Kitabı oku: «Il peccato di Loreta», sayfa 9
XIV
Allorchè Loreta nel silenzio della casa potè riaversi alquanto dalle emozioni di quella sera, ella si chiese con sufficiente freddezza qual norma di condotta avrebbe dovuto tenere ora nella difficoltà estrema della situazione, che il giuoco della sorte le aveva creato.
Ella, che in tanta vicenda di amarezze aveva vedute disfiorarsi ad una ad una tutte le sue speranze, tutte le sue illusioni; ella che, giovane ancora, aveva già conosciuto per aspra esperienza le più sanguinose battaglie dell'anima, s'era ormai abituata a considerare il passato come un sogno, del quale le estasi sublimi e le pene atroci non avrebbero dovuto rinnovarsi mai più. Coll'affetto e la stima, a lei generosamente offerti dal Sant'Angelo, una vita novella le si era dischiusa, suadente all'obblio di ogni cosa, piena di quella poesia ineffabile che ritempera i cori e fa riamare l'esistenza.
Ma il passato ch'ella credeva morto rinasceva d'improvviso, minaccioso come il decreto di una tragica fatalità. E il suo passato era tutto in quell'uomo dalla parola ammaliante e dal viso pallido, la cui apparizione le era sembrata da prima giuoco crudele dei suoi sensi allucinati.
E mentre ora, ripensando alle parole brevi ed ardenti, che il conte Alvise le aveva susurrate in quella sera, ella chiedevasi che cosa dovesse fare, una penosa incertezza, prima debole e lieve, indi ognora più forte, si veniva impadronendo di lei.
Non che, pure in balìa di tanto turbamento, Loreta avesse smarrito neppure per un istante la coscienza del proprio dovere. Ma erano sì dolci e possenti le voci che le tornavano dalla sua povera giovinezza tramontata, ed erano state così grandi le emozioni che avevano consunta tanta parte del suo cuore, ch'ella ormai sentivasi incapace di comprendere se più forte fosse in quell'ora dentro di lei la sorpresa, lo sgomento o la gioia.
Il desiderio acuto, che l'aveva dominata da prima, di fuggire, di gittare tra lei e quell'uomo, tra lei e il risorgere del suo passato, un ostacolo insormontabile, l'aveva quasi repentinamente abbandonata. Nell'apparente frivolezza della conversazione tenuta in quel pomeriggio, il conte Alvise aveva trovato il modo di fare alcune allusioni che, inavvertibili a tutti, parlarono sì forte allo spirito di lei, che per immediato effetto aveva ella sentito svegliarsi nel core come una strana nostalgia dei tempi trascorsi. Ella, che rifuggiva con terrore da tutto quello che poteva richiamarle le ricordanze assopite, sentivasi ora trascinata, come per l'impulso di una malsana voluttà, a tornare indietro col pensiero alle sue ore più angosciose. E rifatto intero il fortunoso romanzo della sua vita, dal momento in cui era principiato rassomigliante a un bel sogno felice, fino al giorno in cui era stato bruscamente troncato, le nasceva l'ansiosa infrenabile brama di apprendere, di conoscere in tutta la verità quello che, dopo la pagina da lei creduta l'ultima, il capriccio del destino aveva ordito e che, forse a colmo dei suoi mali, una ostile fatalità le aveva celato.
E mentre cotesti pensieri la tenevano violentemente in loro potere, senza ch'ella fosse capace di romperne l'incantamento, dinanzi alla serenità di suo marito, ai discorsi affettuosi che aveva sempre sul labbro, alle amabilità espansive, di cui la faceva costantemente segno, un rimorso la prendeva, una tentazione irragionevole di gittarsi a' suoi piedi, di dirgli ogni cosa, di confessarsi indegna della bontà sua e della fiduciosa sua tenerezza.
