amarti e per stimarti? Mi basta ricordare ciò che mia madre, che aveva pur letto ne' tuoi segreti, mi disse un giorno, già prossima alla sua fine, sognando di vederci uniti: "ama Loreta, non è indegna di te!" Ed io ti amo, Loreta, ed altro non ti chiedo. La parola di mia madre mi è sacra e mi basta!
La giovane proruppe in uno scoppio dolcissimo di pianto e, prese le mani del professore, fe' l'atto d'inginocchiarsi dinanzi a lui.
Egli la trattenne, l'attirò sul suo petto e ve la strinse forte, alzando gli occhi al cielo, con una soave letizia che pareva irradiarsi sul suo placido volto.
XI
La notizia del matrimonio di Mattia Sant'Angelo con sua cugina Loreta Lambertenghi si diffuse rapidamente nel paese.
Agli amici veri e provati-e Mattia ne aveva certo di molti-essa giunse oltremodo gradita. "Era tempo (dicevano i più) che quel benedetto professore provvedesse ai casi suoi. Dopo la morte di sua madre faceva pietà vederlo. Almeno adesso tornerà a vivere tranquillo!"
Fra coloro, che facili a credere alle calunnie avevan negli ultimi tempi malignato sul conto suo e gli avevano perfino mostrato un certo riserbo, non pochi furon quelli che nell'apprendere la novella si compiacquero di potersi riconoscere in errore. "Già non era possibile (dicevano questi col facile senno da poi ed obliando assai disinvoltamente le loro stesse mormorazioni) che a casa Sant'Angelo avessero luogo le storie che si sono narrate!"
Ma chi in questa occasione se la godette un mondo fu il bravo conte Mangilli, che per il primo potè portare la notizia in "pieno campo nemico" ed anzi al quartiere generale, avente, come si sa, la sua sede nel Caffè della Posta a Tricesimo.
Non che il Mangilli dentro di sè avesse potuto far tacere neppur allora le convinzioni, che aveva sempre avute in fatto di matrimoni. Celibatario impenitente, pensava con una certa soddisfazione che lui non si sarebbe adattato giammai a quello che il Sant'Angelo faceva. Ma sebbene attaccato con tanta fermezza alle sue teoriche, ammetteva questa volta volentieri l'eccezione; e poichè il suo amico s'era risolto a quel passo per la propria felicità e per farla in barba ai cattivi, ne aveva sincero piacere.
–Prè Zuan ha da mangiarsi le mani! – disse il conte al professore. – Un miracolo se dalla bile non gli piglia un accidente!
E capitò al Caffè di Tricesimo proprio in momento buono. Don Morganti era più rosso del solito: per farsi passare il malumore della disdetta, che quella sera lo perseguitava accanitamente al consueto tresette, aveva già asciugato tra partita e partita un bel numero di quartini della fresca e bionda birra che la piccola fabbrica di Ospedaletto fornisce ai paeselli del circondario. Col virginia tra i denti e gli occhiali sul nasone scarlatto, il prete, col corpo un po' abbandonato sulla scranna, disfogava la sua stizza contro le carte, tirando giù delle invettive tanto fatte, di cui però nessuno pensava a scandalezzarsi essendo ormai formata da un pezzo l'abitudine di udirne da quelle labbra di più marchiane ancora.
Il Mangilli approfittò per lasciar "scappare il razzo" di un breve intervallo prima della "bella" ossia della partita che doveva essere l'ultima della giornata e nella quale prè Zuan dichiarava che avrebbe salvato l'onore delle armi.
Ma il "razzo" del conte Nardin ebbe effetto sì grande che la "bella" non ebbe più luogo. E fu tale lo sbalordimento del prete, che meglio per lui se la giocata fallì, poichè diversamente per quella sera l'onore delle sue armi, anzichè essere salvo, avrebbe toccato per certo qualche altra vergognosissima disfatta.
Ci fu taluno della comitiva, che tanto per non essere obbligato a dover riconoscere come con quella notizia fosse tappata la bocca a tutti quanti, volle far dello spirito e tentò di volgere la cosa in burletta. Spirito grossolano e burletta ben poco comica, di cui i più risero a pena a fior di labbro, mentre il solo prè Zuan strizzando d'occhio ai vicini con intenzione furbesca pareva ne avesse gustato oltre misura la lepidezza. E poichè altro non poteva, mise fuori, lentamente, senza darsene l'aria, con un tono loiolesco di bonaccione ingenuo, una di quelle facili insinuazioni velenose, che la situazione quasi naturalmente gli suggeriva.
