Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 13
Nè questi erano i soli segni delle meditate cose. Sorgevano a Montebello i costumi, e le abitudini regie: ivi le udienze altiere da una parte, umili dall'altra; ivi le adulazioni smoderate, ed il silenzio rispettoso, non interrotto che dalle interrogazioni; ivi le sorelle del vincitore corteggiate a modo di corte, ivi i ministri dei principi esteri, e quei della Cisalpina accolti alla reale. Certamente null'altro mancava di re che il nome, e questo nome stesso veniva naturalmente sulle labbra dei cortigiani, ma vi periva per amore o per timore, ma piuttosto per timore, che per amore della repubblica. A chi era uso a scrutare le umane vicende, appariva manifestamente, essere in Buonaparte natura a volere, e ad usare l'imperio, nè ciò con leggi, ma sopra le leggi, non come cittadino, ma come padrone: il fato il fece per l'età, e l'età per lui.
Frattanto le promesse segrete, ch'egli aveva fatte, e la necessità, in cui si trovava il direttorio di rammollire con un solenne fatto i risentimenti nati in Francia per la terribile rivoluzione dei quattro settembre, operavano di modo che, rimosse da ambe le parti tutte le durezze, si veniva il giorno diciassette ottobre alla conclusione nella villa di Campoformio, di un trattato di pace, in cui un governo nuovo distruggeva un governo antico, ed un governo antico consentiva, e s'arricchiva delle spoglie di un governo antico ed amico, disonoratosi l'uno per aver rapito, poco onoratosi l'altro per aver accettato le rapine, se però non iscusano quest'ultimo le affermazioni magnifiche del primo dell'averlo ridotto alla necessità di accettar la pace, qualunque ella fosse. Oltre a ciò lasciava l'Austria in libera preda della repubblica Francese, non dirò il Piemonte, perchè forse ella se ne teneva male soddisfatta per la stretta congiunzione di lui con la Francia dopo la tregua di Cherasco, e la pace di Parigi, ma bensì il papa, ed il re di Napoli, che in nessun modo l'avevano offesa, e che anzi si trovavano condotti in dure strette, ed in gravissimo pericolo per avere sino agli estremi seguitato la sua parte. Certamente nissuna sicurezza stipulava l'Austria nel trattato nè pel papa, nè per Napoli. Fu il trattato di Campoformio principio di quelle brutte e crudeli stipulazioni, che desolarono poi per circa vent'anni la miseranda Europa con l'esempio di sommuovere prima i popoli, poi di dargli in preda ad insolite signorìe.
Fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica Francese si avesse i Paesi Bassi, che l'imperatore consentisse, che le isole Venete dell'Arcipelago, e dell'Ionio, e così ancora tutte le possessioni della Veneta repubblica in Albanìa, cadessero in potestà della Francia; che la repubblica Francese consentisse, che l'imperatore possedesse con piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole Venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, e tutti i paesi situati fra i suoi stati ereditarj, ed il mezzo del lago di Garda, poi la sinistra sponda dell'Adige insino a Porto-Legnago, e finalmente la sinistra sponda del Po; che la repubblica Cisalpina comprendesse la Lombardia Austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la città e fortezza di Mantova, Peschiera, e tutta la parte degli stati Veneti, che è posta a ponente e ad ostro dei confini sovra descritti; che si desse nella Brisgovia un conveniente ricompenso al duca di Modena; che finalmente i plenipotenziarj di Francia e d'Austria convenissero in Rastadt per accordare gl'interessi dell'imperio d'Alemagna.
A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza, pei quali l'imperatore consentiva, che la Francia acquistasse certi territorj Germanici insino al Reno, e dalla parte sua prometteva la Francia di adoperarsi, acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominj una parte del circolo di Baviera; il che non si poteva effettuare se non con pregiudizio del duca.