Così, coll'animo perplesso, in una febbre continua, ella vide, dopo la memorabile giornata di Nimis, scorrere altri due giorni, che le parvero di una lunghezza eterna. Un violento temporale d'autunno s'era scaricato sulle campagne e la pioggia che durava insistente gli aveva costretti in casa. Il professore dichiaravasi tutto lieto chè il frescolino capitato così all'improvviso gli aveva ridato il desiderio del lavoro; ed infatti in quei due giorni aveva atteso allo studio lungamente, rimanendosene per ore ed ore chiuso nelle sue camere. Lei, spinta da una irrequietezza nervosa, non trovava pace: a malgrado del tempo sfavorevole usciva spesso dinanzi alla casa e colà, appoggiatasi alla balaustrata, non peranco rasciutta dalla pioggia recente, restava immobile per molto tempo cogli occhi fissi sulla campagna annebbiata, in mezzo alla quale lo stradone perdevasi, giallastro di fango, deserto, fra le spalliere dei gelsi, che l'ottobre aveva già in gran parte sfrondato.
Per quei due giorni Alvise non comparve. E Loreta adesso provava di ciò quasi un'impazienza: svanito il primiero timore, ora avrebbe voluto ch'egli fosse venuto, avrebbe voluto uscire da quello stato d'animo, varcare al più presto quell'ora, dopo la quale le pareva che la sua pace le sarebbe tornata piena e durevole; sicura che in quel risveglio del passato nessun rimorso le sarebbe rimasto nell'anima.
Allorchè, il terzo giorno, levatasi assai per tempo dopo una notte agitata, ella schiuse le imposte e vide ridente la campagna sotto il raggio di un bel sole, ella provò come un sussulto di contentezza. L'aria piena di una blanda frescura le parve una deliziosa carezza sugli occhi affaticati e sulla fronte ardente. Ella sentiva ora come un acquietamento soave, come se tutte le preoccupazioni che l'avevano angustiata si fossero d'un tratto dileguate, come se un indefinibile senso di dolcezza si fosse diffuso per tutto l'essere suo.
–Che hai oggi? – le disse il professore cingendole ad un tratto la vita e ponendole un bacio sulla bocca. – Mi sembri così bella! Hai negli occhi qualchecosa d'insolito.
–Che cosa dici ora, Mattia?
–Sai cosa dico? Che più si diventa vecchi e più si diventa matti. Ma se anche le son pazzie e chi ce ne ha colpa! Per me so una cosa sola: che ad ogni giorno che passa mi par di essere più innamorato della mia adorata moglietta!
Il Sant'Angelo era d'allegro umore anche lui. – "Non vuoi? – diceva-oggi ha da essere una giornata buona! È tornato il sole: ti ho visto dopo tanti giorni sorridere!" E come uno scolaretto che si propone di far festa, dichiarava che per quella mattina non voleva saperne di libri: di giornate autunnali splendide come quella non se ne sarebbero forse avute più: e pensava di recarsi a Collalto per fare una sorpresa "a quell'orso del conte Nardin" ch'egli troverebbe, neanche a dirlo, incantucciato chi sa da quante ore nel casottino dell'uccellanda godendosela a vedere il lungo armeggiare dei passeri e dei tordi, che volando e rivolando, come presaghi della propria sorte, finivano per rimanere impigliati nelle sue reti.
Rimasta sola in casa e date con inusata indifferenza alla Vige le disposizioni pel desinare, e ad Agnul per altre minute faccenduole domestiche, ella, come era solita a fare nei giorni in cui aveva un minor numero d'incombenze a cui attendere, prese il suo cestello da lavoro e, messovi qualche libro, uscì dal cancello che chiudeva la braida, diretta ad un boschetto fittissimo d'ippocastani, già molto distante dalla casa, dove il professore, innamorato dalla bellezza del luogo e dalla grande ombria, aveva fatto porre un tavolo di pietra e qualche sedile rustico. Colà si recavano abbastanza frequentemente nelle ore più calde dell'estate. Il fogliame degli antichi ippocastani si addensava così fittamente che non un raggio di sole vi passava. Era un angolo romito e pittoresco, nel quale il silenzio regnava profondo, solo a tratti interrotto dal fischio lontano della ferrovia, che gira con una lunghissima curva da Reana di Roiale giù giù fino ai primi valichi della Carnia, e da qualche squillo di campana che viene a lunghi intervalli dalle chiese dei villaggi sparsi nella vallata.
