Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 12
Fatto poscia un vivo elogio delle virtù degli antichi Romani, il cardinale passa a dire:
«Se le morali virtù così resero cospicua la latina libertà, con quanta maggior ragione dobbiamo noi riputar necessaria la virtù nella presente democrazìa, noi, che non viviamo invescati dal lezzo, e dall'ambizione di sognar deità, noi che santificò il Verbo di Dio fatto uomo… Le morali virtù, che non sono poi altro, che l'ordine dell'amore, ci faranno buoni democratici, ma di una democrazìa retta, e che altro non cura, che la comune felicità, lontana dagli odj, dall'infedeltà, dall'ambizione, dall'arrogarsi gli altrui diritti, e dal mancare ai propri doveri. Quindi ci conserveranno l'uguaglianza intesa nel suo retto significato, la quale dimostrando, che la legge si estende a tutti gl'individui della società e nel diriggergli, e nel proteggergli, e nel punirgli, ci dimostra ancora in faccia alla legge divina ed umana, quale proporzione debba tenere ogni individuo nella democrazìa tanto rapporto a Dio, quanto rapporto a se stesso ed ai suoi simili.
«Ma i perfetti doveri dell'uomo non si possono compire nella sola virtù morale, e l'uguaglianza, che fa l'armonia e il bene della società, desidera altre molle per la sua sussistenza, e per la sua perfezione. Il Vangelo di Gesù Cristo ci fu dato come un complesso di leggi, onde rendere gli uomini veramente perfetti anche in società, onde sistemare quell'uguaglianza che ci faccia felici nel presente giro dei giorni mortali, e più felici nell'aspettata eternità. La storia della filosofia ci dimostra la mancanza di tal progetto, la storia del Vangelo ce ne dimostra l'esecuzione e il compimento…
«Decidete quanto conferiscano i precetti del Vangelo, le tradizioni degli apostoli, e dei gran filosofi padri, e dottori cristiani a conservare la pace, a far risplendere la vera grandezza dello stato democratico, a fare di tanti uomini, dirò così, tanti eroi di umiltà, di prudenza nel governare, di carità nel fraternizzare fra loro stessi, e con Gesù Cristo… Il luminoso oggetto della nostra democrazìa dev'essere di stabilire la massima possibile unione di sentimenti, di cuori, di forze fisiche e morali, onde ne derivi una soave fratellanza nella società…
«Eccovi, o dilettissimi fratelli, uno sparuto abbozzo degli evangelici dettami. Vedete ivi quale possanza, qual influsso risplenda per la massima virtù dell'uomo, per la civile uguaglianza, per la regolata libertà, per quell'unione insomma d'amore e di tranquillità, che fa la sussistenza, e l'onore della democrazìa. Forse per la durevole felicità degli altri governi basterà una virtù comune, ma nella democrazìa studiatevi di essere della massima possibile virtù, e sarete i veri democratici: studiate, ed eseguite il Vangelo, e sarete la gioja della repubblica;… la religione cattolica sia l'oggetto più prezioso del vostro cuore, della vostra divozione, e di ogni altro vostro sentimento. Non crediate, che ella si opponga alla forma del governo democratico. In questo stato vivendo uniti al vostro divin Salvatore, potete concepire una giusta fiducia dell'eterna salute, potete operare la felicità temporale di voi stessi, e dei vostri simili, e procurare la gloria della repubblica e delle autorità constituite… Sì, miei cari fratelli, siate buoni cristiani, e sarete ottimi democratici».
Queste parole con tanta soavità dette da un uomo così eminente per dignità, e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli spiriti, raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo stato.
Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la riconoscessero in solenne modo, come potentato Europeo. Vi si adoperava Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse la creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero stato. In questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la chiamavano.
A questo fine mandava il direttorio Cisalpino per suo ambasciadore a Parigi un Visconti, che stato prima uno dell'amministrazione generale di Lombardia, ed amato da Buonaparte, ma stimato da lui troppo vivo nelle opinioni dei tempi, non era stato eletto fra i quinqueviri, nè fra i magistrati subalterni; pure pareva, che in grado privato più non potesse vivere.
