Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», sayfa 6
Convocati i padri al suono delle solite campane (non senza lagrime io queste cose racconto) e adunatisi in maggior consiglio, rappresentava con gravissime parole il doge la funesta condizione, a cui era ridotta la repubblica, infelicissima, ma innocente; avere ella sempre, dappoichè la rivoluzione Francese aveva spaventato il mondo, vissuto in uguali termini d'amicizia con tutti; nè mai aver voluto pendere più da questa parte, che da quella; ciò aver richiesto da lei l'antica sua consuetudine; ciò gl'interessi suoi più preziosi, perchè se si fosse fatta aderente ai principi confederati contro la Francia, le navi Francesi avrebbero messo a ruba il commercio tanto florido dei Veneziani, e se avesse prestato le orecchie alle proposte Francesi, la potentissima casa d'Austria confinante con Venezia per terra e per mare, da Crema fino all'Albanìa, avrebbe potuto occupar gli stati dell'imprudente repubblica, sarebbesi in ambi i casi turbata quella quiete, per cui tanto fiorivano l'agricoltura ed il commercio: essersi avuto speranza, che le forze unite dell'Austria stessa, del re di Sardegna, e degli ausiliari Napolitani impedissero la venuta dei Francesi in Italia, e però non essersi seguitati gli esempi dei maggiori dell'apprestar armi ed armati per allontanar dalle province Venete perturbazioni, che non si mostravano probabili. A questa medesima risoluzione aver dato forza lo stato dell'erario, ancor consunto dalla guerra col Turco, dalle tre neutralità armate in Italia, dai contagi di Dalmazia, dalle riparazioni dei fiumi, dalla spedizione contro Tunisi: essersi creduto pericoloso l'impor nuove gravezze in un tempo massimamente, in cui ognuno si faceva lecito di esaminare, e di censurare ogni azione di chi comanda: da questi fondamenti essere derivate le risoluzioni fatte, la blandizie usata, il riconoscimento della repubblica Francese, l'avere accolto un suo ministro a Venezia, e mandato un ministro Veneziano a Parigi, le provvisioni apprestate agli eserciti d'ambe le parti; dai medesimi essere anche proceduta la moderazione raccomandata ai sudditi, anche in mezzo a tante cagioni di sdegno, quando già i Francesi, rotta ogni barriera, avevano inondato le terre della repubblica: per questo avere mandato sovente al supremo comandante dei Francesi ragguardevoli cittadini, acciocchè il tenessero bene edificato, e difendessero la repubblica presso a lui contro le accuse, e le minacce continue de' suoi soldati. Qui, alteratasi dal dolore la voce del serenissimo principe, fu da lui continuato a dirsi, essere oramai giunto il fatale momento, in cui la Francia, cacciati con replicate vittorie gli Austriaci dall'Italia, e costrettigli alla pace, chiusi i porti del Mediterraneo agl'Inglesi per mezzo della pace con Napoli, trionfato sul Reno, avendo per alleate la Olanda e la Spagna, poteva senza risguardo alcuno, e senza diversione usare tutte le sue forze contro i Veneziani: debole, ed umile nazione essere i Veneziani a paragone di tante altre nazioni vinte, e soggiogate dalla Francia: quando bene il profondo segreto, in cui si tenevano i preliminari di Leoben, non desse giusta cagione di sospettare di qualche grande calamità contro gli stati della repubblica, non potere lei ingannar se stessa a segno di sperare potersi difendere o contro assalti vivi, o contro lungo assedio; già stringersi per mare Venezia, già legni armati Francesi correre l'Adriatico; invano credersi, le difese apprestate nell'estuario, avutosi anche riguardo al sito naturale di Venezia, quando ogni sussidio, ogni soccorso da ogni parte mancasse, potessero durar lungo tempo contro un nemico tanto audace e tanto fortunato; una resa inevitabile dover concludere un assedio lungo, e misto di mali estremi per un popolo avvezzo ad abbondar di