Quel luogo era a Loreta assai caro. Ancora ai tempi della signora Sant'Angelo ella ve l'accompagnava spesso e, mentre la signora agucchiava a qualche lavoro di maglia, le leggeva qualcuno dei vecchi romanzi d'avventure cui ella prendeva tanto diletto e che il professore, pur ridendo un po' di quei gusti della mamma, andava a scegliere egli stesso ed a scambiare in una biblioteca circolante di Udine. Loreta aveva conservato da allora l'abitudine di recarsi colà quando il tempo glielo permetteva. Questo però era raro: "Una donna come me (diceva al professore mostrando certi libri che aveva nel cestello da lavoro e che mai non leggeva) ha ben altro per il capo che la lettura de' romanzi!" E il professore approfittava di quelle parole per fare una volta di più l'elogio di lei, ch'egli proclamava "una perla di donnetta, una padroncina di casa come se ne trovano poche!"
Quella mattina Loreta si avviò a lenti passi verso quel posto favorito. Tratto tratto, salendo la collina, ella fermavasi a guardar giù tra le radure degli ippocastani la bella campagna autunnale che ora, dopo il violento temporale de' giorni precedenti, pareva rinnovellata nella freschezza e nella luminosità de' suoi colori. A metà della salita, dinanzi ad un cespuglio di grossi fiori campestri, che piegavano tra il fogliame i calici screziati ancor umidi di pioggia, ella ne strappò un'intera manata provando poi una voluttà nell'aspirarne intensamente e lungamente il lieve profumo e nel sentirne la molle freschezza sulle labbra e sul viso.
Giunta al tavolo di pietra, sotto l'arcata, che gli ippocastani formavano, ella depose il suo cestello da lavoro e sedutasi sopra una delle seggiole rustiche, trasse di sotto a' canovacci per metà ricamati uno de' libri che aveva recato con sè. Ma non lesse. Il libro, aperto distrattamente a mezzo, restò sulle sue ginocchia. Ed ella, reclinato il capo, fissi gli occhi dinanzi a sè, colle labbra socchiuse come per respirare a grand'agio l'aria buona de' campi, restavasene, quasi smarrita ogni coscienza di sè stessa, colla mente assorta in una fantasticheria vaga e febbrile.
Ad un tratto un rumore di passi, benchè lievissimo perchè attutito dal terreno erboso, la fe' trasalire. E per poco un grido non le sfuggi dalla gola allorchè volgengendosi ella vide a pochi passi da sè, ritto alla svolta del viale, il conte Polverari.
Istintivamente, con un atto di timore, si levò in piedi.
–Ella, signor conte!
Alvise si tolse il cappello e con molta pacatezza, avvicinandosi un poco:
–Io, signora… – rispose.
E dopo un momento con un lievissimo sorriso:
–Tanto ve ne dispiace! – esclamò.
–Non questo… – Loreta rispose forzandosi a parer disinvolta, – non questo. Però Ella è comparso così improvvisamente… qui…
–La mia meta era oggi, signora, la casa Sant'Angelo. Ho voluto prender la via dei campi. Dalla sua gastalda, che trovai sullo stradone, ho potuto sapere che il professore è andato a Collalto, ch'Ella era venuta a questa parte…
E s'arrestò un istante fissandola con intensità.
Loreta, turbatissima, fe' per rispondere, ma la parola male accattata le si spezzò sulle labbra.
Il conte allora volse uno sguardo in giro, rapidamente, come per assicurarsi della piena solitudine; indi avvicinandosi con molta vivacità:
–Vi ho detto l'altra sera, signora, che se voi non consentivate a darmi il modo d'incontrarvi, l'avrei trovato da me. Ho affrettato questo istante col più ardente desiderio. M'ero proposto di aggirarmi intorno alla vostra casa finchè mi sarebbe riuscito di potervi vedere, deciso, in caso contrario, ad ogni cosa, anche ad un atto di folle audacia. Ho avuto la fortuna per me… vedete… ed ora…
–Ora? – ella chiese con voce soffocata.
