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Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 5

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Queste parole dette, e replicate più volte, destavano negli animi già tanto concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi gli uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva in Venezia un caso pieno d'insolenza ad un tempo, e di crudele risentimento, e che se non fu espressamente ordinato da Buonaparte, come da alcuni fu scritto, servì però molto mirabilmente a' suoi disegni contro l'innocente repubblica. Aveva il senato comandato, seguendo un antichissimo instituto, ed a cagione dei romori presenti, che nissuna nave forestiera, che fosse armata, potesse entrare nell'estuario; il quale divieto era stato significato a tutti i ministri delle potenze estere residenti in Venezia, ed il Francese ne aveva, come tutti gli altri, avuto notizia. Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a tutti giusta e conveniente cosa, come era veramente, che non si dovesse turbare con la presenza di armi forestiere la sede del governo. Ma ecco la sera dei venti aprile, avvicinarsi al Lido di san Niccolò un legno armato in forma di corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto. Si scoverse legno Francese condotto dal capitano Laugier. Domenico Pizzamano, deputato alla custodia del Lido, gli mandava significando il divieto del senato, e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla quale l'Inghilterra medesima aveva obbedito. Il capitano o per insolenza propria, o per comandamento altrui, non curando le esortazioni del Pizzamano, e seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto, e vi poneva l'ancora con violazione manifesta di una legge Veneziana in Venezia. Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, i Veneziani narrano, per ingaggiar battaglia, il che non è nè vero, nè verisimile, ma bensì per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera Veneziana, pensiero veramente strano del volere con pubblica dimostrazione rendere onore ad una potenza nel momento stesso, in cui sotto gli occhi del suo principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una sua principalissima legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni Francesi, giunto alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere al comandante Veneziano, che si covasse qualche macchinazione o dentro o fuori. Perlocchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva, rendendo fuoco per fuoco, contro il legno Francese. Insino a questo punto il torto essere stato dal canto del capitano Francese sarà confessato da tutti, eccettuato da quelli che credono, che i forestieri debbono esser padroni in casa altrui; e se i Veneziani fossero stati contenti all'arrestar il legno, e ad obbligarlo, senza fargli altro danno, ad uscir dal porto, nissun diritto uomo è, cred'io, che non fosse per istimare la condotta loro, non solo non biasimevole, ma ancora lodevole e necessaria. Ma le cose non si rimasero a queste prime dimostrazioni, nè poteva essere, ch'elleno più oltre non procedessero a cagione degl'incredibili sdegni, che allora passavano tra una nazione e l'altra; imperciocchè trovatosi Laugier tra legni di Schiavoni, gente avversa al nome di Francia, e devota a Venezia, giunto il trarre nimichevole tra il legno ed il forte Sant'Andrea, assaltavano con grandissima forza, e con arma bianca la nave del capitano Francese, nella quale sfogando troppo più che all'umanità si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di un'estrema ferocia. Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque Francesi, fra i quali il capitano medesimo. Otto restarono feriti; che anzi, se gli uffiziali degli Schiavoni non avessero frenato il furore dei soldati loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo uccisi. Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con pubblico decreto Pizzamano, e gli uffiziali; largiva di un caposoldo i gregari; mandava un sunto del fatto ai legati Donato, e Giustiniani, acciocchè il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione, che da altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il ministro di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato, che carcerasse Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi, risarcisse il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si soprassedè sino alla risposta di Buonaparte.

Terrore era in Venezia, e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima si avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione. Combattevano tuttavìa i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto perchè quest'ardore era estremo, si doveva temere, che non tardasse a raffreddarsi. Già i Francesi ingrossavano tutto all'intorno. S'accostava Kilmaine venuto da Mantova, Chabran compariva sotto le mura verso la porta di San Zeno, le prime squadre di Victor arrivavano in luogo, donde presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di Judenburgo toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque i provveditori a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo del colonnello Beaupoil: ma la pratica non ebbe perfezione, perchè il popolo non volle udire che avesse a depor le armi, e non fossero esclusi i Francesi dai castelli; poi con Chabran, col quale andava ad abboccarsi fuori della porta San Zeno il provveditore Giovanelli. Erano col primo il generale Chevalier, e Landrieux, col secondo il conte degli Emilj, il conte Giusti, ed un Merighi, personaggio molto amato dai San Zenati. Pervenivano intanto le novelle, che Lahoz con una banda di due mila soldati tra Italiani e Polacchi al soldo della repubblica Cisalpina, aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contro le leve campagnuole di quel distretto.

Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo Veneto contro i Francesi, quando stavano a fronte di un nemico potente; che per questo era stato costretto Buonaparte a fare la tregua, che i Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux, e qui lascio che il lettore pensi da se, che i rei disegni del senato contro i Francesi erano pruovati dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli allegando l'amicizia de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo essersi armati i sudditi per amore verso il principe, e per opporsi ai ribelli apertamente incitati, e protetti dai Francesi; l'intervenzione dei Francesi in tutti questi moti viemaggiormente dimostrarsi da ciò, che i turbatori della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale Balland, come in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere contro di lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per questo aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro, e vendicare il loro principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai risentimenti ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran sdegnato minacciava, che entrerebbe per forza, arderebbe, e saccheggerebbe Verona. Già s'impadroniva di San Leonardo, con che assicurava il castello San Felice: già batteva fortemente la porta di San Zeno, dove solo il fosso il separava dal corpo della piazza. Instavano al tempo medesimo i castelli contro la porta di San Giorgio; e dal Castel-Vecchio uscivano spesso i Francesi con gran terrore e ruina dei cittadini. Kilmaine si approssimava da Mantova, sbaragliando le turbe armate, che gli contrastavano il passo. Già il romore della Victoriana schiera ormai vicina si udiva nella desolata città. I primi corridori di Lahoz si facevano vedere alle porte esteriori del Castel-Vecchio, e niuna cosa poteva impedire che vi entrassero.

Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il quale accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo esercito contro lo stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce Bianca, ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico. Da tutto questo si vedeva, che era già vinta Verona, quando ancora combatteva. Perlochè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni modo. Convenivasi delle seguenti condizioni: deponessero i villani le armi, e sgombrassero da Verona; i Francesi la occupassero; tutte le armi e munizioni si dessero in mano loro: fossero consegnati in castello, come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo, Giuliari, Emilj, il vescovo, Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi, Filiberi, i due fratelli Carlotti, San Fermo, e Garavetta: eseguiti i capitoli, si rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiungere il capitolo, che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi, delle truppe, e dei capi loro; ma Kilmaine, che era sopraggiunto, non volle ratificarlo. E però, sebbene fossero accettati gli altri capitoli, si rendeva Verona quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi dai provveditori, si deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che i magistrati municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di lei provvedessero. Fu grande in questi negoziati il dolore, e lo spavento dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele al nome Veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso, ma udivano anche parole espresse, e funeste della vicina distruzione della repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed almeno più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi, che l'assistenza prestata alle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia non poteva derivare dal solo arbitrio dei comandanti Francesi, ma bensì da un espresso comando del generale Buonaparte.

Entravano i Francesi nella sanguinosa Verona. Io non so, se mi debba raccontare un fatto orribile, e quest'è, che i patriotti Italiani, che pretendevano parole di libertà, e d'indipendenza alle imprese loro, cercavano diligentemente, secondando il furore dei capi repubblicani di Francia, per le case gli autori della resistenza Veronese, e trovati, gli davano loro in mano, perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio. Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino, e lo consegnavano ai percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva scritta in istile più pulito, che a cappuccino si appartenesse, veniva attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo. Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza. Condannato nel capo, incontrò la morte con quella medesima costanza, con la quale aveva vissuto. Conservò la storia il nome di questo forte Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi sia stata la sua morte piuttosto apposta ad ignominia, che ad onore. Si chiamava frate Luigi Colloredo, e dopo la venuta dei Tedeschi gli fu posta nella sua chiesa dei cappuccini una lapida tramandatrice ai posteri della sua eroica costanza. Furono con lui condotti a morte i conti Francesco degli Emilj, Verità, e Malenza con alcuni altri di minor nome. Tale fu l'esito della Veronese sollevazione: la chiamarono le pasque Veronesi a confronto dei vespri Siciliani; ma se ugualmente crudi ne furono gli effetti, bene le cagioni ne furono peggiori; perchè a Verona s'aggiunse la perfidia alla tirannide.

Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano le armi, seguitavano minacce crudeli, e fatti peggiori; si viveva dai soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più preziose gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti tanto sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di minor prezzo; ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu preposto alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno: nè si perdonava alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste furono preda dei rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto commissario sopra il monte, fu carcerato, e condotto in Francia per essere processato, ma non si udì mai di pena, o perchè fosse innocente, o perchè avesse operato per ordine di chi poteva più di lui. Decretava Buonaparte, pagasse Verona centoventimila zecchini, e di più cinquantamila per caposoldo ai soldati dei castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i cavalli dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavallerìa; ancora desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati in quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese, che del pubblico si confiscassero in pro della repubblica; i quadri, gli erbari, i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor essi posti al fisco della repubblica; i privati, che meritassero di esser fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati.

Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione dei poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi ufficiali superiori avere colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte di pietà di Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose suppellettili, e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto rivoltar Vicenza) essere stati con tale prestezza vuotati, che gli espilatori impazienti all'indugio dello aprir le porte, le avevano sforzate: e vero fu, quantunque Augereau non lo scriva, che vi entrarono con le scuri, e coi sacchi. Sapere, continuava a scrivere, che Victor aveva fatto arrestare il commissario Bouquet, autore di questo dilapidare; non dubitare, che se si venisse a processo contro di lui, non mettesse in compromesso cittadini, che erano nei superiori gradi dell'esercito; non essere le campagne in miglior condizione della città; gl'incendj, i furti, le rapine generali, e particolari fatte d'arbitrio, e senza legale autorità avere spopolato parecchi villaggi, e ridotto famiglie ad errare disperatamente alla ventura; giunta essere a tal colmo questa peste, che ufficiali adescati dall'amor del sacco si erano fatti comandanti di piazza da se medesimi, ed avevano commesso atti, cui la giustizia, l'onore, e la severità della disciplina militare condannavano; gli arbitrj di Verona essere ancora più orribili: tolte sforzate esservi state fatte per iscritto sino a franchi sessantamila, e negate le ricevute; rubatevi per otto giorni interi le botteghe; regnarvi il terrore; esservi cessato ogni commercio, essere Verona deserta; alcuni ufficiali essersi impadroniti di merci spettanti a' negozianti, sotto colore che calasser per l'Adige; le migliori case saccheggiate attestare il furore dei saccheggiatori. Nissuno più di lui, continuava Augereau, odiare i Veneziani, nissuno più di lui bramar di vendicare il sangue Francese, ma nissuno più di lui odiare l'ingiustizia e la persecuzione; se i Francesi erano stati rei d'ingiustizia e di persecuzione a lui toccare il consolare i Veneziani, a lui toccar fare, ch'essi dimenticassero, ch'erano obbligati di una parte dei loro mali a' suoi compatriotti. Fatte queste querele richiedeva Augereau da Buonaparte, moderasse le contribuzioni, ne rendesse il contado partecipe.

Da chi avrà attentamente considerato le cose fin qui da noi raccontate, sarà facilmente scorto, che nissuno buon partito restava a pigliarsi alla repubblica di Venezia, se alcuno restava, era quello dell'armi. Forse i Veneziani, armando vieppiù fortemente l'estuario, e difendendo Venezia con quell'istessa costanza, colla quale i loro maggiori avevano una volta difeso Padova contro l'imperator Massimiliano, avrebbero ancor potuto far sorgere in Europa qualche spiraglio di salute; perchè ancora l'Inghilterra era intera, e l'imperatore consentiva per forza ai patti di Leoben, non che non gli piacesse l'acquisto degli stati Veneziani, ma perchè abbominava i principj sovvertitori di ogni vecchio stato, sui quali si fondava la repubblica di Francia. Ma qualunque fosse l'evento, era più onorevole partito per Venezia il perire con l'armi in mano, che con negoziati già conosciuti inutili prima che s'intavolassero.

Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, fingeva un grandissimo sdegno con acerbissime parole lamentandosi del sangue Francese sparso, e protestando volerne aver vendetta. Adunque vedendo, che era venuto il tempo prefisso, e con tant'arte preparato, scriveva al ministro Lallemand queste furibonde parole: «S'insultano a Venezia i colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si assassinano i Francesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro, e protesto non voler udire proposta di conciliazione, se prima non sono arrestati i tre inquisitori di stato, ed il comandante del Lido: si carcerino, e poi venite a trovarmi».

Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre inquisitori, ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole delle lagune; gli avogadori del comune incominciavano a far loro il processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo) i carcerati per opinioni, o fatti politici, fra gli altri i ribelli di Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivanne i Francesi, solo restava Villetard, segretario della legazione, come agente eletto ad operare la mutazione di governo.

Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato, e Leonardo Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono in Gradisca: introdotti escusavano la repubblica: aver voluto Venezia amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di lei inondassero l'Italia; averla riconosciuta, quand'era pericolo il riconoscerla; avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai confederati ai danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato, come era con l'imperatore, gli stati suoi; averle fatto copia delle sue fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser probabile, affermavano, che uno stato illanguidito da danni sì gravosi, consumato da dispendio sì enorme, mutilato per l'alterazione di tante città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella aveva obbligato alla pace quasi tutta l'Europa: volere il Veneziano governo la pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè trovavano nella guerra immensi profitti, ed il compimento dei loro fatali disegni: da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti, le carte false, come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti Francesi, l'alterazione dei popoli. Del rimanente non venir loro per muover querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere, che s'appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta pruoverebbero, tutti i sospetti dei comandanti esser opera dei raggiri, e delle fraudi dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il senato a punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizi dei fatti, dei luoghi, e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar la mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a disarmare i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni sollevate, e si preservassero le fedeli dagl'insulti loro.

Non valsero le escusazioni, e le profferte a vincere la durezza del generalissimo. Rispose, che voleva, che tutti i carcerati si liberassero, anche quei di Verona perchè erano addetti a Francia, che non voleva più piombi, ed andrebbe egli a rompergli; che non voleva più inquisizione, barbarie dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser libere; che i Francesi erano stati assassinati in Venezia, e nella terraferma, e che i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i soldati gridavano vendetta, e ch'ei la voleva fare; che bene aveva il senato tante spie che bastassero per potere scoprire i rei; che se il senato non aveva mezzi per frenare i popoli, era imbecille, e non doveva più sussistere; che non voleva alleanze con Venezia, nè progetti; che voleva comandare; che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in Dalmazia; che insomma, se il senato non puniva i rei, non cacciava il ministro d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigioni, non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egl'intimerebbe la guerra a Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare nell'autorità suprema; che il governo Veneziano era vecchio, e doveva cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato Veneto; se non avevano altro a dire, se n'andassero.

Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le novelle del fatto del Lido, e con accomodate parole il rappresentarono a Buonaparte. Rispondeva, che non gli voleva vedere, che non gli voleva udire, bruttati com'erano di sangue Francese, se prima non gli davano in mano l'ammiraglio, il comandante del Lido, e gl'inquisitori di stato. Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con menzogne un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero tosto dalla terraferma; quando no, avrebbero a far con lui.