Fu veduto a Parigi molto volentieri il Visconti, ed in pubblica udienza, presenti tutti i ministri di Francia, e gli ambasciadori delle potenze amiche, il dì venzette agosto, solennemente udito. Parlava magnificamente dei benefizj della repubblica Francese, della gratitudine della Cisalpina; esprimeva, unico, e primo desiderio dei Cisalpini essere il farsi degni della illustre nazione Francese; di loro non potere aver ella amici nè più affezionati, nè più fedeli; comune avere le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune ancora dover avere la felicità, nè senza i Francesi volere, o poter essere i Cisalpini felici; le vittorie del trionfator Buonaparte già aver procurato pace, e quiete alla Cisalpina; desiderare, che la Francia ancor essa quella pace si godesse, e quella felicità gustasse, che le sue vittorie, e la sublime di lei constituzione le promettevano. Queste cose scritte in Francese, poi tradotte in pessimo Italiano nei giornali dei tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente, secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla repubblica Francese la creazione, e l'amicizia della Cisalpina; non dubitasse, che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di serpenti, che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima, poi deposte dai nemici delle due repubbliche. Sapere il direttorio, che quest'uomini velenosi, e perfidi volevano distruggere la libertà sulla terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più per una corona intorno di popoli liberi, e governati da leggi consimili. Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non di quelle degli animi vili, e timorosi, ma di quelle degli animi ben composti, e forti. «No, prorompeva, immortali guerrieri, non fia, che l'opera vostra accompagnata da tanti miracoli, e da tanta gloria, non lasci un segno durevole in Italia nella conservazione di uno stato libero, e di un alleato fedele della vostra patria. No, popoli della Cisalpina, voi non avrete gustato i primi frutti della vostra indipendenza per tornar a vivere in servitù. Il destino vostro non girerà a modo di coloro, che con male parole, e con discorsi bugiardi insidiano alla libertà. Il serpe frodolento romperà i denti sulla lima, nè il pigmeo distruggerà l'opera del gigante. In Italia sono gli eserciti vincitori, sonvi i forti generali, evvi il trionfator Buonaparte. Il direttorio amico alla Cisalpina vuol fondare con ogni suo sforzo, a malgrado delle congiure e delle calunnie, la libertà di lei; stessero pur sicuri i Cisalpini, e confidassero nella grandezza e nella lealtà della nazione Francese, nel coraggio e nel valore dei suoi soldati, nella rettitudine e nella costanza del direttorio: niuno più acceso, niuno più ardente desiderio avere il direttorio di questo, che i Cisalpini vivessero felici, e liberi». Questi detti minacciosi toccavano l'Austria, che nei negoziati di pace, che allora pendevano, veduto che Buonaparte aveva ritratto l'esercito, ed avendo lei stessa con nuove leve ricomposto le sue genti, stava sul tirato, e metteva in mezzo condizioni, che parevano esorbitanti, massimamente quella di volersi ricuperar Mantova.
Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori, che, o già serve del tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente dipendenti, non avevano altra elezione che quella di obbedire. Per la qual cosa non esitavano il re di Spagna, quei di Napoli e di Sardegna, il gran duca di Toscana, la repubblica Ligure, ed il duca di Parma a mandar ambasciatori, o ministri, o simili altri agenti a Milano, acciocchè tenessero bene edificato, e bene inclinato quel nuovo stato tanto prediletto di Buonaparte. In questo ancora ponevano l'animo allo investigare in mezzo a tante gelosìe ed a tanti timori, quello, che succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati loro; perchè a Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli stati d'Italia. Perciò i patriotti gridavano, che questi ministri erano spie per rapportare, stromenti per subornare. Gli laceravano con gli scritti, gli oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti gli maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti delle diverse parti d'Italia, raccolti in gran numero in Milano, non si potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava, e dava loro spesso sulla voce, e talvolta sulle mani, ma essi ripullulavano, e straboccavano più molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro.
Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole di pace e d'amicizia, a cui secondo il solito, ed anche meno del solito credeva nè chi le diceva nè chi le udiva: così con questi inorpellamenti s'ingannavano a vicenda, o piuttosto non s'ingannavano, perchè gli uni e gli altri ottimamente sapevano, che cosa ci fosse sotto.
Esitava il papa al mandare un ministro, perchè gli pareva, che i Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini, che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo, e minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose, e coi manifesti più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, riputando che fosse dignità l'indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore a Milano, pretendendo, ed allegando ciò che era vero, che la Cisalpina, anche come già si trovava constituita legalmente in repubblica ordinata, non era stato franco, e indipendente, perchè e le sue fortezze erano in mano dei Francesi, ed i comandanti Francesi pubblicavano di propria autorità in tutta la Cisalpina, e nella sede stessa di Milano ordini, e manifesti, ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano, se non dopo che fossero veduti ed appruovati dai comandanti Francesi.
Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio Cisalpino mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze medesime, e coi medesimi fini di onorare con le parole, e di spiare coi fatti. Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i legati Cisalpini. Bene pe' suoi fini aveva scelto gli uomini suoi la Cisalpina, perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti vivi, ed accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti, almeno astuti, e senza intermissione operativi. L'aggiunta di tante nuove provincie al centro Cisalpino aveva dato nuova forza al disegno dell'unione Italica, ed i ministri Cisalpini fomentavano questo disegno medesimo con ogni arte negli stati Italiani, presso cui risiedevano. Solo Marescalchi, di famiglia principalissima di Bologna, che era stato mandato ambasciadore a Vienna, non faceva frutto, perchè nè l'imperatore l'aveva voluto riconoscere nella sua qualità pubblica, nè era d'animo volto al propagare; perchè gli piaceva una libertà placida e molle, non una libertà inquieta e sdegnosa, ed anche, quantunque fosse d'ingegno non molto acuto, sapeva misurare le cose, non con la immaginazione, ma con la ragione. Serviva piuttosto per evitar il non servire, che per servire, uomo da esser tirato, non da tirare altrui.
Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè non fosse il direttorio Francese amico, ma perchè l'inviato doveva arrivarvi con molta materia apprestata, come sarem per narrare in appresso.
Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli ordinamenti politici quell'opera, che con le armi aveva fondato, i legislatori Cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per quello degli anziani. Onorati nomi vi risplendevano per sapere, per antichità, per ricchezze, per amore di libertà. Eranvi un Quadrio, un Giovio, un Melzi, un Birago, un Cicognara, un Compagnoni, un Savoldi, un Cagnoli, un Monga, un Venturi, un Lamberti, un Polfranceschi, un Martinengo, un Fenaroli, un Lecchi, un Lattanzi, un Colonia Ebreo, un Arese, un Reina, un Beccaria, un Somaglia, un Bossi, un Castiglione, un Tassoni, un Cavedoni, un Aldini, un Guglielmini, un Aldrovandi, un Mascheroni, un Mangili, un Bellisomi, un Malaspina, un Alpruni, un Fontana, uno Scarpa, tutti tre professori molto celebrati di Pavia, un Castelbarco, un Pallavicini.
A tutti questi aggiungeva Francesco Gianni, giovane di singolare spirito poetico dotato, e cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma; ma la Cisalpina, considerato, quest'esse furono le parole della legge, che il cittadino Francesco Gianni aveva principalmente applicato i poetici suoi talenti a celebrare il genio della libertà Italiana, ed encomiare l'invitta armata Francese, con che nelle attuali circostanze si veniva a vieppiù promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne ed apposita legge la naturalità.
I consigli adunati ardentemente procedendo, si accostavano alle opinioni dei democrati più vivi, il che, dall'un de' lati dispiaceva a Buonaparte a cagione della natura sua inclinata allo stringere, dall'altro gli piaceva per dar timore all'Austria, che pareva allora voler prendere novelli spiriti.
Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli, «Il dì ventuno novembre fia pienamente in atto la vostra constituzione; e saranno altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo, il tribunale di cassazione, e le altre amministrazioni subalterne. Voi siete fra tutti i popoli il primo, che senza fazioni, senza rivoluzioni, senza stragi libero divenga. Noi vi diemmo la libertà; voi sappiate conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa: secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione. Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini nodriti nei principj della repubblica, ed amatori della sua prosperità. Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra forza, e della dignità, che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste mai potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni potrete anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia; proteggeravvi intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran nazione; col nostro sarà lo stato vostro congiunto. Se il popolo Romano avesse usato la sua forza, come la sua il Francese, ancora sul Campidoglio si anniderebbero le Romane aquile, nè diciotto secoli di schiavitù e di tirannia avrebbero fatte vili e disonorate le umane generazioni. Per consolidare la libertà vostra, e mosso unicamente dal desiderio della vostra felicità, io feci quello, che altri han fatto per ambizione, e per la sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione di tutti i magistrati, e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo probo con posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste fatto voi stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano compiti. Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando un ordine del mio governo, od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma qualunque sia il luogo, a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti della mia patria, questo vi potete promettere di me, che sono, e sempre sarommi ardente amatore della felicità, e della gloria della vostra repubblica».
Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi. Parevano veramente altri tempi, parevano altri destini. Quest'erano le operazioni palesi di Buonaparte: altre di uguale, anzi di maggiore importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a quei tempi al mondo quattro cose, che a tutte le altre sovrastavano, la gloria molto risplendente di Buonaparte, il timore, che avevano i re, che quella repubblica Francese non gli conducesse tutti a ruina, la repubblica Francese stessa fondata in una nazione, che per la natura sua non può vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone, esule sì, ma con molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci, e più profonde per le enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava pertanto e dentro della Francia da non pochi uomini temperati, e fuori da tutte le potenze, che la repubblica si spegnesse, ed il consueto reggimento, per quanto gl'interessi nuovi il permettessero, col mezzo dei Borboni si ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire coll'armi civili delle Vendea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa, perchè la nazione Francese, che forte ed animosa è, non aveva voluto lasciarsi sforzare, si pensava, che i maneggi segreti, le promesse, le corruttele, e le adulazioni potessero avere maggior efficacia. A questo fine, e con questi mezzi si era operato che le nuove elezioni ai consigli legislativi cadessero in uomini, che amassero meglio la monarchìa dei Borboni, che la repubblica, ed in ciò si era fatto non poco effetto. Siccome poi a tutti i moti è necessario un capo di chiaro nome, così avevano al consiglio dei giovani eletto il generale Pichegru, capitano rinomato per le sue vittorie in Alemagna ed in Olanda. Con lui concorrevano molti altri personaggi famosi o per armi o per dottrina, o per segnalati fatti nelle rivoluzioni politiche di Francia. Nel direttorio stesso Barthelemi favoriva il disegno per natura e per opinione, ed i desiderj suoi fino ai Borboni si estendevano; che certamente aveva dato questi segni di se nella sua ambascerìa in Isvizzera. Il favoriva, siccome pare, anche Carnot, o