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Kitabı oku: «Il peccato di Loreta», sayfa 8

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XIII

Mattia Sant'Angelo non volle porre un indugio troppo lungo nel recarsi a restituire la visita al conte Polverari, spinto a questo, assai più che da un mero riguardo di convenienza, dal sentimento di schietta simpatia che il forastiero avea fin dal primo momento destato in lui.

Discorrendone con Loreta non rifiniva di lodarne i modi squisiti, la cortesia del parlare, la bontà che tralucea evidente da' suoi lineamenti così nobili. E per poco non s'impazientì allorchè la signora, accampando qualche pretesto, gli diè a comprendere con velati accenni com'ella sarebbe stata lieta di vedersi evitato l'imbarazzo di una presentazione.

–Che vuoi? In tanti anni che faccio questa vita ritirata son divenuta quasi una selvaggia. Trovarmi innanzi a delle persone forastiere di tanto merito e di tanta levatura…

Il professore da prima un po' contrariato volse la cosa in canzone;

–Già, già, si capisce. Prima di tutto sei troppo brutta… poi, tutti lo sanno che sei una povera sempliciona, incapace di mettere insieme quattro parole… E vero, signora Sant'Angelo, che la cosa sta proprio così?!

–Non dico questo, ma…

–Ma… invece io le dirò che tutti questi non sono che dei pretestucci senza senso comune. La signora Sant'Angelo, checchè se ne dica, è ancora un bel fior di donnetta; di più, quando voglia, dello spirito ne ha da vendere non che a una ma a venti signore di città. Si metta dunque l'animo in pace. Sono pronto a rispondere io che anche davanti al conte Polverari non farà la brutta figura che teme. Anzi son certo che l'ospite nostro non potrà che rivolgermi degli altri complimenti per la mia brava moglietta!.. Con tutto questo, il giorno in cui il Sant'Angelo, recatosi a Morò-Casabianca, ne ritornò sull'imbrunire insieme al conte che lo volle riaccompagnare con i suoi cavalli, Loreta sfuggì l'occasione di farsi vedere. Appena ebbe avvertito, dalla spianata dove lavorava, l'avvicinarsi della carrozza, fuggì lesta in camera sua, ordinando alla Vige di dire all'ospite, ove chiedesse di lei, trovarsi ella ritirata nelle sue stanze in causa d'un forte male di capo.

Il conte infatti non mancò d'informarsi sul conto suo con una certa insistenza. Poi, affermando di non voler riuscire di troppa molestia, ringraziato il professore della sua visita e salutatolo con espansione, risalì in carrozza e riprese direttamente la strada del palazzo.

Verso Mattia la signora si scusò anche questa volta dicendo che, sorpresa da quella visita, non avrebbe potuto farsi vedere, come trovavasi, in assai dimessi abiti di casa. Senonchè il professore, vôlta un'occhiata alle vesti semplici ma linde, che come sempre anche in quel giorno ella portava, non potè trattenersi dal farle un aperto rimprovero per l'atto suo, il quale poteva, ciò che altamente gli sarebbe doluto, dar luogo a qualche non lusinghiera interpretazione.

–Ti ho detto già quali legami mi stringono a questo forastiero. Sai il piacere che ho provato nel vederlo in casa mia. Dovrebbe bastare questo per forzarti, anche quando ciò ti riesca di noia o di peso, a non usargli da parte tua un tale contegno!

Abituata ai modi inalterabilmente dolcissimi del marito, Loreta comprese, dal tono serio con cui pronunciò queste parole, come egli avesse provato per causa sua una reale contrarietà.

Ella parve di ciò vivamente turbata e, con le guance accese da un subitaneo rossore, si scusò ancora, promettendo che per quel riguardo non gli avrebbe dato ulteriori motivi di farle rimprovero.

–Meno male! – esclamò allora il professore. – Se tu sapessi quante volte il conte oggi stesso mi ha chiesto di te! Gli feci presente che vi dovevate essere incontrati ier l'altro sul crocicchio di Leonacco. Se ne ricordava. Però l'incontro è stato così momentaneo-pare proprio alla svoltata dello stagno-che egli nella rapida corsa de' due carrozzini non potè distinguere se non vagamente una signora con un velo in capo, e seppe dal fattore Beppo chi tu fossi, solo quando il nostro calesse era già sparito dietro le ultime case del villaggio.