Senonchè il conte Leonardo, che, dopo l'effetto del suo razzo, ci teneva a mettere un altro po' di rumore in mezzo alla comitiva sì degnamente presieduta dal Morganti, lasciò andare sulla tavola un pugno così sonoro, che fe' saltare le carte e per poco non mandò in rovina bottiglie e bicchieri. E con un piglio che non lasciava luogo a troppi commenti, dichiarò che in sua presenza non tollerava a danno dell'amico chiacchiere di quel genere, le quali non potevano essere calcolate che come la prova di un basso ed impotente livore.
E poichè il conte accompagnava la vigoria de' suoi pugni e la risolutezza delle sue parole con certe occhiatacce da basilisco assai poco incoraggianti alle repliche, il prete, che con quell'orso non se l'era mai fatta, si ritrasse anche questa volta per il primo; e gli altri mogi, mogi, gli tennero dietro non senza procurar di ammansare il conte con qualche timida assicurazione che essi, dopotutto, col professore Sant'Angelo nè rancori, nè inimicizia non avevano mai avuto.
Naturalmente che lo sfogo de' malumori, contenuto allora in via di prudenza per il riguardo dovuto a quello spiritato del Mangilli, ebbe modo di compiersi in tutta la violenza, ne' giorni successivi, allorchè la combriccola del Caffè di Tricesimo potè trovarsi raccolta in camera charitatis.
Allora il prete ne tirò giù di cotte e di crude e, dopo aver esaurito i più grossi improperî del suo repertorio, conchiuse coll'affermare, compiacendosi nella parte d'uccellaccio di malaugurio, che già della famosa felicità del professore non dava due palanche bucate ed anzi era pronto a scommettere che in men d'un anno "se ne sarebbero viste delle belle."
E col tossico sulla bocca, ridendo verde, il pretaccio continuò per lunga pezza sul tono istesso, anche facendo presente come quello gli paresse proprio il caso di preparare al Sant'Angelo una sonorissima sdrondenade, cioè quella serenata burlesca e fragorosa che per antica costumanza popolare, assai diffusa nelle campagne del Friuli, si fa a' vedovi quando vanno a nuove nozze e talvolta a' vecchi, che passano a matrimonio.
Ma don Morganti, a malgrado di tutte le sue astutissime manovre, restò questa volta con un pugno di mosche. All'ultimo momento anche coloro che per consueto si mantenevano fedeli nel fargli coro, gli defezionarono o con una scusa o con l'altra. Talchè il matrimonio del professore Sant'Angelo seguì fra le generali simpatie, senza che una sola nota discorde avesse in alcun modo turbata la serenità della festa.
Il matrimonio si fece alla chetichella: nelle prime ore del mattino, al duomo di Tricesimo, celebrando l'ottimo prè Letterio Prandina, venuto espressamente da Udine. Pochi amici si raccolsero poi in casa ad una bella refezione, ove si fecero degli allegri brindisi e si stapparono molte preziose bottiglie, dormenti già da varie decine d'anni sotto la polvere della cantina padronale. Poi gli sposi partirono per un breve viaggio a Venezia ed a Milano.
I pochi che assistettero alla cerimonia furono assediati da ogni parte da insistenti domande: come fosse la sposa, quale aspetto avesse avuto lo sposo e se ci fossero state delle "commozioni". La curiosità generale ebbe però pochissimo a godere. La cerimonia-tutti i presenti lo asserirono-procedette semplice, liscia, senza alcun particolare ad effetto. Una cosa soltanto era risultata chiarissima, anche a coloro che non l'avessero voluta vedere, ed era la felicità piena, manifesta, grandissima, dei due sposi.
Nè fu cotesta, vana apparenza. Il Sant'Angelo pareva rinato: nel breve volgere di pochi giorni si sarebbe detto che tutta la sua persona avesse subìto quasi un magico ringiovanimento: il sorriso, che da sì lungo tempo erasi spento sulle sue labbra, ora era riapparso mettendo un novello bagliore di vita nel suo volto sereno. Loreta sorrideva ella pure, senza parole, riconoscente a quanti si congratulavano, levando tratto tratto gli occhi pensosi con intensa espressione di gratitudine in faccia al suo sposo.
Questo la gente vide e narrò con grande stizza di coloro che per tali fatti si rodevano nella loro astiosa impotenza. Ma ciò che avrebbe messo ben più duramente a prova gli invidi fu quello che la gente non vide e non potè narrare: l'espansione viva di reciproco affetto, che i due sposi ebbero, allorchè, terminate appena le formalità della cerimonia, si trovarono novamente soli, nella pace della loro casa.
–Vedi, Loreta, rimettendo ora il piede qui dentro, mi pare che tutto sia cambiato. Tutto mi pare più bello, tutto mi par più sorridente…
Queste furono le prime parole, che il professore disse a sua moglie, con una grande semplicità, e che pur nella dolcezza infinitamente amorosa del pensiero, non disdicevano per nulla sulle labbra di un uomo come lui, già sì lunge dalla lieta età degli amori.