che volesse la monarchìa dei Borboni, il che è incerto, o che solamente disegnasse, come uomo di acutissimo pensiero, ridurre, spenti gli uomini immoderati, quello stato di repubblica scorretta e tumultuaria a forma più stretta e più ordinata. Seppesi questo maneggio dai tre quinqueviri, che non vi erano mescolati, e si misero all'ordine per isturbarlo, perchè amavano la repubblica, e temevano la monarchìa. È quivi per altro debito nostro riferire, che a questo tempo alcune pratiche segrete si erano introdotte tra Barras, uno dei tre, ed alcuni agenti di Luigi decimottavo, per le quali il quinqueviro aveva dato speranza, e s'era anche obbligato a favorire la rinstaurazione dei Borboni sotto condizione di dimenticanza del passato, e promessa di premio in denaro; ma con la medesima sincerità procedendo, dobbiamo notare, che sebbene sia vero, che queste pratiche siano esistite, Barras sdegnosamente, e con termini molto espressivi negò d'aver voluto procurare la mutazione del governo allora sussistente, ed asseverò, avere prestato orecchio agli agenti dei Borboni col solo fine di conoscere, e sventar le loro trame: vogliono anzi alcuni, che gli volesse condurre in luogo dove potessero essere arrestati. Pubblicò di più, aver ciò fatto con saputa e consentimento espresso de' suoi colleghi del direttorio, ai quali a questo fine aveva comunicato il negozio. Dà verisimile colore a quest'ultima allegazione l'averla lui pubblicata quando gli sarebbe stato utile dire il contrario, se fosse stato vero, ed il citare, per pruova della verità del fatto, il testimonio dei ministri di quel tempo, de' suoi colleghi del direttorio, ed anzi i registri segreti di questo magistrato supremo della repubblica, in cui, siccome affermò, vi era un decreto che l'autorizzava a condurre queste pratiche. Comunque ciò sia, era allora l'esercito d'Italia in bocca di tutti, e quanto da lui veniva era ricevuto in Francia con grandissimo o amore o terrore, secondo le opinioni e le passioni, per la qual cosa coloro, che contrastavano a questo proposito, facevano avviso, che le mosse contrarie dovessero aver principio dall'esercito Italico. A questo dava favore Buonaparte per la sua emolazione verso Pichegru, prevedendo nell'esaltazione del vincitore dell'Olanda la depressione del vincitore dell'Italia. Per tutte queste ragioni uscivano dalle diverse schiere dell'Italico minacce fierissime contro i nemici della libertà, come gli chiamavano, contro gli amatori del nome reale, contro i minacciatori della constituzione. Parlavano del voler marciare in Francia con le armi vincitrici per castigare i ribelli, descrivevano con patetiche parole le orribili congiure ordite nella patria loro contro la libertà, mentre essi col sangue, e con disagi innumerevoli la libertà, e la patria difendevano. Non isperassero, minacciavano, che il sangue sparso, che le acquistate vittorie, che la conseguita gloria fossero indarno; quelle mani stesse, che avevano vinto l'Austria, vincerebbero facilmente, e farebbero tornar in nulla quei branchi di faziosi. Al solo mostrarsi degl'Italici soldati oltre l'Alpi, presi di spavento si disperderebbero quei vili sommovitori di congiure. Non dubitasse punto il governo, che l'esercito Italico tanto amasse la libertà, quanto la gloria, e che la prima con la medesima costanza, col medesimo valore difendesse, coi quali aveva acquistato la seconda: verrebbero, vedrebbero, ed anche senza battaglie vincerebbero.
Da questi conforti, e da questo appoggio fatto sicuro il direttorio, veniva a quelle risoluzioni, che resero tanto famoso il dì diciotto fruttidoro, anno quinto della repubblica, o il dì quattro settembre del novantasette: per esse si carceravano, ed in istrane e pestilenziali regioni si mandavano Barthelemi, Pichegru, e gli altri capi della congiura. Alcuni, e fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei cercatori, trovarono in forestiere terre scampo contro chi gli chiamava a prigione ed a morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale affortificatosi il direttorio coll'esclusione dei dissidenti, e coll'unione dei consenzienti, e fattosi padrone dei consigli, recava in sua mano la somma delle cose, e pareva, che vieppiù avesse confermato la repubblica.