Loreta si limitò a rispondere con qualche monosillabo di conferma. E il discorso non ebbe sèguito. Anzi parve che per tutta quella sera la signora, la quale del resto accusava di sentirsi poco bene e perciò punto disposta a discorrere, avesse voluto di proposito evitare che l'argomento fosse ripreso.

Come tutta quella sera, così il giorno appresso Loreta si mostrò nervosissima. Mentre il professore ritirato nelle sue camere attendeva nelle ore consuete ai proprî studî, la signora andava e veniva per la casa, senza trovare il destro di porsi alle solite faccende, mostrando una grande impazienza nel dover ascoltare i fittaiuoli, che come sempre in autunno venivano a recare le loro derrate coll'inevitabile accompagnamento di querimonie per la lunga siccità o per i troppi calori, che avevano rovinati i raccolti.

Ogni volta che il rumore di qualche ruotabile s'udiva per lo stradone e che prè Zuan balzava dal sonno mettendosi ad abbaiare, Loreta aveva quasi uno scotimento di tema. Ed era in tutti i suoi atti, come ne' suoi lineamenti, una così marcata inquietudine, che la Vige, colpita vivamente e senza tuttavia arrischiarsi di moverle domanda alcuna, la sbirciava di sottecchi con profonda curiosità.

L'incontro col conte Polverari avvenne però in modo assai diverso da quello che Loreta s'attendeva e in un momento in cui ella vi era meno preparata. E fu due giorni dopo, una domenica, al termine della messa grande, che si celebra nel duomo di Tricesimo alle dieci del mattino.

Scendeva Loreta i gradini della chiesa insieme a un gruppo di signore sue conoscenti, quando notò dinanzi al municipio, in unione a suo marito, che ve la stava attendendo come ne aveva costume, il nuovo proprietario di Morò-Casabianca.

Il gentiluomo, vestito d'un elegante abito chiaro di campagna, pallido in viso, coi grandi mustacchi bruni che davano al suo tipo una certa marziale fierezza, parve un po' turbato nel vederla. Ma, corrispondendo disinvoltamente a un avvertimento che in quell'istante gli movea il professore, s'avvicinò subito, seguendolo, verso la signora, portando la mano al cappello.

–Ecco mia moglie, conte.

E quindi a lei sorridendo:

–Il conte Alvise Polverari-Nathan, di cui ti ho già tanto parlato…

La signora fissò in volto al forastiero i suoi occhi lucenti e si fece smorta sotto la veletta che le copriva il viso.

Il Polverari s'inchinò profondamente e subito, con molta scioltezza, le porse la mano:

–Signora, io sono ben lieto di fare la sua conoscenza. Col professore noi siamo già, – (e volgendosi a lui) posso dirlo, non è vero? – ottimi amici. Sarò felice se di pari cortesia vorrà onorarmi Ella pure.

Loreta tardò un istante a rispondere-ciò che Mattia interpretò come conseguenza del naturale imbarazzo di lei al cospetto del forastiero; – ma lo fece quindi con voce ferma e con una frase felice:

–Gli amici di mio marito non possono che essere i benvenuti nella nostra casa. Ella poi, signor conte…

Alvise non la lasciò proseguire, ringraziò vivamente per la sua bontà; indi, seguendo con essi la via, si mise a parlare d'altro togliendo argomento dal lieto spettacolo che presentava il paese nell'animazione festiva, dalla bellezza delle contadine, che coi fazzoletti di tinte fiammanti, legati pittorescamente al capo od annodati con grazia intorno al collo, raccoglievansi in crocchi sulla piazza, scherzando tra loro ed occhieggiando coi loro dami.

–Non possono credere come a me piaccia questa bella e semplice vita delle campagne…

–Ella è un artista, signor conte, e quindi lo si capisce, – rispose il professore. – Però devo riconoscere io pure che quassù in questo nostro Friuli, a torto forse non ancora abbastanza conosciuto dagli altri fratelli italiani, la natura è bellissima, il popolo è pieno di cuore e gli usi vi sono pittoreschi veramente.