–Ora, Loreta, dovete ascoltarmi!
–No, – soggiunse lei debolmente, – no, non lo devo.
–No? E potete pensare che io possa adattarmi a questo rifiuto? Potete immaginare che dopo avervi ritrovata, dopo avervi riveduta in modo così strano ed inatteso, io possa rinunciare a dirvi ciò che è nell'animo mio, a chiedervi di voi, de' vostri casi, a ricordarvi il nostro passato? Ah! no, Loreta, voi non potete pensarlo… Se siete giusta, se siete ricordevole, se siete pietosa, non potete domandarmelo…
–Il passato è morto. Voler ch'esso risorga sarebbe per voi ingeneroso, per me colpevole!
Egli scosse tristemente il capo.
–No, Loreta, non è così. Io comprendo il sentimento che vi spinge queste parole sulle labbra. Però, guardate, fosse pur vero quello che dite, credete voi che sia possibile di chiedere alle anime umane tanta forza di sacrificio, tanta virtù di abnegazione da soffocare ogni risveglio delle memorie più care, ogni voce più dolce della nostra giovinezza, quando in essa abbiamo lasciata tanta e sì viva… la più bella, la migliore parte di noi stessi? No, non è colpa, nè mancanza di generosità. Potrà essere dolore: questo sì! Ma che importa se dopo quest'ora di dolore, potrà dissiparsi quell'ombra di tristezza e di dubbio, che ha intorbidato così penosamente la soavità delle nostre memorie e che nulla, mai più, avrebbe potuto distruggere, se oggi il caso non ci avesse fatti incontrare?
Loreta a queste parole si trovò impotente ad opporre una qualunque risposta. Il pensiero d'Alvise corrispondeva così perfettamente al suo pensiero: la voce di lui aveva trovato così bene la via del suo cuore, che ella si sentì disarmata.
Il conte tacque per qualche minuto e poichè aveva intuito ciò che passavasi nell'animo della donna:
–Vedete, – disse con molta lentezza, – voi avete compreso che io ho ragione. Non era possibile altrimenti. Nè d'altronde, fin dal momento in cui vi ho riveduta, non ne ho dubitato. Passano gli anni, mutano i destini, ma vi sono ricordi che nulla può cancellare!
–Lo credete? – ella esclamò amaramente. – Siete in errore. Che sia grave e straziante far morire certi ricordi, è vero. Occorre talvolta dare a questo scopo tutte le proprie lagrime, tutta la propria vita. Ma ci si riesce! E allora, ve lo ripeto, non è opera pietosa il voler togliere altrui, ancora una volta, la pace conseguita a prezzo sì caro!
–Voi siete felice, Loreta?.. – egli domandò con voce tremante.
–Sì.
–Lo vidi, lo compresi. Ma con tutto questo… – ed ebbe dicendo ciò uno slancio impetuoso nell'accento commosso, – via, confessatelo, mai… mai, in tanti anni, dopo tanti avvenimenti, il vostro pensiero non è tornato indietro ai giorni trascorsi, mai non avete sentito il bisogno di rammentarvi?..
Ella lo guardò un istante e, come se dalle pupille di lui una malìa le fosse penetrata nelle vene, credette per un momento di non poter trattenere la confessione franca, che sentivasi ormai strappare irresistibilmente.
–No! – disse poi con un accento fievole, onde chiaro traspariva come quel diniego mal rispondesse alla veracità del sentimento.
Egli non rimase ingannato.
–Non dite il vero adesso, Loreta, non dite il vero! Ma via… a che possono valere queste inutili per quanto generose menzogne? Credete ch'io possa restare ingannato dalla fallacia di una parola, che il vostro labbro è riluttante a pronunciare? Credete che io non abbia letto ieri sulla vostra fronte quello che voi avete provato quando io ricordai le due quartine del povero Nievo? Credete che io non sappia ora ciò che voi in questo momento provate, quello che non volete dirmi, quello che la vostra anima vi imporrebbe di dirmi?