Tornato vano questo tentativo, i confederati, massimamente l'Austria, che si trovava più vicina all'incendio, e che, essendo alle strette con Buonaparte, aveva meglio conosciuto la sua natura, si gettarono ad un altro cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile repubblica. Si negoziava a questo tempo la pace coll'Austria; gli agenti Austriaci vennero dicendo a Buonaparte, guardasse le ruine d'Europa, e della sua patria stessa; una repubblica fondata solo con le mannaje, conservata solo con le bajonette, sopportatrice dei malvagi, perseguitatrice dei buoni; non isperasse di fuggir egli stesso la repubblicana invidia; più illustri erano i fatti suoi, più magnifici i benefizj verso la patria, e più inevitabile credesse l'atroce fine che l'aspettava. Considerasse, che sono inesorabili le repubblicane emolazioni, e che sempre la gratitudine delle repubbliche è l'ingratitudine. Se i più chiari cittadini erano stati all'estrema fine condotti in Francia, solo perchè chiari erano, che sarebbe del più chiaro fra tutti? Ricordassesi le recenti trame ordite contro di lui, le proprie querele, ed il livore del direttorio già vicino a prorompere, quand'era ancora l'opera sua necessaria in guerra: che sarebbe in pace? Forse era nato egli e fatto per essere stromento di faziosi, e mentecatti? Forse a servir ad avvocati, e notaruzzi ambiziosi? Con le grida, e coi patiboli s'hanno a governar gli stati? Guardassesi intorno, entrasse in se, si paragonasse ad altri, e vedrebbe, che siccome era unica la sua gloria al mondo, così unico doveva essere il fine, che a se doveva proporre, che già dalle volgari vie militari si era discostato nelle faccende di guerra, e che debito gli era di discostarsi dalle volgari vie anche nelle faccende civili: a ciò chiamarlo, lacera e rotta tutta l'Europa; a ciò medesimo chiamarlo la misera umanità ingannata dalle lusingherìe, straziata dai delitti: vedeva egli certamente, ed anche più volte aveva accennato, essere la repubblica un governo impossibile in Francia. A che dunque dubitare, a che indugiare? l'Europa infelice, la Francia infelicissima domandare da lui altre sorti, domandare da lui la rinstaurazione dell'antica monarchìa dei Borboni, domandare la rintegrazione dei diritti Europei: assai avere spaziato la forza, assai la usurpazione, assai l'anarchìa: domare questi mostri esser suo destino: al solo segnale dei Borboni, quando l'opportuno instante fosse venuto, seguiterebbonlo in Francia tutti i buoni, seguiterebbonlo tutti gli sdegnati, seguiterebbonlo tutti gl'infelici condotti all'ultimo caso dalla presente tirannide. Favorirebbelo l'Europa tutta, tirata da sì grande impresa, mossa da sì bella speranza dopo tanto conquasso. Seconderebbonlo i principi, l'Austria la prima, e la Russia tanto attiva fomentatrice dei Borboni. Parlare di ricompense a chi già aveva acquistato maggior gloria, che altr'uomo avesse acquistato mai, e che solo con un gran civile fatto poteva la propria gloria ampliare, essere superflua, e fors'anche offenditrice cosa: pure o che in grado privato la venerazione, o che in grado pubblico l'autorità desiderasse, ciò gli sarebbe, e più ampiamente, che non desiderasse, conceduto. Desse pertanto opera ad impadronirsi della somma delle cose in Francia; che a ciò l'ajuterebbero i potentati, solo che promettesse di fare la gran rimessa all'antico e legittimo signore. Muovessesi adunque Buonaparte unico ad opera unica; rispondesse col fatto al destinato dalla provvidenza, posciachè non senza intervento divino tante volte avevano suonato le armi sue vincitrici.
Queste esortazioni muovevano quell'animo ambizioso. Ma da Borboni a repubblica ei non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in dispregio, ed anche la felicità, o le disgrazie umane nol toccavano. Bensì, siccome quegli che sagacissimo era, e di prontissimo intelletto, avvisava in un subito, che quello, che gli si offeriva, poteva aprirgli la strada all'altissime sue cupidità. Si mostrava pertanto disposto a fare quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo, e questo fu il più solenne inganno, che mai sia stato fra gli uomini, di favorirsi del consentimento e cooperazione dei principi, per arrivare alla potestà suprema in Francia; non già per dispogliarsene in favor di chicchessia, ma per serbarla ed anzi vieppiù consolidarla in se medesimo, ed ampliarla.
Vogliono alcuni, che Barras quinqueviro avesse l'animo volto a favor dei Borboni già insin da quando aveva procurato la elezione di Buonaparte al governo supremo dell'esercito Italico, e che a questo fine appunto l'abbia procurata, argomentando, che il giovane di Corsica, in cui egli aveva scoperto mente atta a qualunque più ardua impresa, e natura nemica ai reggimenti popolari, il dovesse secondare nel mandar ad effetto il suo intendimento. Danno corpo a questa opinione le pubblicazioni fatte dagli agenti dei Borboni, la contraddicono quelle fatte da Barras: le une e le altre noi abbiamo rapportate, affinchè chi ci legge, possa dalle medesime prender conghiettura della verità in cose tanto avviluppate quanto importanti.