E l'ottimo Sant'Angelo, che nell'intenso amore per la sua terra stimavasi felice tutte le volte che gli era offerto il modo di metterne in luce i pregi, accennò subito al forestiere esservi appunto in quella domenica un'occasione eccellente di assistere-ov'egli ne avesse avuto vaghezza-ad uno dei più giocondi e caratteristici spettacoli della vita popolare in quelle campagne: la sagra d'autunno a Nimis, piccolo ma amenissimo paesello nel distretto di Tarcento.

–È una delle più belle sagre dell'alto Friuli. L'allegria ne è così tradizionale che la gente vi accorre a frotte e non solo dai luoghi del circondario, ma da Udine, da Cividale, da Gemona. È un quadretto che merita la pena d'essere veduto. Per noi stessi che vi andiamo ogni anno, è sempre una festa a tornarci. Non è vero, Loreta?

La signora assentì.

–Anche a Morò-Casabianca me ne fu già parlato. Il mio bravo fattore, che sanno bene come ha abbondevole la parola, me ne ha già descritto ier sera con entusiasmo le meraviglie.

–Sfido io!.. Ma vuol credere, signor conte, – proseguì il professore ridendo, – che quel vecchio matto, coi suoi grossi sessanta sulle spalle ci tiene ancona ad essere uno de' più accaniti ballerini!.. Bisogna vederlo!

–Allora oggi… guai a chi manca a Nimis! E poichè Ella, professore, e la sua signora ci vanno tutti gli anni, non comincieranno, io spero, da questo col fare un'eccezione all'abitudine antica. Posso contarci?

Queste parole erano state dette dal conte con garbatissimo tono di scherzo, e, solo nell'atto ch'egli profferiva l'ultima domanda, i suoi occhi si fissarono rapidamente negli occhi di Loreta.

–Si figuri se sarà per noi un piacere! – esclamò cordialmente il Sant'Angelo.

E siccome egli, nel rispondere così, volgevasi alla moglie quasi chiedendo ch'ella si unisse in tale affermazione, Loreta si sentì obbligata ad assentire ancora una volta. E lo fece con un cortese cenno del capo, senza parole.

Dopo questo, qualunque scusa per evitare di recarsi quel giorno a Nimis sarebbe stata impossibile. Loreta lo riconobbe e tralasciò ogni tentativo in tale riguardo.

Il Sant'Angelo intanto aveva atteso con una compiacenza particolare ai preparativi per la gita. Come ogni anno, per questa occasione era stata apparecchiata la carrozza grande, la quale non usciva dalla rimessa che per certe speciali ricorrenze, e il piccolo Agnul l'aveva pulita, lavata, lucidata con tanta cura che il vecchio legno, un po' pesante nelle sue forme antiche, brillava come nuovo dinanzi alla porta dello stallaggio. Poi il professore era sceso colla Vige in cantina e risalitone con un bel numero di bottiglie le aveva collocate accuratamente egli stesso, insieme a due bei cestoni colmi di ghiotte provviste, nell'ampia cassetta del carrozzone. Indi, verso le quattro del pomeriggio, quando l'aria era già più fresca, si partì.

Lungo tutta la strada, che da Tricesimo conduce a Nimis, il movimento era grandissimo: calessi signorili e carrette da nolo, molti phaetons tirati da bellissimi cavalli e grandi carri da lavoro, ne' quali su certi sedili, improvvisati con sacchi di paglia o pezzi di tavole, si pigiavano intere comitive di contadini. E lungo tutto il percorso, da ciascuno de' piccoli borghi che fiancheggiano la strada e fuor dalle scorciatoie tagliate ne' prati o tra i cespugli delle colline, un continuo sorvenire di paesani vestiti a festa: le donne col mazzo di fiori al petto, gli uomini col cappello di panno a larga falda, piegato alla sgherra sull'orecchio.

Allorchè la carrozza dei Sant'Angelo giunse sul prato di Nimis ove ha luogo la festa, questa era già in pieno fervore, e tale la ressa de' ruotabili e della gente che arrivava, che il professore dovette mettere a passo i cavalli ed aspettare un bel pezzo prima di poter trovare un posticino ove li potesse lasciare alla custodia di Agnul.

–Guarda! – disse il professore a Loreta. – Il conte è già qui!