Fu il trattato di Campoformio pieno di rapina, ma non fu meno pieno di scherno, ancor peggiore della rapina; conciossiachè di che sappiano quelle parole, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore possedesse Venezia, vedranlo non senza sdegno coloro, che considereranno, se sarebbe stato possibile ai Veneziani di non diventar imperiali, e se la Francia avrebbe permesso, che imperiali non diventassero, e se i generali, ed i soldati di Buonaparte abbiano, sì o no, consegnato eglino medesimi con le proprie mani la compassionevole Venezia nuda ed inerme, ai generali ed ai soldati dell'imperatore. Questo essere e non voler parere, parrà a tutti, come pare a me, un pudore molto ipocrito.
Pure questa è quella pace, di cui favellando Carlo Maurizio Talleyrand, tutto ammirativo sclamava: questa è una pace da Buonaparte; il che gli sarà da ognuno facilmente conceduto. Poi non potendo Talleyrand medesimo capire in se stesso per l'ammirazione, per l'amicizia, pel rispetto, per la riconoscenza, come diceva, verso Buonaparte, e se qualche altra più efficace cosa possono significare le più ammirative parole, scriveva: forse avremo qualche improntitudine d'Italiani, ma è tuttuno; brutto, incivile, e crudele scherno! Certamente coloro, cui Buonaparte tradiva, e Talleyrand scherniva, erano, i più, uomini ricchi di nome, di sostanze, e di virtù, i quali cedendo agli stimoli, e credendo alle promesse degli agenti di Francia, s'erano in tal condizione posti, che nella patria loro spenta non potevano più dimorare senza pericolo, e nel duro esilio trovavano gl'insulti di chi era cagione del loro infortunio. Parlare poi con tanta leggerezza di un caso di tanto momento, quale si era quello della distruzione di uno stato così antico, così principale, ed a cui l'Europa era obbligata di gran parte della sua civiltà, e della sua preservazione dalla barbarie Ottomana, qual era veramente quel di Venezia, dimostra una totale indifferenza verso il bello ed il brutto, il buono ed il cattivo, il decente e l'indecente.
Fatto il trattato di Campoformio, ed ordinata a suo modo la Cisalpina, se ne partiva Buonaparte dall'Italia per andare a Rastadt. Quale, e quanto da quella diversa la lasciasse, che nel suo primo ingresso l'aveva trovata, facilmente concepirà colui, che nella mente andrà riandando i compassionevoli casi nei precedenti libri da noi raccontati. Le difese dell'Alpi prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora servo; una repubblica di Genova, prima independente per istato, ricca per commercio, ora disfatto, ed in licenza convertito l'antichissimo governo, fatta provincia, e sensale di Francia; un duca di Parma ingannato dalle speranze di Spagna, e taglieggiato da agenti oscurissimi: un duca di Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa schernito, e spogliato; un regno di Napoli poco sicuro, e per poca sicurezza crudo; un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del mondo, e gran parte della civiltà moderna, condotta all'ultima fine, prima dagl'inganni, poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di Firmian cambiato in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri, tributario di governo forestiero, e là, dove una volta addottrinavano le genti con dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria, ed i Verri, farla da maestri i Beauvinais, ed i Prelli. A questo le opere di Tiziano e di Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze deformi di soldati strani; una lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti gl'ingegni volti all'adulazione, le ambizioni svegliate, le virtù schernite, i vizi lodati, e per arrota, il che fu il pessimo dei mali, uomini virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per forza o per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage dei tempi. In tanto male nissun lume di bene; perchè nè quei governi potevano durare, nè a quali governi avessero a dar luogo si vedeva, perchè i fondamenti privati erano corrotti, i fondamenti pubblici forestieri, e se fosse mancata o la mano Francese, o la mano Tedesca, nissuno poteva congetturare, che cosa fosse per sorgere, di modo che non si scorgeva, se la independenza non fosse per diventare condizione peggiore della servitù. A tal era condotta l'Italia, che lo stare per se senza anarchìa, lo stare coi forestieri senza servitù non poteva. Così corrotte le speranze, e cambiati i tempi, erano succeduti ai benefizj di Giuseppe, di Leopoldo, di Beccaria, e di Filangieri una rapina incredibile, una tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un dolore acerbissimo di vedere, forse per sempre, allontanato quel bene, che essi avevano tanto vicino, e tanto soave alle menti nostre rappresentato. In somma fu la bella Italia contaminata, e peggio, che chi le faceva le membra rotte, e sanguinose, le lacerava anche la fama. In somma la giustizia e l'innocenza non son più buone ad altro, in questo pazzo ed ingannatore mondo, che a farsi soperchiare dai più potenti, e chi non ha montagne di cannoni, di sciabole, e di soldati, s'aspetti ad essere oppresso, rubato, e calunniato. Con le sue belle parole sepolcro imbianchito è la vecchia Europa.