Dato in tal modo intenzione ai confederati, ed accordatosi con loro del ristaurare in Francia l'antico governo dei Borboni, non formidabile ai principi per essere conforme ai loro proprj, cominciava Buonaparte a fare qualche dimostrazione, che della sua sincerità potesse far testimonianza. Avea egli fatto arrestare contro ogni dritto delle genti in Trieste, e condurre gelosissimamente custodito nel castello di Milano il conte d'Entraigues, agente molto fidato di Luigi decimottavo. Parlavano a quei tempi tutti i giornali della carcerazione del conte, e ne favellavano come di cosa, che sommamente importasse alla salute della repubblica. Gli trovavano, siccome fu pubblicato per opera di Buonaparte, scritti, che discoprivano le macchinazioni di Pichegru, e degli altri amatori del nome reale. Inoltre si facevano constare per un rigoroso esame dato al conte, sebbene egli il verbale costantemente sempre abbia negato, molto maggiori cose in pregiudizio della repubblica, ed in pro dei Borboni, che gli scritti non palesavano. Tal era il rigore di quell'età, che, se non ci fosse stato di mezzo qualche grave motivo, avrebbe tosto Buonaparte dato a giudicare ad un consiglio militare, o mandato il conte in Francia, dove sarebbe stato o sottoposto all'ultimo supplizio, o carcerato per sempre. Ma quando ognuno temeva di veder il conte giunto all'estrema fine, diede ammirazione agli uomini l'udire, che il generalissimo aveva comandato a Berthier, che il facesse comodamente alloggiare nel castello, e che la moglie il potesse visitare. Gli comandava ancora, che se non trovasse stanza comoda nel castello, il lasciasse sotto buona guardia in città, e gli rendesse tutti gli scritti, salvo quelli, che toccavano gli affari politici: questi erano le congiure di Pichegru. La maraviglia più si cambiava in istupore per coloro, che non conoscevano l'intrinseco del fatto, e le cagioni, quando si seppe, che il conte si era fuggito dal castello, e più ancora, quando portò la fama, ch'ei fosse già arrivato con felice viaggio nelle terre dell'imperatore Paolo di Russia, succeduto alla sua madre Caterina. La verità del fatto fu, che Buonaparte desideroso di far chiari gli alleati della sincerità sua col fidare le cose segrete trattate a Montebello ad uomo confidente della Russia, e di Luigi decimottavo, aveva procurato la libertà ad Entraigues, e mandatolo in Russia portatore delle sue promesse. Infatti a queste novelle si piegava Paolo con divenire molto meno acerbo verso la Francia. Al tempo stesso i negoziati di Udine e di Montebello si fecero assai più morbidi, per modo che non tardarono ad avvicinarsi alla conclusione; conciossiachè i principi credevano, facilitando il sentiero a Buonaparte per arrivare alla somma potenza in Francia, abilitarlo a mandar ad effetto le cose, che da lui si promettevano. Tutti questi disegni molto gli arridevano, e quantunque fosse uomo di natura molto coperta, e di pensieri cupissimi, tuttavìa si lasciava di quando in quando uscir di bocca certi motti, che disvelavano la sua intenzione, e le fatte macchinazioni. Ed io ho udito parecchie volte raccontare a Villetard, giovane candidissimo, che trovandosi a passeggiare a Montebello con Buonaparte, e con Dupuis, che poi fu morto generale in Egitto nella sommossa del Cairo, sostando improvvisamente dal passeggiare, il generalissimo aveva loro detto: che direste voi s'io diventassi re di Francia? Al che, siccome a me raccontava il medesimo Villetard, rispondeva Dupuis, che professava un ardente desiderio dello stato repubblicano, che sarebbe il primo a piantargli un coltello nel petto; il quale tratto non fu udito senza riso da Buonaparte.