Ed infatti il Polverari, che addossato ad un albero pareva assistere con molto diletto alla sfilata degli arrivanti lungo lo stradone, appena la carrozza dei Sant'Angelo si fu arrestata, mosse loro incontro salutando.

Il professore, sceso per il primo, ricambiò il saluto affettuosamente, poi il conte con molto garbo porse la mano alla signora per esserle d'aiuto.

–Bravissimo, signor conte! – esclamò Mattia con quel tono di giovialità che gli era ormai abituale. – Ella è stato davvero più bravo di noi!

–Non vuole? L'attrattiva era per me così grande che ho antecipato un pochino. Ora però, quasi quasi cominciavo a dubitare della loro venuta…

–Dubitare a malgrado della nostra formale promessa!? Senti, Loreta, che dice il signor conte? E non ti sembra che noi dobbiamo protestare?

–Infatti… – ella disse con un certo sforzo assecondando lo scherzo di suo marito.

–L'egoismo qualchevolta ci rende perfino ingiusti! – soggiunse il conte con molta gentilezza. – Ed io sono loro ben riconoscente d'essere venuti…

Dicendo questo l'occhio di lui si fissò per un momento nel volto di Loreta con la stessa profonda intensità d'espressione con cui l'aveva fissata quella mattina nell'accennare alla speranza d'incontrarli alla festa.

Ma l'animazione grandissima, che intorno regnava, e la bellezza pittoresca del quadro, che s'offriva ai loro sguardi, diedero subito agio al conte di cangiare il discorso.

Per la vastissima prateria di Nimis, sulla quale sorgono qua e là de' gruppi d'annosi castagni, una folla variopinta s'aggirava, vociando, ridendo, pigiandosi, intorno ai banchetti della fiera ed alle baracche de' saltimbanchi. I mercanti, con alte grida, offerivan intorno le loro merci: chincaglierie passate di moda, giocattoli a buon mercato, immagini sacre dalle tinte stridenti, utensili domestici, arnesi agrarî, cianfrusaglie donnesche e certe campanelle di terra cotta col battaglio di legno, che sono una vera specialità del paese e si trovano in tutte le grandezze desiderabili e con la più variata gradazione di toni. Pochi erano i contadini che di queste campanelle non regalassero i loro ragazzi, i quali, armati di codesto bizzarro quanto romoroso balocco, si stringevano poi, scampanando a distesa, intorno a' banchetti, ne' quali, disposti in bell'ordine sulle tovaglie di bucato, s'ammiravano, pieni di seduzione, i cartocci colmi di mandorle toste, le ciambelle ornate di zucchero filato e i panciuti bottiglioni di limonata e di tamarindo, sorgenti, col tappo di foglie di vite, in mezzo a una corona di bicchieri di tutti gli stampi. Non minor folla, nè minor chiasso dinanzi alle tre o quattro baracche: della fotografia istantanea, del carosello coi cavalli giranti a suon d'organo, del panorama che offriva un regalo ad ogni visitatore e del circo americano, di cui un povero clown col viso infarinato e la rossa parrucca spelacchiata svociavasi a decantare le mai vedute meraviglie.

E mentre sul colle che sovrasta il paese un gran numero di contadini si accalcava per visitare il piccolo santuario della Madonna, che a gran distanza, oltre la porta spalancata, vedevasi rifulgere di ceri accesi e di lumini colorati, la vera allegria ferveva su per i poggi, che elevatisi con facile pendìo, verdi d'erba altissima e di macchie frondose, quasi ad anfiteatro intorno al prato. Lassù compagnie numerosissime, o raccolte intorno a grandi fiammate, sulle quali s'apprestava alla campagnuola qualche manicaretto improvvisato, o intorno alle tovaglie stese per terra e sulle quali si disponevano con molta festa e molte risate le copiose provviste che tutti sogliono recare con sè; larghe brigate di amici, che avevano già intorno, come avanzi dimenticati sopra un campo di battaglia, intere batterie di bottiglie asciutte. E in mezzo a quella festante popolazione campestre non poche comitive di villeggianti-signore e signori in abiti di campagna-che adattandosi all'occasione si associavano al chiasso generale facendo molto onore, coll'allegrezza e l'appetito ond'è larga dispensatrice la buona aria libera, a' cibi ed ai vini che i servitori venivan togliendo dalle ricolme paniere.

