Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 14
Suonavano a festa il dì ventinove di giugno gli stromenti da guerra; i nuovi repubblicani sbarcavano. Quegli uomini Greci si maravigliavano in veder quegli uomini nuovi, e tanto guerrieri. Venivano i magistrati a far riverenza agl'insoliti signori. Il vescovo Greco, (che la maggior parte di quegl'isolani sono di questo rito), in cotal guisa parlava a Gentili: «Francesi, voi trovate in quest'isola un popolo ignorante delle scienze e delle arti, che illustrano le nazioni; ma non l'abbiate per questo a vile: egli può tornare qual fu un tempo; apprendete, e ciò dicendo sporgeva la Odissea, apprendete da questo libro, disse, in qual conto voi dobbiate tenerlo».
Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua volontà qualunque cosa ei volesse. Poi non da alleato, ma da padrone procedendo, s'impadroniva dei magazzini del pubblico, e di tutte le artiglierìe, che erano belle, ed in numero considerabile. Meglio di cinquecento cannoni, la maggior parte di bronzo, venti obici, petrai, e mortaj o di bronzo o di ferro centoventuno, cinquanta migliaja di polvere, venti casse di fucili, palle e bombe in proporzione, ricchissima preda.
A Gentili succedeva Bourdè, che poneva le mani addosso ai magazzini di mare, ed a sei navi di fila, e tre fregate Veneziane, due buone, il Volcano, e la Fama, le altre in cattivo arnese. Gentili intanto i seimila zecchini mandati da Venezia per soccorre alle cose Veneziane nelle isole, recava in suo potere per dar le paghe a' suoi soldati, ed agli amministratori venuti con lui.
Posto il piede, e confermato il dominio Francese nell'isola principale di Corfù, mandavano Gentili e Bourdè forze di terra e da mare, a prender possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo, che fu l'antica Citera, certo molto difforme dallo stato antico, perchè poco altro ella è ora, che uno scoglio arido e deserto. Poi Gentili ed Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primari abitanti, creavano i municipali di Corfù, fra i quali per un'arte, che sa piuttosto di derisione, e già l'avevano usata col doge di Venezia, nominavano Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità. Così con disfare ogni vestigio di governo Veneto, con divertire ad uso dei soldati Francesi la pecunia pubblica, con torre a Venezia quanto aveva nelle isole di ricchezza e di forza, pretendevano gli agenti del direttorio e di Buonaparte di conservarle quelle possessioni. A questo modo ancora si eseguivano i comandamenti di Buonaparte, il quale scrivendo a Bourdè nel mese di giugno, gli ordinava, si appresentasse con Baraguey d'Hilliers, e col ministro di Francia ai municipali di Venezia, e loro dicesse, che la conformità dei principj che a quei dì reggevano la repubblica Francese e quella di Venezia, e la mano forte, che la prima dava alla seconda, richiedevano, che prontamente le forze marittime di Venezia si allestissero, perchè di concerto le due repubbliche si potessero mantener in possessione dell'Adriatico, e dell'isole del Levante, e tutelassero il loro comercio; e che già a questo fine egli aveva mandato genti per assicurare alla repubblica Veneziana la possessione di Corfù. Gli avvertisse finalmente, che quello era il tempo di mettere in pronto, e di armare virilmente il navilio Veneziano. Queste ed altre simili cose voleva Buonaparte, che Bourdè accompagnato da solenne apparato dicesse. Le quali chi mi leggerà, considerando, e così ancora le stipulazioni di Montebello del ventisei di maggio di sopra da noi accennate, verrà facilmente a conoscere qual fraude fosse questa di gettare in quel tempo parole di conservazione per Venezia. Ma la fraude era doppia, perchè al momento stesso comandava a Bourdè, che con questo pretesto, e con procurare tuttavia di vivere in buon accordo, s'impadronisse di ogni cosa, e tirasse ai servigi di Francia i marinari, e gl'impiegati della marinerìa Veneziana. Imponeva finalmente al medesimo Bourdè, che mettesse in pronto tutte le navi Veneziane sì grosse che sottili, e le incorporasse all'armata Francese, e mandasse a Tolone ogni qualunque provvisione Veneta. Così Venezia era rapita in Venezia medesima, in terraferma Italiana e Slava, e nelle isole sì dell'Adriatico, che dell'Ionio e dell'Egeo.