Restava, che le stipulazioni di Campoformio circa Venezia si recassero ad effetto. Ma prima di raccontare la gran consegna fatta di quella nobil sede dai repubblicani di Francia ad un principe Alemanno, sarà bene andar rammemorando, quali accidenti, quali umori, quali disegni sorgessero nelle varie parti dell'antico stato Veneto, e nella metropoli stessa, innanzichè i patti di Campoformio si pubblicassero, e dappoichè, spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto il nuovo, al quale non so qual nome dare, se non quello di tirannico e di servo. Non così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi fra di loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano alle parti, chi seguitando i modi dei democrati Francesi più ardenti ai tempi della rivoluzione, e chi accostandosi a pensieri più miti e più temperati. Capi ai primi erano Giuliani e Dandolo. Sovrastavano fra i secondi per ricchezze, e per carità patria Vidiman e Joblovitz: quelli si chiamavano da alcuni veri patriotti, da altri giacobini; i secondi presso alcuni avevano nome di veri amatori della libertà, presso altri aristocrati. Giuliani e Dandolo, massimamente il primo, continuamente spingevano il magistrato a determinazioni rigorose contro i nobili. Giuliani più rottamente procedendo non risparmiava nemmeno i Francesi, verso i quali non mostrava mai adulazione di sorte alcuna, mentre Dandolo andava loro a versi, e gli accarezzava. Il buono e virtuoso Vidiman, lontano del pari dall'adulazione verso i forestieri, che dalla persecuzione contro i compatriotti, mirava solamente al giusto ed all'onesto. Seguitavano queste parti i Veneziani, pochi con Giuliani e Dandolo consentendo, molti, fra i quali i nobili, per lo minor male si accostavano a Vidiman ed a Joblovitz. Sedevano i municipali pubblicamente nella sala del gran consiglio, dove le discussioni, e le contese erano grandi tra l'una parte e l'altra, e trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione. Così Venezia anche posta al giogo forestiero parteggiava; tutti però in questo consentivano, ch'ella intiera si conservasse. A questo fine si rendeva necessario, che le provincie di terraferma, e quelle dell'oltremare non si separassero dall'antica madre; e perciò, come prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano delegati, e lettere a tutte le città del dominio Veneto, dando loro parte della felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia, ed invitandole ad accomunarsi, ed incorporarsi con esso lei. Ma i patriotti della terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime mire, che si attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna, e dominatrice avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Pei maneggi loro le città protestavano, questa di voler andar unita alla Cisalpina, quella di voler restare da se. E stantechè Venezia aveva conservato, sebbene nel libro aperto dell'Evangelista avesse fatto scrivere i diritti dell'uomo, l'antico stemma del lione, gl'insulti, gli scherni, le esecrazioni della gente matta democratica della terraferma andavano all'infinito. Insomma una nimistà generale, piuttostochè desiderio di unione, prevaleva in tutta la terraferma contro Venezia. Godeva Buonaparte, godevanne i suoi agenti, perchè vedevano nella discordia altrui la più facile esecuzione dei pensieri loro contro quelle miserande reliquie della repubblica Veneziana; anzi quelle faville con ogni mezzo fomentavano. Perchè poi gli odj già tanto intensi vieppiù s'invelenissero, gli rinfiammavano non solo colle parole, ma ancora con gli scritti. Victor generale, che aveva le sue stanze in Padova, esortava con lettere pubbliche, e con parole molto veementi i municipali di questa città a far atterrare le insegne di San Marco, ed a diffidarsi dei municipali di Venezia, a cui attribuiva intenzioni molto sinistre, accusandogli di trame aristocratiche.