tutto. Tale essere la condizione della repubblica, combattuta da un amico divenuto nemico dopo tanta ospitalità usata verso di lui, appetita da un amico, per cui si erano sofferte tante disgrazie, insidiata forse da cittadini perversi, per cui il sovvertire era uso, piacere, massima, e speranza; essersi abbattuta in un secolo, in cui l'innocenza è derisa, la fede non creduta, i diritti nulla, la forza tutto; solo le stragi e le vittorie aversi in onore; la virtù non attendersi, se non per contaminarla. Che potere Venezia, a cui solo erano scudo l'innocenza e la virtù? Cedessero adunque, cedessero, esortava, ad una necessità ineluttabile, e poichè l'estremo dei tempi era giunto, in quell'estremo tempo pensassero, che meglio era recidere qualche ramo, sebbene essenziale, che l'albero tutto; che cosa di poco momento era una modificazione, purchè si conservasse la repubblica; che bisognava a guisa di provvidi marinari far getto di una parte del carico per salvar la nave. Gli pregava pertanto, e scongiurava, per quanto avessero cara la patria, per quanto avessero care le famiglie, per quelle mura stesse tanto magnifiche e tanto dilette, per la nobile Venezia, per la salute di lei, per quanto aveva in se di dolce, d'augusto, e di reverendo un'antica congiunzione d'amore e d'interessi, udissero benignamente quello, che erano per proporre alla sapienza loro i savi a fine di far abilità ai zelanti legati eletti a trattare col supremo dispositore delle cose Francesi in Italia, di qualche alterazione negli ordini fondamentali della repubblica.
Queste compassionevoli parole del doge ingenerarono terrore, dolore, e pianto negli ascoltanti. Favellava nella medesima sentenza Pietro Antonio Bembo, che fu poi uno dei municipali eletti da Villetard. Posto il partito, e raccolti i voti, fu appruovato con cinquecento novantotto favorevoli, e ventuno contrari. Lodava il doge la virtù del maggior consiglio, esortava ad aver costanza, a non disperare della repubblica, a tener credenza del partito deliberato: poscia tra il dolore, la mestizia, ed il terribile aspetto dell'avvenire si scioglieva il consiglio.
Il crudo capitano intanto perseguitava Venezia. Calava Buonaparte furibondo dalle noriche Alpi, e la circuiva d'ogni intorno. Villetard, ed i suoi aderenti l'insidiavano dentro. Piacemi in tanta depressione di spiriti e viltà d'animi, il raccontare, la costanza mostrata in Treviso in cospetto del generalissimo da Angelo Giustiniani, provveditore di quella provincia. Sdegnato il generalissimo accusava i Veneziani di perfidie, di tradimenti, di assassinj; minacciava sterminio, domandava il sangue di Pesaro, degl'inquisitori, del comandante del Lido. Rispondeva Giustiniani, le enormità d'oltremincio e di Verona essere state provocate dalle insolenze de' suoi soldati, sempre essere stata passiva Venezia, e con somma generosità, e con insopportabile dispendio avere mantenuto per sì lungo tempo l'esercito di Francia; amico fedele, non avere mai usato tante occasioni propizie per congiungersi con gli eserciti dell'imperatore a danno dei Francesi; non che avesse concitato i sudditi contro i soldati di Francia, avergli anzi sempre tenuti in freno, anche quando la fortuna si mostrava favorevole alle armi Tedesche; di ciò far fede la esperienza, di ciò gli ordini del senato inculcatori sempre di pazienza, di moderazione, di assistenza verso le genti Francesi; del fatto del Lido essere stata cagione la impertinenza dell'armatore, rompitore superbo delle municipali leggi, la resistenza medesima si sarebbe usata contro un armatore di qualunque altra nazione, che a disprezzo tanto insolente della sovranità fosse trascorso.
A queste risposte Buonaparte, in atto di furioso Giustiniani guardando, gl'intimava, se gli togliesse davanti, sgombrasse dalla terraferma; se no, l'avrebbe fatto ammazzare.