Stabilitasi nel modo raccontato la dominazione Francese in Corfù, vi nascevano più vive, che mai vi fossero state, le parti; perchè alcuni fomentavano lo stato nuovo, altri si conservavano addetti al vecchio. Capi dei primi erano i Teotochi, massimamente il vecchio, personaggio venerabile per l'età e per le virtù, e di molto seguito nell'isola; capo ai secondi si mostrava l'avvocato Scordilli, uomo ancor esso risplendente per virtù e per ingegno. E siccome gli odj nelle isole sono molto gravi, così gli aderenti di una parte non risparmiavano nissuna parola, che fosse ingiuriosa contro la parte avversaria. Sarebbero anche molto volentieri venuti ai fatti, se la forza Francese preponderante non gli avesse raffrenati.
Intanto Gentili, recatasi la somma delle cose in mano, continuava, quantunque fosse assai cagionevole della persona, a starsene a Corfù; Bourdè se ne tornava con le sue navi a Venezia. Arnauld, visto che non poteva eseguire il mandato di Buonaparte dell'indicar gli spogli delle chiese, dei musei e delle librerìe pubbliche, perchè statue, quadri, manoscritti preziosi non ve n'erano, visitati, come scriveva, i giardini di Alcinoo, e la pietra lavandaja di Nausicae, chiamati i Corfiotti superstiziosi, ignoranti e vili, ed i Greci ladri, perfidi ed inospitali, eccettuando solamente i Mainotti, forse perchè sapeva che Buonaparte gli accarezzava, scritto finalmente che la libertà aveva solo settatori fra il popolo tiranno, cioè fra i Turchi, se ne partiva per l'Italia per andarsene a visitare la tomba di Virgilio. Così Arnauld giudicò i Greci nè amatori, nè degni di libertà: solo aveva per la libertà qualche speranza nei Turchi.
Con magistrati temporanei si governavano le cose in Corfù fino alla pace di Campoformio. Poi vi fu mandato da Buonaparte un Corbigny, che ordinava le isole a modo di Francia, partendole in tre spartimenti, dei quali quello di Corfù chiamava di Corcira, quello di Cefalonia, d'Itaca, e quello di Zante, del mar Egeo. Alla presa del magistrato orava in piazza il Teotochi, presidente eletto del magistrato distrettuale, con qualche veemenza sulle cose nuove. L'emolo Scordilli lo chiamava vecchio pazzo.
La presenza dei Francesi in Corfù vi partoriva due effetti molto notabili. Il primo fu, che i Corfiotti non si ammazzavano più fra di loro, come eran soliti fare quasi ogni giorno innanzi che i Francesi vi arrivassero, il secondo, che i soldati Francesi, temperatamente portandosi, si accomunavano con gl'isolani, e cambiavano in affezione l'odio, che prima avevano contro il nome Francese. Imparavano i Corfiotti l'industria, e le singolari arti; si facevano maritaggi, mezzo sempre d'intimo congiungimento fra le nazioni; ed io ho veduto, ed udito un soldato Francese, già imparata la lingua del paese, orare, non senza facondia, in greco volgare in cospetto dei tribunali contro la sua moglie greca, donna bellissima, che si voleva separare da lui per divorzio: vinceva, e serbavasi con molta contentezza la donna. In tale mansueta forma si viveva in Corfù con utile degl'isolani, finchè vi venne Sordina, municipale di Venezia, a metter su i ritrovi politici, e ad orare, ed a far romore in tribuna; il che accrebbe i risentimenti, e rinvigoriva gli odj, perchè la gente savia vedeva in quei ritrovi le consuetudini tumultuarie e sanguinose di Francia, quantunque vi favellasse spesso, ed a buon fine, e con parole temperate un generale Francese per nome Villelongue, uomo tanto dotto ed eloquente, quanto gentile ed onesto.