Adunque l'antico insidiatore della Veneziana repubblica dichiarava, il dì secondo di maggio, la guerra a Venezia. Avere, intimava, il governo Veneto usato l'occasione della settimana santa, mentre l'esercito Francese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere in armi, e col fine di tagliargli le strade, quarantamila Schiavoni; mandar Venezia armi, e commissari straordinari in terraferma, arrestare gli amici di Francia, fomentare i nemici; risuonare le piazze, i caffè, ogni luogo pubblico di male parole, e di mali fatti contro i Francesi; chiamarvisi giacobini, regicidi, atei; avere ordine i popoli di Padova, Vicenza, e Verona di armarsi a stormo per rinnovare i vespri Siciliani: gridare gli ufficiali Veneti, che si apparteneva al Lione Veneto di verificare il proverbio, che l'Italia fosse la tomba dei Francesi; predicare i preti dai pulpiti, gli scrittori con le stampe la crociata; assassinarsi i Francesi in Padova, assassinarsi in Castiglione dei Mori, assassinarsi sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona; impedire i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia, suonarsi campana a martello a Verona, trucidarvisi i convalescenti; assaltare i Veronesi con l'armi in mano i presidj Francesi ritirati ai castelli; ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una nave Veneta contro la fregata di Francia la Bruna per salvare una conserva Austriaca; fumare il Lido di Venezia del sangue del giovine Laugier. Per tutte queste cose voleva, ed ordinava, che il ministro di Francia partisse da Venezia; che gli agenti di Venezia sgombrassero dalla Lombardia e dalla terraferma; che i suoi generali trattassero come nemiche le truppe Veneziane, ed atterrassero il Lione di San Marco da tutte le città della terraferma.

A tutte queste querele chi dritto mirava, ed amava la giustizia, rispondeva pei Veneziani, che, eccettuati gli assassinj non mai escusabili, opera dei particolari, non del governo, e frutto in gran parte delle insolenze soldatesche, essendo la vendetta passione innata all'uomo, Venezia, tacendo anche le ribellioni suscitate a posta nella terraferma, era autorizzata a far peggio dal dritto delle genti a cagione dei patti di Leoben, venditori della repubblica. Aggiungevano, che solo era da biasimarsi del non aver dichiarato, e fatto la guerra con tutte le sue forze alla Francia, guerra della quale aveva tante, e sì giuste cagioni. Gli autori, cui muove piuttosto la parzialità che la giustizia, scrivono, che Venezia fu traditrice; certo ella fu, ma di se stessa, non d'altrui.

La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte, non pareva a lui poter bastare per arrivare al suo fine del cambiar la forma del governo Veneziano. Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i legati Veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers, che si accostasse coi soldati alle rive dell'estuario, e d'ogni intorno tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della repubblica: a questo fine ancora Villetard, e gli altri repubblicani rimasti in Venezia, menavano un romore incredibile contro l'aristocrazìa, come se ella fosse la maggior peste che sia al mondo, esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare lo sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo alla democrazìa: a questo fine altresì dai medesimi continuamente si animavano, e si concitavano contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino confortati dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli, più apertamente insidiavano, e minacciavano lo stato: al medesimo intento finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di congiure occulte, di armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni accese, i malvagi trionfavano; dei buoni, i più si ristavano per timor dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento, che si vedeva in aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica.

Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel senato, in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era o per prudenza, o per consuetudine, o per ostinazione risoluto a voler perseverare nelle massime dell'antico stato; già aveva ordinato, che diligentemente, e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i novatori, che ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni negli antichi ordini della constituzione al consiglio grande, in cui si era investita la sovranità, e dal quale solo simili alterazioni dipendevano, non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa coloro, che indirizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono di trovar modo per evitare l'autorità del senato, allegando, che ad accidenti straordinari abbisognavano rimedj straordinari. I savi attuali, dei quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard, operarono in modo che si facesse un'adunanza illegale, e contraria agli ordini della repubblica nelle stanze private del doge, la sera dei trenta aprile. Interveniva il doge Manin, i suoi consiglieri, i tre capi delle quarantie, i savi attuali, i savi di terraferma, i savi usciti, ed i tre capi del consiglio dei Dieci. Si trattava in quest'adunanza di ciò, che si convenisse fare in sì luttuosa occorrenza per la salute della repubblica. Il principal fine era di rappresentar le cose in maniera, che il consiglio grande autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi.