Replicava Giustiniani, il senato avere commesso alla sua fede Treviso, non potere, nè volere partir da Treviso, se non per ordine del senato; che non lo spaventava il morire; che, poichè egli aveva sete di Veneziano sangue, pigliassesi il suo, ed il restante risparmiasse. Tanta fermezza faceva, secondo il solito, piegare Buonaparte. Entrava in sull'accarezzarlo, dicendogli, che sapeva, ch'egli aveva governato con integrità e dolcezza il Trivigiano: veniva finalmente sul promettergli, che nella ordinata distruzione delle proprietà, e delle case dei nobili Veneziani, le sue sarebbero preservate, offerta certamente vile in un'occorrenza tanto miserabile della patria Veneziana, e degna di chi la faceva. Non si rimaneva per questo il Veneziano, imputandosi ad ingiuria la promessa mansuetudine. Generosamente pertanto al capitano di Francia parlando, gli dichiarava, che, poichè egli trovava lui e la sua condotta immune di colpa, confessasse ancora, essere innocente il senato, dai comandamenti del quale, qual riverente figliuolo, riconosceva quanto aveva fatto; ch'egli era stato amico dei Francesi, perchè il senato era; che se loro fosse stato nemico il senato, anch'egli sarebbe stato; conciossiachè egli era sempre stato, e sarebbe fedele esecutore dei voleri della sua patria, per pruovare l'innocenza della quale con documenti irrefragabili, gli si offeriva in ostaggio in qualunque luogo gli piacesse mandarlo. Aggiungeva, che non sarebbe eroe Buonaparte, se non l'accettasse. Quanto alla immunità offerta de' suoi beni: rifiutare sdegnosamente l'infame dono, poichè, perduta la patria, tutto era perduto per lui, ed eterno rossore avrebbe, se le proprietà sue fra le ceneri fumanti de' suoi concittadini illese restassero. Quivi scignendosi la spada, la metteva a' piè del conquistatore. Buonaparte già fin d'allora uso ad avere intorno adulatori, nè sapendo che cosa volesse dir Giustiniani con quel suo amor di giustizia e di patria, tra attonito, beffardo e dispettoso, lo lasciava andare. Atto, e parlare generoso fu questo di Angelo Giustiniani, e degno che trapassi alla posterità mediante l'instrumento delle lettere. Pure il secolo vile griderà Buonaparte grande, Giustiniani matto.
Intanto i macchinatori non si ristavano in Venezia, non contenti al cambiamento parziale autorizzato dal consiglio grande. Spargevano voci insidiose, non potersi resistere, dovere lo stato accomodarsi al secolo con un totale cambiamento negli ordini primitivi; potere Venezia vivere ancora gloriosa lungo tempo; antiquate essere le sue forme, alcune inutili, alcune dannose, alcune ridicole; popolo, popolo vuol essere; non patriziato, non aristocrazia; la ragione avere a governar gli stati; i diritti essere per natura uguali, dover essere uguale l'autorità; nuovi secoli sorgere alla rigenerata umanità; nuova libertà nascere, non di pochi potenti, comandanti a molti schiavi, ma di tutti sovrani comandanti a nissuno schiavo. Quindi la cosa ritraevano a Venezia: detestavano Pietro Gradenigo, lodavano Baiamonte Tiepolo; i piombi, i molinelli, il canale Orfano con frequenti discorsi memoravano, gl'inquisitori di stato abbominavano. Capi a costoro erano un Giovanni Andrea Spada, di fresco uscito dai piombi, antico daziero, e come trovo scritto da alcuni, antico esploratore e rapportatore degl'inquisitori, ed un Tommaso Pietro Zorzi, di professione droghiere. Seguitavano, ma più celatamente, e più con desiderii dimostrati che con opere attive, un Gallino da Padova, un Giuliani da Desenzano, un Sordina da Corfù, finalmente un Dandolo da Venezia, uomo assai chiaro per fama, per dottrina, per eloquenza, e per un certo splendore d'animo e di corpo, che molto il rendevano osservabile. S'aggiungevano, come suol avvenire, donne amatrici di una politica libertà, che non intendevano; ma siccome elle avevano l'animo volto al bene, così formavano nelle facili fantasie loro una immagine di libertà, piena di ogni bene, spoglia di ogni male.