Venezia già serva di Francia era destinata a divenir fra breve serva d'Austria. Ma prima che raccontiamo il compimento delle macchinazioni ordite, è per noi necessario narrare quanto antecedentemente in essa sia accaduto. Dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da se, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa Pisani con fasto grande, e con carico gravissimo di quella famiglia; i municipali non deliberavano, se non sentito lui; i posti principali erano custoditi dai Francesi; i municipali, chi per forza, chi per prudenza, chi per adulazione servivano a Baraguey. Villetard, siccome giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si vedeva. Ne sentiva egli dolore grandissimo, perchè ed amava la libertà, e camminava in quelle bisogne con animo sincero. S'incominciava a dar mano agli spogli delle opere gentili insino a tanto che arrivasse tempo al toccare le più utili. Quanto di più bello e di più prezioso avevano prodotto gli scarpelli, od i pennelli, o le penne greche, latine ed italiane, era rapito dagli strani amici. Le gallerìe, le librerìe, i tempj, i musei sì pubblici che privati diligentemente si scrutavano, e violentemente si sfioravano. A questo modo nove chiese in Venezia, una in Verona, parecchie in altri luoghi della terraferma restarono stampate dei vestigj della cupidità forestiera.
Il palazzo pubblico di Venezia, massimamente in quelle stanze stesse, dove con tanta prudenza, e per tanti secoli dei negozj attinenti alla patria avevano deliberato i padri, e dove allora i municipali vantavano la libertà di Venezia, e la generosità del vincitore, fu dei più preziosi ornamenti espilato. Con pari rabbia fu la gallerìa privata dei nobili Bevilacqua in Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere di Bassano, di Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone, di Bellini, di Mantegna tanto care ai Veneziani e per bellezza propria, e per essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne andavano ad ornare forestieri, e lontani lidi. Mani Italiane furono costrette dalla forza ad ajutare lo spoglio d'Italia. Molte statue e bassi rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio, e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla librerìa pubblica di Venezia, e della gallerìa Bevilacqua. Nè i camei, opere preziose, si risparmiavano; e fra di loro quello tanto famoso, che rappresentava Giove Egeo. Sessantanove medaglie greche o romane, parte in argento, parte in bronzo erano levate dai privati musei dei Muselli, e dei Verità di Verona. Dei manoscritti con grandissimo dolore degl'Italiani dalla sola libreria di Venezia più di duecento greci, o latini, o italiani, o arabi, o in carta pergamena, o in carta usuale, o in carta di seta saziavano le voglie dei repubblicani d'oltremonti. Pregiavano principalmente i Veneziani due manoscritti arabi in carta di seta, perchè dati in dono dal cardinal Bessarione alla repubblica, e questi ancora piansero e desiderarono, in forestiera terra trasportati. Sentivano la comune spogliagione le librerìe pregiatissime dei monasteri di Venezia, di Treviso, e di San Daniele in Friuli, dai quali atti delle mani vincitrici mancarono settantasei testi a penna preziosissimi, fra i quali otto anteriori al secolo decimoterzo. Alle medesime espilazioni andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la Magontina nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosìa si custodivano nelle librerìe di Venezia, Treviso, Padova, Verona e San Daniele. I carri e le barche Veneziane erano piene di Veneziane spoglie. Queste preziosità erano state tolte dalle interiori mura dei tempj, dei musei, e delle librerìe. Restava il più bello e più glorioso segno della grandezza Veneziana, che sull'anteriore faccia del principal tempio di Venezia dimostrava, quale fosse stato anticamente il valore di quella generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come si narra, di Lisippo, dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re d'Armenia, poi trasportati da Costantino a Bisanzio, e conquistati finalmente pel valore dei Veneziani congiunti ai Francesi, che ebbero in sorte altre Costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal doge Pietro Zani, accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico della gente Veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld, che questi cavalli restassero a Venezia: spiacevagli altresì, che i leoni conquistati dal valore del Morosini nel Pireo, continuassero a starsene nella sede loro, segni della Veneziana gloria. Ne gli spiacque, e ne scrisse a Buonaparte. Cavalli, e leoni furono per suo comandamento condotti in Francia. Il che venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto dolore loro, che, instupidite le menti, parevano piuttosto attonite che dolorose. Come queste cose Arnauld, che faceva professione di amare la libertà e l'independenza della sua patria, suggerisse a Buonaparte, io non ne posso restar capace, perchè a me pare, che nissuno possa sinceramente amare la libertà e la indipendenza della propria patria, se non porta rispetto alla libertà ed all'independenza delle patrie altrui. So, che alcuni dicevano, e tuttavia dicono, che questi spogli si eseguivano in virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva voluto ratificare questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver per nullo. Che se poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo di eseguirlo certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue peggiori condizioni contro Venezia, e di non osservar quelle che erano in suo favore, massimamente la sua conservazione, condizione che era pure la più principale, anzi la sostanziale del trattato, perciocchè non si possono stipular trattati con una potenza, che si crede nulla, nè accordare condizioni di futura esecuzione con una potenza, che si vuol distruggere.