I democrati, massime un Savonarola, che procedeva con più calore degli altri, facevano quello, e più di quello, a che gli aveva esortati Victor, tutte le immagini di San Marco col leone, avessero o no fra le rampe i diritti dell'uomo, sdegnosamente mandando in pezzi, e con questo si andavano persuadendo di aver acquistato la libertà. Nè a frenare un furore tanto pazzo bastavano le risoluzioni dei municipali Veneziani, i quali decretavano, che si cambiasse del tutto l'antico stemma della repubblica, il leone si annullasse, e le insegne della moderna libertà in luogo suo vi campeggiassero. Avevano queste condiscendenze l'effetto solito di quelle, che sogliono farsi per forza, e negli estremi casi; che pruovando nel conceditore più debolezza che volontà, non sono mai prese a grado, e l'autorità di lui fanno andar in diminuzione. Ma appoco appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia, si lacerava senza posa il suo nome nelle gazzette Cisalpine; anzi i Padovani trascorrevano tant'oltre, che si consigliarono di voler torre ai Veneziani l'uso delle acque dolci dei loro territorj, cosa, che solo contro ad un nemico, e forse nemmeno contro a chi fosse nemico in guerra, non si sarebbe usata.
Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani e del Dandolo, di riputazione; ma ancor più di potenza, essendole occupati o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di amicizia i suoi dominj verso levante. Marciava l'Alemanno da Trieste per virtù dei patti segreti di Leoben, e degli accordi oramai fatti, e che in formale trattato si stipularono poscia in Campoformio, ad occupare le Venete province dell'Istria e della Dalmazia. Ordinava sul principiar di giugno il Terzi, generalissimo dell'Austria interiore, al generale Klenau, occupasse nell'Istria Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Ossero, e Rovigno; al colonnello Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa di Trieste, presidiasse tutti i luoghi d'importanza del littorale Istriaco, e di più delle vicine isole di Veglia, Cherso, Arbo, e Pago s'impadronisse. Ad ambidue veniva di leggieri fatta l'occupazione, perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non si erano potuti accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome Veneziano, si piegavano facilmente all'obbedienza Austriaca, perchè l'imperio Francese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro, stimavano odioso. Parlarono con pubblici bandi i commissarj imperiali della bontà di Francesco imperatore, dell'obbligo suo di preservar i suoi stati da moti insoliti, del suo desiderio di allontanar dall'Istria l'inquieto vivere dell'anarchìa. Proteggerebbe i quieti, punirebbe gli scandalosi, manterrebbe a tutti le persone, e le proprietà sicure.
Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi per antica consuetudine al nome Francese, e dalle nuove opinioni per lontananza, e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni, e le ruine d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno recente. A questo si aggiungeva, che i soldati della loro nazione, che in Verona, ed in Venezia, ed in altre piazze Venete erano stati di presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che verso di loro avevano usato i repubblicani troppo intemperanti nella vittoria. Udite poi le Veneziane cose, e come e quanto i municipali di Venezia trascorressero nelle opinioni, e nei costumi nuovi, si erano concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente, che non avrebbero più comportato, che s'ingerissero nelle loro faccende. Già minacce annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi furono i villani, ed i montanari di Trauno e di Sebenico, i quali, scesi a furia, commettevano atti di un'estrema barbarie. Quei, che fungeva le veci di console di Francia, quantunque fosse Dalmata, era crudelmente ucciso, e con lui tutta la sua famiglia. Le case di un Calafatti e di un Gavagnini, deputati