Ma trattando di coloro, che tenevano lo stato, alcuni per debolezza non erano capaci di risoluzione generosa, ed obbedivano al tempo: tal era il doge Manin, fievole per natura, perduto di consiglio. Altri per ambizione, o per opinione secondavano il moto. Notavansi principalmente fra costoro Pietro Donato, conferente eletto ad abboccarsi coi ministri esteri dopo la partenza di Pesaro, e Francesco Battaglia, stato provveditore in terraferma, e uno degli avogadori del comune. Quale pro sperasse quest'ultimo poter derivare da coloro, che gli avevano usato quel tratto del manifesto, io non lo so. Andavano con Donato e Battaglia, Alessandro Marcello, Antonio Ruzzini, Zaccaria Vallaresso, Alvise Pisani, Giacomo Grimani, Pietro Bembo, Daniel Dolfino, ed altri fra i savi attuali ed usciti. Nè da loro dissentiva Tommaso Condulmer, sopraintendente alle difese delle lagune, grande fondamento alle macchinazioni loro, perchè aveva la forza in mano, e le chiavi di Venezia. S'accostavano a tutti questi promotori di novità, parte ingannati, parte ingannatori, non pochi altri che credevano, che una mutazione nelle forme politiche avesse a ritrar la repubblica da quell'abisso in cui era precipitata; gente sincera e semplice, che non aveva giudicato ciò che significassero gli avvenimenti dati da Vienna e da Parigi per gli ambasciadori Grimani e Querini, le ribellioni di terraferma, la necessità di compensar l'Austria, le fraudi non troppo coperte di coloro che governavano lo stato in Francia, le armi in Italia. Aveva contrastato a tutti questi gagliardamente Francesco Pesaro; poi quando cesse dalle faccende della patria, anzi dalla patria stessa, e che Battaglia per piacere a Buonaparte domandava il suo sangue, contrastavano la maggior parte dei savj di terraferma. Fra di loro più animosi si mostravano, e più vivi Giuseppe Priuli e Niccolò Erizzo, i cui nomi saranno sempre cari a chi sono care la patria e la indipendenza.
Principalissimo fondamento ai disegni dei novatori era Villetard, segretario del ministro di Francia, il quale, sebbene fosse stata dal generalissimo intimata solennemente la guerra ai Veneziani, continuava a starsene, come persona pubblica, a Venezia; ed anzi teneva alzato alla sua porta lo stemma della repubblica di Francia, testimonianza sensibile della rotta irregolarità di quei tempi, e della debolezza del governo Veneziano. Era Villetard giovane molto infiammato nelle opinioni di quei tempi, ma d'animo integerrimo, ed amico vero della libertà: i suoi maneggi in Venezia piuttosto da un grande errore di mente, che da perversità di cuore procedevano; perciocchè certo è, ch'ei si muoveva a voler cambiare il governo Veneto, perchè credeva in ciò servire alla libertà, in una forma collocandola, con la quale non poteva sussistere: le geometrie politiche gli avevano stravolto l'intelletto; ma certamente, s'egli avesse penetrato, o per meglio dire creduto o vero o possibile il disegno di Buonaparte di cambiar Venezia per poterla dare in preda all'imperatore, ne sarebbe stato abborrente, come abborrenti ne sarebbero anche stati i novatori Italiani, che si adoperavano nel procurar queste mutazioni.
Adunati, ed ordinati per tal modo tutti gli amminicoli di distruzione, restava ad ordinarsi il modo di usargli, perchè sortissero l'effetto proposto; del che i capi non istavano lungo tempo in forse. Villetard, Donato e Battaglia continuamente instavano presso il governo, acciocchè, riformando gli ordini, e riducendogli alla forma democratica, pensasse finalmente alla salute sua. Spaventavano rapportando, che il numero degli scontenti, e dei novatori era incredibile, che cresceva ogni dì più, che già erano sedicimila, e che già si congiurava a rovina dello stato. Di ciò d'ogni intorno apparire segni; già vedersi girare le nappe tricolorite; già udirsi voci e nascoste, e palesi di libertà; già dal vicino continente, da Padova massimamente, arrivare gli scritti incitatori, ed annunziatori di sinistri eventi; cambiate già essere in fondo da una fortuna insuperabile le parti estreme, e circonvicine della Veneta repubblica; doversi ancora, gridavano, cambiare il cuore, ed agli ordini nuovi delle parti estreme uniformarlo.