Egli si avvicinò ancora, ansimando, facendo l'atto di afferrarle una mano.
Ma Loreta si ritrasse subito, con energia.
–No, no, non temete! – diss'egli rattenendosi immediatamente. – E perdonatemi se mi vedete così. Ma se voi poteste sapere quale tempesta s'è destata in me dal momento che vi ho ritrovata; e se sapeste quanto ho sofferto!
–Voi… voi! – ella esclamò con un subitaneo slancio.
E colle labbra frementi, colle mani strette febbrilmente l'una all'altra, gli volse uno sguardo ardente, come se alle parole di lui avesse sentito rinnovarsi tutta l'asprezza dei dolori, che lei pure aveva sostenuti, in una solitudine ignorata, e de' quali, in quel momento ella sentiva come un geloso orgoglio.
–Io vi comprendo, Loreta. Conoscendo la nobiltà vostra, ho potuto immaginare come dovete aver sofferto anche voi. E il pensiero di queste sofferenze sopportate da voi, per causa mia, è stato sempre, ve lo giuro, il dolore della mia vita. È stato per voi un giorno ben funesto quello in cui la sorte vi ha portato nella nostra casa e furono ben grandi i mali che noi vi abbiamo fatti! Mia madre…
Ella subito l'interruppe.
–No, conte, non incolpate alcuno. Per quanto grandi sieno stati i miei dolori, nell'anima mia non esiste alcun rancore.
–Voi avete saputo perdonare, Loreta?.. Perdonare… a tutti?..
–Perdonare! Non è questa la parola che voi dovete dire. Delle mie sventure altra causa io non riconobbi mai che l'avversità del mio destino. E se qualchevolta, ne' momenti più tristi, a malgrado di me, mi sono sentita spinta a qualche pensiero d'odio, mi è bastato per farlo svanire ch'io ripensassi a qualche dolce ora che pure trascorsi nella vostra casa: mi è bastato di pronunciare il nome di quella santa fanciulla, che ha avuto per me tanto affetto…
–La mia povera Bianca! – egli esclamò molto commosso. – La mia povera cara sorella!
E dopo una breve pausa:
–Ve ne rammentate? – domandò.
–E come altrimenti!.. Mi basta chiudere gli occhi per rivedere dinanzi a me la sua soave figura indimenticabile…
–Povera Bianca! Ella non aveva saputo… ella non aveva compreso!.. Nella sua ingenua inconsapevolezza di tutto, non aveva potuto indovinare la fiera battaglia di passione che si era combattuta tacitamente a lei dappresso… E vi conservò la sua affezione sempre: sempre: fino all'ultimo. Negli estremi giorni ancora, quando la vita le fuggiva ed ancora l'illusione rinasceva in lei, facendo a noi tutti più aspro lo strazio della catastrofe che ci soprastava, il nome vostro ricorreva sulle sue labbra… come quello dell'amica più buona…
–Il mio nome! Ma poteva quella povera giovinetta pronunciarlo ancora con affetto? poteva pronunciarlo senza pensare che di quell'affetto io forse m'ero resa indegna? Vedete, Alvise: dall'ora terribile in cui io sono uscita dalla vostra casa, è stato il mio cruccio più acerbo di pensare che lasciavo, nel core pietoso e candido di quella fanciulla, così foscamente ottenebrata la mia memoria. Ella seppe?
–Nulla… affatto.
–Vostra madre…
–Tacque.
–E voi?