Il doge venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in questi termini: «La gravità, e l'angustia delle presenti circostanze chiama tutte elle a proponer el miglior mezzo possibile per presentar al supremo maggior conseio el stato, nel qual se trovemo per le notizie, che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima peraltro, ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de raccoglier brevemente quel che xe per esponerghe el cavalier Dolfin».

Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava, che fosse molto a proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale egli aveva amicizia, ed era, secondo che egli opinava, molto innanzi nell'animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica, e gloriosa repubblica; poichè era parere di uno dei principali statuali, già ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso momento dall'intercessione di un pubblicano.

Non erano ancora gli animi dei circostanti tanto abietti, che non deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano diversi pareri. Voleva Francesco Pesaro, generosamente opinando, che non si alterasse a modo alcuno la constituzione, e si facessero le più efficaci risoluzioni per difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della potenza Veneziana. Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si desse autorità ai legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione degli ordini. Mentre si stavano esaminando i partiti posti, ecco per Tommaso Condulmer, sopraintendente alle difese dell'estuario, arrivar novelle, che già i Francesi dalle rive dell'estuario tentavano di avvicinarsi a Venezia. Parve, s'udisse il romor dei cannoni. Si suscitava gran terrore fra gli adunati: il serenissimo principe, tutto paventoso più volte su e giù per la camera passeggiando, lasciava intendere queste parole: sta notte no semo sicuri nè anche nel nostro letto. Per poco stava, che per suggerimento di Pietro Donato, e di Antonio Ruzzini, non si cedesse, e non si trattasse della dedizione; cosa, che farebbe credere, che i Veneziani fossero divenuti meno che uomini, se veramente in questo fatto solo operava la paura. Vinceva peraltro ancora in questo la fortuna della repubblica; perchè opponendosi gagliardamente al partito Giuseppe Priuli, e Niccolò Erizzo, si mandava al Condulmer resistesse alla forza con la forza. Non ostante, operando il timore e le instanze dei novatori, fu preso partito, che il doge medesimo esponesse al maggior consiglio la condizione della repubblica; proponesse la facoltà di alterar la constituzione, si convocasse il maggior consiglio il dì seguente primo di maggio. Fatta questa risoluzione, desiderio principale di Buonaparte, e mentre ella tuttavia si stava dal segretario Alberti distendendo, il procurator Pesaro lagrimando disse in dialetto Veneziano queste memorande parole: vedo, che per la mia patria le xe finìa: mi non posso sicuramente prestarghe verun ajuto: ogni paese per un galantuomo xe patria, nei Svizzeri se pol facilmente occuparse. Poi cesse da Venezia, sapendo, che Buonaparte domandava la sua morte. Felice Francesco Pesaro, se, come disse, così avesse fatto, e se trapassando ritirato e dolente la restante sua vita nell'Elvetiche montagne, avesse lasciato al mondo l'esempio di un amore di patria, scevro da ambizione, che se stesso, Venezia, Italia avrebbe perpetuamente onorato!

Era la mattina del primo maggio, quando la repubblica Veneziana doveva cadere da per se stessa nell'agguato, che le era teso. Era il palazzo pubblico circondato per ogni parte da genti armate, i cannoni presti, le micce accese, apparato insolito da tanti secoli in quella quieta repubblica. Custodivano per antico rito gli arsenalotti le interiori stanze del palazzo: i capi di strada pieni d'uomini in armi. Si maravigliava il popolo, ignaro della cagione, a quel romor soldatesco; la città tutta occupava un grandissimo terrore: quei luoghi medesimi, che per sapienza di governo, per benignità di cielo, per fortezza di sito erano stati sempre pieni di gente allegrissima per natura, civilissima per costumi, ora risuonavano d'armi e d'armati, e quelle armi, e quegli armati accennavano, non a salvamento, ma a distruzione della patria.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
330 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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