E a tutto questo era bella cornice lo spettacolo della vallata, che s'apriva dinanzi, magnifica nella felice ubertà autunnale, e della curva maestosa delle Carniche, che alzavasi in fondo colle vette erte e i fianchi boscosi, spiccante sul cielo purissimo, nella tinta violetta del tramonto imminente.

Ai coniugi Sant'Angelo si era unita subito una famiglia di Fontanabona, solita per vecchia abitudine a trascorrere con essi quella giornata, più il conte Leonardo Mangilli, arrivato egli pure allora allora col suo cavallino, e qualche altro conoscente. Le presentazioni furono fatte presto e poichè, come il Polverari amabilmente affermava, "in campagna non ci hanno da essere complimenti" anche la lieve soggezione, inevitabile a' primi momenti, dileguò al più presto.

Il professore, lieto come un bambino di aver potuto trovare ancor libero il "loro posto di tutti gli anni" proprio sul colmo del poggio, in un punto da cui dominavasi stupendamente l'intero paesaggio, aveva fatto ad Agnul, che attendeva giù presso alla carrozza, il segnale convenuto; e il ragazzo, lesto come sempre, era salito a portare in due o tre volte i panieri delle provvigioni. Le donne apprestarono presto bicchieri e posate sull'erba, il professore si die' premura a svoltare i numerosi cartocci contenenti le grosse provviste di carni rifredde e de' famosi salati paesani, e il conte Mangilli, reclamando il suo ufficio consueto, cominciò a far saltare i turaccioli del vecchio vino.

La merenda fu allegra. Il professore pareva avesse ritrovato il brio de' suoi anni giovanili e con quella piacevolezza, che già lo aveva reso sì caro alle ragunate, cominciò a narrare cento gaie storielle: qualcuna delle comiche burle del nonno Sant'Angelo, qualche aneddoto intorno alle macchiette più caratteristiche del paese. E il conte Nardin, che in quel giorno non giustificava punto col lieto suo umore la sua taccia d'orsaggine, fu egli pure felicissimo d'arguzia quando volle narrare all'ospite la storia del famoso prè Zuan, il Terranova di Mattia Sant'Angelo: storia ch'ebbe di molto accresciuto l'effetto allorchè egli potè far notare al Polverari ed agli amici la buffa figura di don Giovanni Morganti, che, col cilindro bisunto sulla nuca e il viso infocato, barellava malsaldo in gambe in mezzo alla folla sul prato sottostante, gittando in alto, contro il loro gruppo, delle brutte occhiatacce piene di acrimonia.

A tutti questi discorsi il conte Polverari mostrava di prendere non poco piacere ed interesse. Però a chi l'avesse attentamente osservato non sarebbe per fermo sfuggito come di sovente il sorriso venisse a spegnersi sulle sue labbra e come egli dovesse imporsi un certo sforzo per manifestare l'ilarità che le arguzie, recitate intorno a lui, reclamavano. Tratto tratto egli volgeva gli occhi verso la signora Loreta, che s'era messa al lato opposto del crocchio, in mezzo a due altre signore della compagnia e che, a malgrado del vivace chiacchierio delle sue vicine, sembrava molto distratta. Ella aveva infatti appena toccato cibo e messo alle labbra il bicchiere. Tutte le volte che il conte Polverari le aveva diretta la parola aveva risposto breve, con un certo imbarazzo, procurando di sfuggire l'incontro degli sguardi di lui. E in qualche momento, allorchè il conte Nardin, un po' soverchiamente animato dalla sua vena felice, eccedeva un tantino nello scherzo, ella con istento riusciva a frenare una tal quale impazienza.

I discorsi però uscirono in breve da cotesta intonazione: il Polverari, togliendo adito dal piacere provato in quella giornata, accennò alla decisione da lui presa di prolungare, oltre al termine da prima divisato, il suo soggiorno a Morò-Casabianca.

–Il tempo mi passa qui con una celerità incredibile ed è tanto ricco il programma che mi sono prefisso: una gita ad Arta, un'altra al forte di Osoppo ed a Venzone; poi una visita, a cui tengo in modo particolare, al castello di Colloredo…

–Ah! Colloredo di Montalbano! – fe' il Mangilli. – Esso franca infatti la spesa d'essere veduto. Posizione magnifica e non poche memorie storiche.