eletti dai municipali di Venezia ad ordinare a modo nuovo la Dalmazia, erano saccheggiate; i parenti dei delegati perseguitati, e parte uccisi. Nè più si guardava a nobili, o a preti, od a soldati, che ad altri, perchè solo che fossero in voce di essere aderenti ai Francesi, erano ammazzati. La mala usanza si propagava dal continente nelle isole vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di ferite, di uccisioni, e di sangue. Nè poteva frenare il corso di tanta barbarie Querini governatore, per l'antica Venezia, della provincia, quantunque molto vi fosse amato, perchè più poteva il furore, che le esortazioni, ed i suoi soldati, non che fossero stromenti del dominare, s'erano fatti compagni al popolo per conculcare. Partivano da Trieste e da Fiume alla volta di Zara quattromila soldati imperiali condotti da Roccavina, Lusignano e Casimiro. Trattenevano i venti per qualche tempo Roccavina, ma Casimiro con prospera navigazione arrivava a Zara sul finire di giugno, poi sul cominciar di luglio s'accostava a lui con le altre genti di Roccavina. Accettavano lietamente i Zaratini gli Austriaci, parte per opinione, parte per sicurtà contro l'anarchìa. S'impadronivano gl'imperiali dei forti, abbassavano le bandiere Venete, inalberavano le proprie. Prometteva l'imperatore con pubblico bando pace, e sicurtà a tutti, minacciava i turbolenti, affermava, venire per ispegnere l'anarchìa, e per mettere in sicuro gli antichi ed irrefragabili suoi diritti sopra la provincia. Giuravano fede all'imperatore tutti i magistrati, e circa due mila soldati Veneti, che si trovavano in quella fortezza per presidio. Quivi si vedeva uno spettacolo generoso e lagrimevole; poichè allorquando si venne all'atto del consegnarsi dai soldati il vessillo di San Marco in mano del generale Austriaco, prorompevano in dirotto pianto: a loro rispondevano con altrettante lagrime i circostanti. Alcuni furono visti in quell'estremo atto baciarlo, ed abbracciarlo sospirosamente più volte; i Panduri, fra gli altri, gente creduta barbara, davano tanti segni di dolore e di disperazione, come trovo scritto, che i capitani Austriaci concedevano loro di poter continuare nell'uso antico di portarsi i Veneziani vessilli. Per tal modo, mentre uomini civili ed ammaestrati con gentili dottrine, la patria loro non solo adducevano in forestiera servitù, ma ancora nell'estremo suo caso con improperj più che barbari schernivano, uomini idioti e da nissuna civile disciplina informati, la patria stessa infelice e spenta, con dolore e con lagrime proseguivano.
Spento a Zara il governo Veneto, restava, che nella rimanente provincia si annullasse. A questo fine partitosene per la via di terra Casimiro, occupava Spalatro, Clissa, e Singo. Roccavina per quella di mare entrava in Sebenico, dove era accolto con molta allegrezza, perchè la ferocia dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove infuriato, e ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva quindi dai monti con una mano di Ungari e di Transilvani il conte di Warstensleben, e si univa col Roccavina. Allora gl'imperiali, fatti più forti, e condotti da Roccavina medesimo si avviavano a farsi signori dei siti importantissimi delle Bocche di Cattaro, stati anche ceduti da Buonaparte a nome della Francia. S'accomodavano quietamente i Bocchesi, non però senza dimostrazioni di vivo desiderio dell'antico governo, alle nuove sorti. La Dalmazia tutta, e l'Albania Veneta entravano sotto il dominio dell'imperatore, importante accessione a' suoi stati per l'opportunità dei porti, per l'abbondanza del commercio, per l'indole bellicosa degli abitatori, e finalmente per la perizia loro nelle faccende di mare. Solo Perasto, Risano, e Geganowich, comuni dei Bocchesi, facevano qualche resistenza, ma sopraffatti dalla superiorità Austriaca cedevano, e si sottomettevano. A questo modo si andava sfasciando appoco appoco, e con universale ruina, l'antichissimo imperio dei Veneziani.