Tutte queste rapportazioni partorivano effetti maravigliosi in animi ammolliti da lunga pace, ed insoliti a sì terribili rimescolamenti. I raggiratori, veduto il tempo propizio, e temendo che la riforma si arrestasse a mezza strada, e che solo il governo si allargasse, ma non scendesse fino alla forma democratica, si misero in sul fare maggiori spaventi, ed in sul volere, che del tutto il patriziato si abolisse; tal era la mossa data dal generalissimo. Di questo negozio arrivavano cenni da Milano, dove Buonaparte si era condotto coi due legati Veneti, ai quali era stato aggiunto per terzo Alvise Mocenigo. Recavano le Milanesi novelle, la salute della repubblica consistere nell'abolizione del patriziato, e nella creazione della democrazia pura. Di questo scrivevano, come di volontà assoluta di Buonaparte, i Veneti legati; di questo quell'Haller, che si era fatto da pubblicano uomo di stato. Perchè poi non mancasse a questa fraude anche la parte del ladroneccio, si dava voce, che seimila zecchini di beveraggio, senza dir per chi, avrebbero fatto gran forza. Adunque tra gli spaventi e le speranze, tra le minacce e le promesse, si piegava la consulta del doge, e con lei il maggior consiglio ad ampliare il mandato ai legati, acciocchè potessero consentire all'annullamento del patriziato, ed alla creazione della democrazia. Fu anche fatto abilità al Savio cassiere di rimettere all'ebreo Vivante, perchè gli trasmettesse a Milano, i sei mila zecchini in tante paste d'oro e d'argento, che ancora si ritrovavano nella zecca. Se tutte queste insidie, e rapine fatte a Venezia nell'ultima fine della sua vita da uomini fraudolenti ed avari, non muovono a sdegno ed a compassione, bisognerà confessare, che la natura nostra sia del tutto diversa da quella, di cui si vanta.
Avendo Venezia ceduto, vieppiù insorgeva Buonaparte. Non si soddisfaceva del tutto del mandato fatto ai legati di consentire al cambiamento totale della forma del governo: desiderava, che il maggior consiglio di per se stesso rinunziasse alla sovranità, abolisse il patriziato, e creasse la democrazìa. Gli pareva questa mutazione più solenne, e più sicura. Desiderava al tempo stesso di occupare co' suoi soldati Venezia, e far apparire, che l'occupazione di una città tanto nobile e tanto importante in Europa fosse spontaneamente chiamata da dentro, non violentemente prodotta da fuori. In questo si proponeva anche altri fini di non poco momento, ed erano l'entrare di queto, l'avere intiero ed intatto l'arsenale, e tutto, che fosse del pubblico, il poter volgere tutte le forze del territorio Veneto contro l'imperatore, se la pace non si effettuasse, e contro l'Inghilterra, che tuttavia perseverava in condizione ostile; finalmente il poter trafficare della città stessa con l'Austria, dandogliela in vece di Mantova e di Magonza, che ad ogni modo la Francia voleva conservare in sua possessione. Per la qual cosa, mentre Villetard, e chi operava con lui tendevano insidie al governo in Venezia per ispegnerlo, Buonaparte negoziava molto apertamente fra i conviti e le feste, un trattato coi legati della repubblica in Milano.
All'indurre il gran consiglio a cambiare lui medesimo la forma del governo, ed all'introduzione di un presidio Francese indirizzavano Villetard, ed i Veneti che il secondavano, tutti i loro pensieri. Per questo si rendeva necessario il privare Venezia delle sue difese con disarmare i legni, e con allontanare gli Schiavoni, che vi alloggiavano in numero circa di dodicimila. Per questo Morosini, che aveva il carico di preservare quell'antica sede della sua patria, spargeva, che i congiurati crescevano di numero e di forza, che oggimai non si potevano più frenare, che nuovi soldati abbisognavano. Intanto da persone a posta si accusava la fede degli Schiavoni, si affermava, voler loro far un moto per saccheggiare. Dava favore a questi spaventi Condulmer, affermando, non essere le difese apprestate nelle lagune abili ad arrestar i Francesi, ove si risolvessero a passarle per assaltar Venezia; già esser grossi a Mestre, già da Fucina minacciare, già Brondolo, e Chioggia pericolare dalle armi loro.