–A me interessa più che altro per il ricordo che vi si lega di un caro amico della mia famiglia: Ippolito Nievo…

–Sicuro! È lì che il Nievo trascorse molti anni della sua vita così breve ed onorata! – soggiunse il professore. – Ed è lì ch'egli ha pure pensate e scritte in gran parte le sue stupende e troppo dimenticate Confessioni di un ottuagenario. Fu amico de' suoi il Nievo?

–Sì. La madre di lui, una Marin di Padova, fu intima di mia madre. Ippolito ancor giovanetto fu spesso ospite in casa nostra a Verona e noi conservammo di lui varie care memorie. Ricordo tra altro certi suoi bellissimi versi, che credo assolutamente inediti e ch'egli scrisse una sera, l'ultima volta che lo vedemmo, sull'album di una mia povera sorella, morta anche lei così giovane! Erano versi d'amore, ma pieni di tanta melanconia, ne' quali pareva fosse quasi il presentimento della fine di lui così immatura!

E recitò due quartine: semplici, armoniose, assai tristi, in cui sentivasi l'intonazione di alcuno fra i più bei componimenti delle Lucciole e dei Canti garibaldini.

Mentre il Polverari faceva questo racconto, Loreta parve raccogliersi in un'attenzione profonda: i suoi occhi eransi assorti come attratti da un influsso magnetico nel volto di Alvise e, quando egli ebbe terminato la citazione dei versi, impallidì fortemente.

–Che avete, signora? – domandò una delle amiche, che le stavano allato e notò il suo turbamento.

–Nulla, nulla! – rispose ella rapidamente a voce bassa. – Un improvviso capogiro. Avrei bisogno di muovermi un poco.

L'amica intese, si levò tosto, propose di far un giro tra la gente. E Loreta, afferrandosi alla mano, che la signora le porgeva quasi in atto di scherzo, si levò con uno stento ella pure.

–Vi ringrazio! – ella mormorò all'amica, la quale credette ad un momentaneo malessere, – vi ringrazio: mi sentivo tanto male!

E appoggiandosi a lei discese lentamente il colle, mentre gli altri, dopo aver vuotato l'ultimo sorso, levavansi chiassando per una freddura un po' salace che il conte Nardin, viste allontanarsi le signore, non si tenne più dal lanciare.

La sera intanto era discesa. I mercanti di balocchi, di dolciumi e di frutta avevano acceso delle lanterne sui loro banchetti; dinanzi alle baracche del circo americano e del carosello ardevano con larghe fiamme rossastre ed un fumaccio ammorbante alcune fiaccole di pece, e intorno allo steccato del ballo pubblico, ove in quell'ora parea concentrarsi il divertimento, spargevano un'allegra luce numerosi palloncini di carta colorata, pendenti in ordine architettonico dai festoni di mortella e in mezzo alle aste delle bandiere.

I musicanti pigiati nel loro palco faceano il proprio dovere con molta coscienza. Le vecchie melodie più note e gradite ai ballerini s'avvicendavano senza posa guadagnando in brio quello che lasciavano a desiderare per varietà.

E gli impresarî del ballo, intenti allo spaccio dei biglietti presso all'entrata dello steccato, avevano un gran da fare a raccogliere i soldoni di rame ohe all'attacco d'ogni nuova danza ciascuna coppia pagava salendo la piattaforma.

La comitiva dei Sant'Angelo, dopo aver attraversato il prato, sul quale ora da tutte le parti si cantava allegramente, s'era pure diretta verso il palco del ballo.

–Il conte ha da vedere il fattore Beppo come tien alta la vecchia rinomanza dei ballerini friulani! – aveva detto Mattia.

E s'avviarono tutti, facendosi largo in mezzo alla folla, che si stringeva intorno al palco e nella quale dominavano le giovani contadine, raccolte tutte insieme, col fiore in seno, ardenti nell'attesa dell'innamorato o del galante, che le venisse ad invitare pel giro.