A novità di tanto momento, quale si era la occupazione delle provincie del Levante, si risentivano i municipali di Venezia, e facevano instanze presso a Buonaparte, e al direttorio per sapere che cosa volesse significare, e domandando, che la Francia intercedesse, perchè l'antico dominio si restituisse; il che a chi fosse contar le sue ragioni, il lettore potrà da se stesso indovinare. Querelavasene con Buonaparte Battaglia, imperciocchè è da sapersi, che quest'antico provveditore di Brescia era stato chiamato con la solita superiorità da Buonaparte ai municipali Veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse quale ministro loro. Della missione di questo nobile Veneziano al generalissimo ne facevano molti stridori i municipali Dandolo e Giuliani; ma il generale era più forte di loro, e voleva quel che voleva. Querelavasi anche gravemente della Dalmata rapina San Fermo mandato dai municipali, anche per opera di Buonaparte, a sedere presso il direttorio a Parigi. Ne ottenevano entrambi buone parole: non dubitassero, o che la Francia sforzerebbe con le armi l'Austria a rilasciare le provincie occupate, o procurerebbe coi trattati, che Venezia con nuove possessioni si compensasse, ora dando speranza, che i paesi della terraferma, anche quei d'oltre Mincio, le si restituirebbero, ed ora che le sarebbero date in compenso le legazioni. A comprendere quale nuova spezie di lealtà fosse questa, avrà bastato il raccontarla; conciossiachè a Montebello già si fosse convenuto il dì ventisei di maggio coi plenipotenziari imperiali Buonaparte di dar Venezia all'imperatore; al che aveva consentito il direttorio il dì tre di giugno. Intanto Battaglia e San Fermo scrivevano buone nuove, ed i municipali se le credevano, o facevano vista di crederle, e ne dimostravano grandi allegrezze.
Era necessario, a volere che si spianasse la strada alla esecuzione dei patti di Campoformio, già prima che fossero fermati in debita forma, che le isole del Levante Veneto venissero in potestà dei Francesi. Per la qual cosa Buonaparte aveva operato, che con accordo dei municipali si facesse una spedizione di forze navali e terrestri a Corfù, isola per la grandezza e per la fortezza molto principale in quelle spiagge; e perchè una forza preponderante vi fosse, ed anche perchè vi erano fornimenti di marinerìa di molta importanza, aveva, per mezzo del direttorio, dato ordine, che al tempo medesimo da Tolone l'ammiraglio Brueys si avviasse all'isola stessa con la sua armata. Erano a quei tempi le isole del Levante Veneto rette con dolce e giusto freno dal nobile Vidiman, fratello del municipale, e come egli, di vera e più che ordinaria carità fornito verso la Veneziana patria: uomo certamente per virtù cittadina molto singolare; umano con gli avversi, dolce con gli amici, giusto con tutti, ritraeva il suo procedere più dell'antico, che del moderno, ed aveva con tanta efficacia, e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo buon naturale operato, che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e mobili, malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da Italia, fermamente si conservassero affezionate al nome Veneziano. Quando poi i tempi già tanto stretti andavano per Venezia a cagione della presenza dei repubblicani negli stati di terraferma, prima però che l'antico governo fosse annullato, penuriando l'erario di denaro, nè potendo supplire alle spese sì civili che militari delle isole, offeriva, e dava Vidiman del suo alla repubblica, oltre tutto il suo vasellame d'argento, otto mila ducati Veneti, del che gli rendeva il senato pubbliche e solenni grazie. Nè questi bastando al grosso dispendio soldava a benefizio del pubblico con privato obbligo altri quaranta mila ducati, e con questi si andava sostentando in quei tempi difficili lo stato delle isole. Quando poi incominciavano ad arrivare a Corfù i romori del cambiamento succeduto a Venezia, ancorchè grandissima molestia ne ricevesse, siccome quegli che per opinione e per consuetudine era dedito all'antica repubblica, nondimeno pensando, che se era perduto lo stato vecchio, gli rimaneva, se non una patria, almeno un paese, al quale era suo debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo di calmare gli spiriti, per fargli perseverare nella loro fede ed affezione verso Venezia, qualunque avesse ad essere il suo destino. Nel che faceva grandissimo frutto a cagione dell'amore, che generalmente gli era portato.
Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi distrutta l'aristocrazìa, ed allargato il governo alla democrazìa. Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti; ma che intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era creato nei municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli abitatori delle isole, e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli; manderebbero due commissari per metter all'ordine il nuovo stato; Vidiman sarebbe il terzo; verrebbero con una forte armata, e con sei mila soldati. Tacevano se i soldati avessero ad essere Veneziani, o Francesi. Preparasse adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza sua gli animi; spiasse bene, e raffrenasse coloro che fossero di genio aristocratico; usasse a quiete di tutti l'opera delle persone prudenti e religiose di ogni rito; sopratutto impedisse, che gli uomini inquieti e torbidi prorompessero in qualche discordia o tumulto: in lui riposarsi, terminavano, con animo tranquillo i municipali, ed intieramente rimettersi nella fermezza, nell'avvedutezza, nella temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne e tanto terminativo accidente di quanto egli aveva di più caro e più onorato su questa terra, adunava Vidiman i primari magistrati sì civili che militari, e leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla sopportazione ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma mostrarono rassegnazione, ignari ancora a che cosa gli serbassero i fati.
Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchj necessari per la spedizione di Levante. Il fondamento era da parte del direttorio di spirar tanta confidenza ai municipali, che credessero, mandarsi le forze Francesi per mantener quelle possessioni nella divozione di Venezia, e per riacquistar anche, ove fosse venuto il tempo proprio, la Dalmazia: con queste coperte intendevano Buonaparte e il direttorio al far uscire da Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte dell'armata Veneziana, che sull'ancore se ne stava nel porto. Perlocchè si appresentava Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali Francesi da mare, che dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai municipali, con parole meliflue protestando dell'amicizia del direttorio, chiamando la repubblica col suo nuovo governo sorella, e promettendo, che tutte le forze Francesi si adoprerebbero, perchè ella fosse restituita all'antica sua grandezza. Qui lascio, che gli storici Buonapartiani lodino a posta loro, e saria bene, che ci spiegassero, quale offesa da questo momento in poi abbia fatto Venezia a Francia, perchè meditasse di essere spenta, e data in preda all'imperatore. Si destinava a governar le genti da terra il generale Gentili. Obbediva l'armata al capitano di nave Bourdè, uomo assai perito, e non di pensieri immoderati, e molto amato da Buonaparte. Consisteva l'armata in due navi di fila Venete, due fregate pure Venete, e due brigantini Francesi. Molte navi atte a trasportar soldati l'accompagnavano; furono empiute di Francesi, la maggior parte della settuagesima nona, soldati tanto valorosi, quanto bene disciplinati, e che modestamente portandosi in Corfù temperarono in favor del nome Francese l'acerbità del dominio forestiero. Volle Buonaparte, poichè si trattava di andar in Grecia, che s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, il quale venuto in Italia per veder il paese, ed esaminare quelle rivoluzioni, dopo di essersi qualche tempo dimorato in Venezia, era divenuto vago di visitare la Grecia. In lui aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli. Ancora, se discoprisse qualche cosa di gentile e di vago, o quadro fosse, o statua, o manoscritto, sì l'indicasse acciò se lo potesse rapire.
Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù per la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con se denaro per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli amministratori, che mandavano nelle isole, seimila zecchini.
Appariva il dì ventotto giugno nel porto dei Corfiotti l'armata apportatrice dei soldati stranieri. Vidiman, e gl'Isolani molto si maravigliarono al vedere insegne ed uomini Francesi, in luogo d'insegne e d'uomini Veneziani: pareva loro, che altro suonassero le parole, ed altro i fatti, nè sapevano intendere un caso tanto strano. Gentili scriveva dalla nave capitana a Vidiman, essere venuto, a ciò richiesto dai municipali di Venezia, a rinforzar le guernigioni, ad assicurare Corfù e le altre isole del levante, a trattare con esso lui delle cose risguardanti la sicurezza e la quiete dello stato. Il ricercava intanto, preparasse in fortezza gli alloggiamenti pe' suoi soldati, quelle Greche isole per la prima volta venivano in possessione di Francia.