Ed obbedendo a quella gentilezza d'animo che gli era connaturata, volle, per un affettuoso pregiudizio, che prima di partire andassero insieme alla stanza che fu di sua madre.
–Qui per la prima volta ti lasciai intendere il mio affetto. Ora è compiuto il voto della mia povera madre. Che il suo nome, Loreta, ci porti fortuna!
Egli aveva gli occhi, nel dir ciò, pieni di lagrime:
–Perdonami, sai; in questo sono sempre un ragazzo. Ma guai, guai per me se ora non credessi che il tuo amore durerà costante: è la mia vita… è tutto…
Loreta non rispose: risposero per lei i suoi occhi in cui c'era una intensa, leale promessa, che Mattia comprese e dalla quale gli venne all'anima la più viva esultanza.
E Loreta non mentì.
Da quel giorno ella fu veramente la compagna buona, previdente, esemplare, che il professore aveva sognato. La vita loro-che dopo il non lungo viaggio a Venezia e a Milano riprese il suo andamento ordinato-scorreva per entrambi in una dolce serenità. Loreta tutta alle cose domestiche, attenta all'oculata amministrazione de' loro poderi, instancabile e premurosa, veniva citata nel paese, dai coloni, dai vicini, come un modello d'ottima massaia. Il professore, ora, con animo tranquillo, s'era rivolto a' suoi cari studî per lungo tempo negletti e attendendovi con molta lena era giunto al compimento della sua opera sulle Zecche friulane, che un operoso editore di Udine si accinse subito a pubblicare.
Così trascorse un anno, ne trascorsero due; e il tempo, passato senza turbamento alcuno, parve ad essi breve come un lampo. Il modo della loro vita semplicissimo e modesto li metteva in sicurezza contro quegli assalti della malignità, che quasi sempre muovono dalle altrui invidie. E il prete Morganti, che rammaricavasi tra sè d'essere stato così bugiardo profeta, evitava di parlare del suo nemico, mascherando sotto l'aspetto dell'indifferenza l'aspettazione impaziente del giorno per lui avventurato, in cui qualche grosso nuvolone venisse ad addensarsi sulla casa dei Sant'Angelo.
Però per quanto il pretaccio spiasse nell'ombra l'arrivo del temporale e ne affrettasse il momento coi più cocenti voti, tutto parea congiurare perchè i suoi pii desideri non avessero soddisfazione. Anzi troppo spesso, in cambio di quanto stava nelle sue speranze, gli toccava d'invelenirsi il sangue sempre di più, per le molte contentezze che ai Sant'Angelo capitavano e per il bene che diceasi di loro in tutto il paese.
E per vero eran sì nobili e frequenti gli atti di munificenza, che il professore, secondo l'antica tradizione della famiglia, esercitava, da conciliargli con la gratitudine de' beneficati la stima generale.
Cosi l'anniversario del suo matrimonio aveva egli voluto solennizzare con un'opera di carità tanto squisitamente pensata da doverne ottenere il plauso di tutti.
A Tricesimo mancava fino lì un asilo infantile regolato secondo le norme igieniche e didattiche, che si richiedono dalle esigenze odierne per siffatti istituti. Più e più volte il Comune, che pur provvede con lodevole larghezza alla scuola popolare, aveva progettato di aprire uno di questi stabilimenti desiderato vivissimamente da tutto il paese. Ma l'attuazione del progetto dovette essere sempre aggiornata per molte difficoltà, tra le quali non ultima la mancanza di adatti e corrispondenti locali.
Fu a questo che il Sant'Angelo volle provvedere offerendo al Municipio l'uso gratuito per un lungo numero d'anni d'una piccola casa ch'egli possedeva in capo al paese: la stessa casa dove tanti decenni innanzi i Sant'Angelo avevano cominciata la loro fortuna e dove qualche vecchio ricordava ancora l'antica caffetteria; in cui il nonno Sant'Angelo, col berretto di velluto e gli occhiali sul naso, recitava allegramente agli avventori le sue gustose strofette dialettali.
Con quanto plauso quest'atto nobilissimo fosse accolto non è da dire. Ma il professore non volle saperne di ringraziamenti, nè tollerò che si facesse in quel proposito pubblicità alcuna. Al sindaco e agli assessori, che vennero a manifestargli la riconoscenza del Municipio, rispose con molta semplicità pregandoli che di quell'argomento non si facessero altre parole e sforzandosi a convincerli come a conti fatti la sua offerta si risolvesse in una cosa di ben esiguo valore.