Non solo gli ornamenti e le ricchezze Veneziane si trasportavano, ma quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano. Erasi il duca di Modena, come abbiamo detto, fuggendo la furia dei repubblicani, ricoverato in Venezia; poi già romoreggiando le armi loro d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, si era per sua sicurezza ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o non sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per la neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli agenti del direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che fosse lor venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti tostamente si calavano, e circondato improvvisamente con soldatesche armate il palazzo in San Pantaleone, dove aveva abitato il duca, cercarono il tesoro, in ogni parte diligentemente investigando. Ciò fu indarno; perchè era stato deposto in casa del ministro d'Austria. Perlochè, fatto armatamano improvviso insulto contro di essa, e ricercato in ogni canto, trovarono il denaro, e via se lo portavano: furono, come portò la fama, circa duecentomila zecchini. I Modenesi erano venuti a Venezia per averselo; ma e' furon novelle. Gli agenti gli serbarono, dissero, per la cassa militare.
Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande apparato di soldati, perchè sebbene fossero i piè dei Veneziani in ceppi, si temeva, che ad un bel levarsi, il popolo prorompesse, e rivendicasse alla patria con qualche solenne precipizio degl'involatori le gloriose spoglie. Accresceva il timore il pensare, che le rapine di Venezia rinfrescavano la memoria delle altre rapine d'Italia. Per ogni lato si fremeva nel vedere questi spogli. Pubblicavasi a questi giorni in Italia con le stampe un libro, che aveva in titolo i Romani in Grecia e che fu generalmente creduto opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore, sotto spezie dei Romani in Grecia simboleggiando i Francesi in Italia, e così paragonando la tirannide di Flaminio a quella di Buonaparte, eccitava i popoli Italiani allo sdegno, alla vendetta, alla rivendicazione. Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne cercava per ogni dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava, e più era letto, e non pochi tra i Francesi, che avversavano Buonaparte, o per generosità naturale, o per odio, o per invidia, lodavano e promuovevano lo scritto. Villetard fra gli altri il chiamava pieno pur troppo di allusioni veridiche sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni del nome Francese. Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e siccome quello che accusava i municipali del caro del pane, che paragonava l'Italia ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato d'infiniti cadaveri, e che stimolava i popoli a correre armati contro i Francesi, partoriva un effetto incredibile. Se ne querelava Villetard coi municipali; se la passarono con dire, che la stampa era libera, e, quanto alle ingiurie contro a loro, che le avevano in dispregio. Ma Buonaparte non l'intendeva a questo modo: voleva, che l'autore si rinvenisse. Si viveva pertanto fra la rabbia ed il timore, quando dimorandosi una sera Villetard in caffè sotto le quarantìe, se gli faceva avanti in un atto amico Barzoni. L'allontanava da se con aspre parole il Francese, dicendo, maravigliarsi, che colui, che chiamava a morte i Francesi, avesse fronte di accostarsi amichevolmente a chi gli rappresentava in Venezia. In questo Barzoni, trattosi di seno una pistola, e contro Villetard dirizzatola, lo voleva uccidere. Nasceva pel fatto in quel ritrovo un gridare, un fuggire, un accorrere incredibile. Si ritirava o intimorito, o sbalordito Barzoni, e vi fu calca: furono presto i soldati ad accorrere a quel romore inopinato. Per ammansare lo sdegno di Buonaparte, scriveva Villetard a Monge, scusasse il fatto col generalissimo, allegando, che il povero Barzoni, preso da un ardente ed infelice amore per una giovane gentildonna, era fuori di mente. Il pregava altresì, tanto era buono quel Villetard, operasse presso al generalissimo, onde si contentasse, ch'ei desse un passaporto a Barzoni, acciocchè se ne andasse a passare in paesi forestieri quella sua ira tanto gonfia contro i Francesi. Rescriveva furiosamente Buonaparte, essere un assassinamento; volere, che il reo si castigasse. Non ostante gli dava Villetard il passaporto: il giovane Barzoni fuggendo in paesi esteri la collera di chi tanto poteva, si riduceva per ultimo nell'isola di Malta, quando ella venne in potestà degl'Inglesi, e quivi si stette lungo tempo, scrivendo un giornale contro la tirannide Buonapartiana. Asperava questo fatto vieppiù gli animi da ambo le parti: insino ai municipali era venuto in odio quel forestiero dominio.
Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze tristi e funeste. Esita l'animo nostro a raccontare una festa solenne ordinata, e festeggiata da coloro, che sapevano qual fato sovrastasse a Venezia. Pure la racconterò per impietosire i posteri, se essi saranno migliori di noi; conciossiachè niuna cosa più muova a compassione che un'allegrezza procurata a chi è destinato a morte. Correva il dì della Pentecoste, quando la piazza di San Marco si vedeva tutt'addobbata a festa pel piantamento dell'albero della libertà. Mani Veneziane avevano eretto a capo della piazza dalla parte opposta a San Marco un'ampia loggia, a cui si saliva per due scale laterali ornate di vaghi fiori, e di arbusti odoriferi. Era la facciata della loggia un magnifico colonnato d'ordine Toscano con doppie cornici, e belle statue corredato. Da ambi i lati della loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con ghirlande, con insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici della cappella ducale, dismessi dal celebrare le antiche glorie della repubblica libera, chiamati ora a celebrare i vergognosi principj della repubblica serva. Due altre logge adorne, e belle si vedevano in mezzo alla piazza, e davanti alle procuratìe, con orchestre pure a lato; i fregi, gli arazzi, le divise, gli emblemi, conformi ai tempi. Gli archi delle procuratìe, e così ancora la chiesa di San Marco comparivano alla vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati. In vedere un tanto apparato non pochi erano i motti di quegli ameni e spiritosi Veneziani, dimentichi, fra mezzo a quelle illusioni festevoli, dei tanti infortunj loro. Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto ancor fronzuto dell'albero, che non so come, nè perchè col nome della libertà si chiamava. Ed ecco alle diciassette Italiane comparire con solenne comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers. L'incontravano i municipali in abito, coi cappelli, con le sciabole di moda. Quinci poscia essendosi congiunti col corteggio del generale, si ordinavano a processione. Le campane tintinnivano, gli strumenti suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano: che cosa si pensasse Baraguey d'Hilliers, che sapeva l'avvenire, io non lo so. Intanto giva la processione; soldati Italiani precedevano, seguitavano due fanciulli vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una giovane, che si dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con istromenti d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in addobbo; indi Baraguey in addobbo ancor esso, e i consoli delle nazioni, e i magistrati sì civili che militari, e i capi delle arti coi simboli delle arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da musica militare i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto, ed in un batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato nelle sue radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due vecchi i rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla punta dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Io vidi, trovandomi allora a sedere nella destra loggia, Baraguey, ed il presidente dei municipali gettare terra, e versar acqua sulle radici dell'innalzato albero, ed a quell'atto, tanto il cielo mi fu amico, che non proruppi, benchè ne avessi voglia, perchè mi erano in abbominazione i tradimenti. Le orchestre suonavano, le musiche militari rispondevano, le campane rimbombavano, i cannoni tuonavano, le tricolorite bandiere si sventolavano. Fatto silenzio, orava l'arciprete Valier municipale, con magnifiche parole commendando la generosità Francese, e la rigenerazione Veneziana. Poscia entrati in San Marco, cantavano l'inno delle grazie, e facevano il maritaggio del giovane e della giovane. Restava, che ad onore dello stato nuovo si vilipendesse il vecchio. Per la qual cosa, uscito