E riuscì per verità uno spasso a tutti l'assistere ad una polca, ballata, non colle forme moderne, ma secondo l'antico e graziosissimo uso friulano, dal vecchio fattore. Magro, con la testa calva, col cappello di panno sotto l'ascella, tenendo per mano la ballerina, – una ragazzotta fresca e vispa, scelta fra le più belle, – il vecchio danzava con un gusto, con un'animazione ed una eleganza sì perfetta da destar l'ammirazione generale. Alla fine del ballo il pubblico applaudiva e bisognava vedere il sorrisetto di compiacimento con cui il vecchio lion campagnuolo, nella coscienza della propria maestria, ringraziava intorno, riconducendo pettoruto e svelto la sua ballerina.

Fu tra il movimento di questa folla che per un istante il conte Polverari potè trovarsi al fianco di Loreta, solo, un po' discosto dagli altri compagni.

E fu allora che di repente, appressatosi a lei ed abbassando quanto più potè la sua voce vibrante d'emozione, le mormorò all'orecchio queste parole:

–Finalmente, signora, finalmente! Attendevo questo momento con ansia. Ho da dirvi tante cose!

Ella fe' l'atto di allontanarsi, ma il conte non gliene lasciò il tempo insistendo con energica risolutezza:

–Loreta, Loreta, datemi il modo ch'io possa parlarvi! Ve lo domando come una grazia… ve lo domando pel ricordo di tutto il passato!

–No, no, non posso! – ella mormorò con voce strozzata.

–Dovete poterlo, Loreta… od altrimenti, ve lo giuro, il modo saprò trovarlo io stesso!

Non poterono dirsi di più. In quel momento il professore ed il conte Mangilli si riavvicinavano ad essi e Loreta, pur sentendo venirsi meno, riuscì con un violento sforzo di volontà a dominarsi.

Come vinta da uno stordimento, poichè l'ora di ripartire era intanto venuta, ella ricambiò, quasi inconsapevole di quanto avveniva, i saluti dei suoi amici. Un brivido di freddo le corse per la persona allorchè il conte con una stretta di mano lunga e tenace parve volerle ricordare le parole ch'egli le aveva detto poco prima.

Loreta respirò quando i cavalli, usciti lentamente dal viale ancora affollato, si misero a trotto per lo stradone che dava sull'aperta campagna.

Il professore si sentiva lietissimo: diceva che quella giornata gli era passata come un lampo, si lodava della bontà degli amici, attestava, con la sua bonomia d'uomo sano e sincero, che si ricordava poche volte d'aver mangiato e bevuto con tanto gusto. E piegando la testa, giovialmente, verso Loreta, le susurrava qualche carezzosa parola, com'era rimasta ancor sempre tra loro consuetudine gentile.

La sera era placida, il cielo pieno di stelle, i campi odoravano soavemente.

Ne' villaggetti che attraversavano, i contadini sedevano ancora presso alle porte, godendosi la fresca aria notturna. Lungo tutta la strada incontravansi in allegre brigate, che a piedi od in vetture, ritornavano dalla sagra.

A un certo punto il professore dovette mettere a passo i cavalli per ischivare un grosso carrettone, nel quale una numerosa comitiva di contadini era raccolta: il carrettone, troppo carico e tirato da due povere rozze, procedeva assai lento, e le donne, con fresche voci giovanili cantavano pianamente una delle più popolari villotte friulane, così dolci nella mestizia del verso e nella semplicità del ritmo musicale:

 
Oh! denant di maridassi
Nome rosis, nome flors
E po dopo maridadis
Nome spinis e dolors.
 

Mattia e Loreta stettero un istante silenziosi ascoltando il canto. Poi quando la carrozza, approfittando di un largo che aprivasi nella strada, potè superare il carrettone e riprendere la corsa di prima, Mattia fe' scoppiettar gioiosamente la frusta e volgendosi con tenerezza alla moglie:

–Si dice che i canti popolari parlano sempre il vero. Hai sentito questa canzone? Ebbene… chi meglio di noi può affermare ch'essa è bugiarda!

E, raccogliendo le redini in una mano, passò il braccio libero intorno alla vita di Loreta e la attrasse affettuosamente contro di sè.

Ella a quell'atto provò una dolorosa stretta al cuore, come sotto la pressione di una mano di ferro.

E il canto delle contadine risonava ancora, sempre più fievole nella lontananza, in mezzo alla placida quiete delle campagne.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
03 temmuz 2017
Hacim:
280 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
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