–Io… potete chiederlo, Loreta? Voi non potevate morir nel mio cuore. Qualunque cosa fosse avvenuta, per quanto gravi fossero state le ragioni che gittavano fra me e voi una barriera apparentemente insormontabile, non potevo strapparmi dall'anima nè il vostro nome nè l'immagine vostra. E quante volte, quando voi eravate già lontana, quando avevo visti cadere infruttuosi tutti i miei sforzi per ritrovare le vostre tracce, io, assistendo nelle lunghe notti insonni il mio povero angelo che si spegneva, ho parlato con lei di voi lungamente, rievocando il vostro ricordo, mendicando delle pietose menzogne per tranquillarla sulla incertezza del vostro destino… La povera Bianca ricordava di voi tanto: tante minute cose: certe letture fatte insieme: una gita in primavera, vi rammentate?, alla nostra villa di Arsizzo, a' piedi di Montebaldo: i versi che il Nievo aveva scritto nel suo albo, che vi piacevano tanto e che recitavate insieme… i versi, Loreta, che io citai l'altro giorno, e che dopo tanta simulazione di freddezza v'hanno costretta a tradirvi, a tradire il vostro pensiero, a mostrarmi che mi avevate compreso!
Loreta l'ascoltava come rapita, cogli occhi sfavillanti, vedendo, sotto l'influsso delle sue parole, rivivere dinanzi a lei tante immagini che il tempo aveva affievolito tra le sue gelide nebbie.
–Basta, Alvise, basta. Cessate di parlarmi così: mi fate troppo male!
–No, che non basta, Loreta. Era scritto che questi ricordi dovessero rinascere: essi vengono a dirci una parola che ripara al passato, che ci conforta a volgerci indietro col cuore liberato da ogni amarezza e da ogni rancore. Loreta, ascoltatemi ancora. Non è alcuna colpa in questo… non è colpa alcuna!.. Ascoltatemi ancora!
Ella, che durante il discorso di Alvise aveva sgualcito nervosamente fra le dita il mazzo di fiori campestri, ch'era rimasto sul tavolo dinanzi a lei, ora, lasciando cadere sull'erba gli steli sfrondati, era surta in piedi, agitatissima, risoluta a mettere fine a quella scena.
Nello stesso momento da lunge, nella gran calma del meriggio ormai già sorvenuto, si udì aprire e richiudere rumorosamente il cancello di ferro, che dal cortile della casa metteva sui campi.
La donna si volse con vivacità ed una esclamazione soffocata, quasi di sollievo, le sfuggì:
–Ah!
Alvise si volse egli pure e guardò.
Su per l'erta erbosa onde giungevasi al poggio veniva il professore Sant'Angelo, seguito dal suo terranova, il quale, sentendo ridestarsi al menomo fruscìo di foglie il suo istinto di fido guardiano, gittavasi ogni momento a testa bassa tra i cespugli del sentiero.
Il professore avvicinavasi a passo spedito: in pochi minuti gli avrebbe raggiunti.
Allora il conte si fece appresso a Loreta ed abbassando il capo verso di lei quasi a sfiorarle la spalla col suo viso:
–Dobbiamo parlarci ancora, Loreta. I mezzi non mi mancheranno. Però badate di non sfuggirmi. Sarebbe peggio per voi… per tutti.
Ella non ebbe il tempo di rispondergli nulla. Il professore era già giunto a loro.
Con viva cordialità Mattia s'avanzò sorridendo e si fece una festa di quell'incontro. Al conte strinse la mano, poi si volse a Loreta:
–M'avvertirono in casa che eri qui, che il conte era venuto e ti aveva qui raggiunto… A Collalto non trovai nessuno: il conte Nardin per oggi ha lasciato in pace gli uccelletti e se n'è andato a Udine non so per quali faccende. Ed ecco una combinazione fortunata, chè così ho il piacere di godermi anch'io la visita del signor conte…
Il professore disse tutto ciò con la consueta sua sincerità affettuosa.
Però ad un tratto il sorriso gli si spense quasi sul labbro dinanzi al turbamento evidente che gli parve riscontrare nel volto e negli atti di sua moglie e di Alvise.
Per un istante egli stette perplesso, la parola gli si fece lenta e impacciata, un orgasmo improvviso gli nacque molestamente.
Ma, riavutosi subito, seppe ritrovare senza alcun visibile sforzo la intonazione lieta ed espansiva di prima.