il corteggio da San Marco ed in piazza tornatosi, dove promiscuamente e Francesi, e Veneziani intorno all'albero già ballavano, ardevano il libro d'oro, e le altre insegne ducali: in quel mentre orava enfaticamente l'abbate Collalto: l'albero della libertà al salutifero legno della croce paragonando. Continuossi a ballare il giorno, ballossi ancora la notte; si recitava in musica una bella, e magnifica opera nel bellissimo teatro della Fenice. Il cuore umano non ha affetto, nè l'immaginazione figura, nè la lingua espressione per rappresentare degnamente quello, che si dovrebbe rappresentare pensando, quale materia covasse sotto tali rallegramenti. Certo, feste e rallegramenti più crudeli di questi non furono al mondo mai. Ricordomi, e fia l'ultima volta che in queste lagrimevoli storie io favelli di me, che trovandomi in palco di una nobile donna Contarini, se la memoria non falla, sposata ad un Correr di Santa Fosca, che fu almirante delle navi, ed a casa il quale io mi godeva a quei giorni una dolce e cordiale ospitalità, in vedere quelle apparenze ed in pensare al fatto, sentiimi come quasi dividere, a lacerare in due dentro me stesso, e paragonaimi a quell'orrendo accoppiamento di corpi vivi e di cadaveri, che per supplizio di rei e di innocenti faceva, a guisa di diporto, quel tiranno dell'antichità. Pure m'infinsi, perchè il discoprirmi sarebbe stato pericoloso; e forse da coloro, con cui mi conversava, non creduto.
Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers. Al tempo stesso Bernadotte, che conosceva a che fosse serbata Venezia, proibiva con animo sincero, che in Udine si piantasse. Guyeux al contrario metteva una taglia di centomila lire sur un piccolo comune del Padovano, sotto pretesto, che l'albero vi fosse stato tagliato; doloroso avviluppamento d'accidenti strani per l'infelice Venezia, a cui in proposito di un medesimo fusto figurativo la sincerità dell'uno non giovava, l'improntitudine degli altri pregiudicava.
Continuava Buonaparte nelle sue arti di mostrarsi propenso ai Veneziani, e di dar loro speranza della conservazione del dominio. Nè contento alle chimere, con cui andava pascendo il legato Battaglia, e Dandolo, e Zorzi, e gli altri municipali, che andavano e venivano da lui, volle fare una dimostrazione tanto più brutta, quanto ella era di civiltà, e di cortesìa. Dimostrava non potere, per le molte e gravi faccende che il travagliavano, visitare, come desiderava, per se stesso Venezia, ma mandarvi la donna sua, perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto si spiegava, quanta fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie in Venezia: le adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì Veneziani, che Francesi, furono oltre misura. Traevano per comandamento del generalissimo i cannoni a festa, e ad onore di privata donna, e queste cose non solamente si comportavano, ma ancora si lodavano; potevano i prudenti uomini augurar dell'avvenire. Accolta nella sala dei municipali era segno d'applausi infiniti: deputavano due dei loro ad intrattenerla, ed a farle onoranza. Furonvi festini, balli, canti, allegrezze di ogni sorte: alla Giudecca una gran cena, al canal grande una luminaria, nè mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani. Credevano i municipali di aver vinto la pruova, perchè la donna dava parole dolci, e pareva loro Buonaparte non avrebbe mandato una persona gradita in una città tradita. Ma s'ingannavano, perchè nol conoscevano, o nol volevano conoscere. Dandolo, e gli altri municipali trionfavano, e sempre stavano accanto alla donna, e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani repubblicano se ne stava bieco, ed alla traversa. Infine, dimoratasi quattro giorni, il quinto se ne partiva con assai ricchi presenti. Io non affermerò, perchè non lo so di certo, che le sia stata data una collana ricchissima di grosse perle, tratta espressamente dal tesoro di San Marco, in cui era custodita ad uso sacro. Nondimeno l'ho dovuto avvertire, perchè lo trovo scritto negli annali dei tempi. Certamente se non questo, ebbesi ed accettò la donna di molti altri presenti. Fu brutto il dare, fu ancor più brutto l'accettare, non dico dal canto di lei, perchè forse ignorava le insidie del marito contro Venezia, ma dal canto di lui che le sapeva, e che ordiva.
Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, non vivevano coloro, che avevano in mano la somma delle cose in Venezia, senza qualche sospetto, però oltre i maneggi ed i denari, trattavano di unirsi strettamente alle città di terraferma, che, come abbiam narrato, molto ripugnavano al dominio Veneziano. Laonde operavano, che le principali mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi mandava Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natìo di Desenzano, si sperava, che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti. Non arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte, per umanità e sincerità, impediva che deputasse. Vi mandava Buonaparte, che in sembianza favoriva il disegno, Berthier, affinchè e presiedesse il congresso, e con arte distornasse il progetto d'unione. Vi furono molte parole e contenzioni. Verona voleva esser capo della terraferma, Padova andava alla medesima volta, i Bassanesi piuttosto ai Padovani aderivano che ai Veronesi, i Vicentini piuttosto ai Veronesi che ai Padovani, Treviso stava in favor dei Veneziani, i deputati d'Oltremincio propendevano verso la Cisalpina. Non ostante si vedeva tra mezzo a questi dispareri, che per la necessità del caso, i deputati sarebbero finalmente restati d'accordi sull'unione. Però Berthier, che non aveva potuto turbare il disegno con le arti, il rompeva con l'autorità, disciogliendo il congresso, e pubblicando, che circa l'unione i deputati non si erano potuti accordare; il che era vero, ma era colpa di lui, non di loro.
Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare il direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne facevano anche inchiesta formale al direttorio Cisalpino. Davano i primi buone parole; Battaglia e San Fermo le scrivevano ai municipali, confortando per tal modo i Veneziani con la speranza di aversene almeno a restar Italiani. Rispondeva il direttorio Cisalpino con ambagi e con superbia; barbaro, e stolido insulto alla compassionevole Venezia.
In questo mentre si era concluso il trattato di Campoformio; Buonaparte se ne tornava a Milano. Il suo parlar diverso, e le voci che già si levavano, atterrivano i popoli. Interrogato a Vicenza, qual fosse il destino dei Veneti, rispondeva, nè la Francia nè lui avere alcun diritto sopra di loro. Qui soggiungeva un Tiene Vicentino, che sarebbero pronti a spendere ogni più preziosa cosa per conservar l'indipendenza. Replicava, nulla ancora essere deciso; nè la Francia, nè egli non sarebbero mai per operare cosa alcuna contro di loro, nè per disporre di un popolo, sopra del quale non avevano nissun diritto. Ma giunto a Verona, già più vicino al suo sicuro nido di Milano, e perchè si credeva che la parte Austriaca vi fosse potente, interrogato delle Veneziane sorti da un De Angeli, presidente del governo, faceva sentire questo suono, che Verona era ceduta all'Austria. Dissegli allora il presidente, perchè non lasciarci piuttosto sotto i Veneziani? Perchè dopo tante promesse di libertà venderci all'Austria? A questo tratto rispondeva il capitano atroce a uomini, ai quali egli aveva tolte le armi: ebbene, difendetevi. Riprendeva il presidente le parole, e magnanimamente rispondendo, tuonava a questo modo: Vattene, traditore, e sgombra da queste terre: rendici le armi che ci hai tolte, e ci difenderemo. Taceva il barbaro a tale rincalzata attonito, e si ritirava non vergognoso, ma avvilito, in altra camera. Spargevasi intanto il grido; la città piena di dolore, di trepidazione e di spavento. Udiva le grida disperate dei cittadini dolenti il venditore; se ne partiva frettoloso per Milano.