Quando più operava nell'animo dei patrizi il terrore, parendo ai congiurati, che fosse il momento propizio, si appresentavano, per suggestione di Villetard, alle camere del doge Spada e Zorzi, facendo una gran pressa di essere uditi per cosa che, come dicevano, importava alla salute della repubblica. Furono destinati ad udirgli Pietro Donato, e Francesco Battaglia. Quest'era un concerto, perchè Donato, e Battaglia avevano avuto colloquio con Villetard al tempo medesimo dei due congiurati Spada e Zorzi, e sapevano quanto a narrare avessero. Rapportavano, essere stati con Villetard, avere udito da lui, che niun altro rimedio restava alla repubblica, che quello di cambiare incontanente la forma del governo con l'abolizione del patriziato. Si ordinava dal consesso, contrastanti però Erizzo e Priuli, e la maggior parte dei Savi di terraferma, a Donato, ed a Battaglia, visitassero il segretario di Francia, e intendessero da lui quello, che vero fosse dei detti di Spada, e di Zorzi. Tornati, riferivano, Villetard, non per modo di richiesta, ma di consiglio, avere dimostrato, importare alla salute della repubblica, come intenzione espressa di Buonaparte, che si abolisse nel giorno stesso il patriziato, s'instituisse la democrazìa, e di più le seguenti condizioni si effettuassero: si carcerasse il conte d'Entraigues, agente del re Luigi, e tutti i suoi ricordi si dessero in mano del generalissimo; si liberassero i carcerati per opinione; gli Schiavoni partissero; si surrogasse una guardia nazionale; si pubblicasse un manifesto per voce del governo; si creasse un municipio di trentasei Veneziani di ogni classe; le città di terraferma, e dell'isole Venete s'invitassero a mandar deputati in Venezia a fine di comporvi un consesso generale di governo temporaneo; tutti i delitti politici si condonassero; vi fosse libertà di stampare, sì veramente che del passato nè quanto alle persone, nè quanto al governo non si parlasse; si chiamassero i Francesi a presidiar la città con quattromila soldati, ed occupassero l'arsenale, il castello Sant'Andrea, Chiozza, e tutte le isole circonvicine, che fossero a grado del generalissimo; con questo l'assedio si togliesse; la guardia nazionale custodisse la camera, ed altri posti d'onore. Il doge Manin fosse presidente del municipio, Andrea Spada vice-presidente; Querini si richiamasse da Parigi; si mandassero deputati a Buonaparte per annunziar la nuova forma del governo; si spacciasse col fine medesimo alle repubbliche Batava, Cispadana, Transpadana, e Genovese.
A questi capitoli aveva voluto aggiungere Villetard l'abolizione della pena di morte; ma contrastato da Battaglia, se ne rimase. Altre condizioni aveva anche proposto Villetard, come giovane, e molto vivo in queste faccende, si aprissero i piombi a vista di popolo, l'albero di libertà si piantasse in piazza San Marco, si ardessero ai suoi piedi le insegne dell'antico governo. Ma Battaglia più prudente, e meglio avveduto delle cose del mondo, considerato che l'importanza del fatto consisteva nel ridurre il governo alla democrazìa, e nell'occupazione di Venezia dai Francesi, e che le dimostrazioni proposte più futili che utili, avrebbero potuto contrariare la deliberazione nel maggior consiglio, lo dissuase.
Accordati tutti questi capitoli fra i deputati della consulta del doge, ed il segretario di Francia, restava, che il maggior consiglio gli approvasse. Per questo Donato, e Battaglia avevano persuaso a Villetard, il quale voleva, che senza soprastamento si mettesse mano all'opera, aspettasse tre o quattro giorni, affinchè potessero fare le pratiche necessarie per indurre il maggior consiglio alla risoluzione. Incominciavano il maneggio con le solite promesse, e coi soliti spaventi: fra le altre insidie si mandava attorno una lettera di Haller, apportatrice delle risoluzioni di Buonaparte, che cessassero i dritti ereditarj, che si creasse la democrazìa, che si fondasse il governo rappresentativo: se nol facessero volontariamente, verrebbe egli a farlo per forza. Di notte tempo Spada svegliava all'improvviso Battaglia (quest'era una macchina concertata) gli mostrava la lettera, la mattina molto per tempo la recava alla signorìa. Il perchè la signorìa non abbia fatto gettar in canale lo Spada, che contro le leggi della repubblica andava, e veniva da un ministro estero, fu perchè la signorìa, e la consulta straordinaria del doge era parte debole, parte ingannata, parte d'accordo coi novatori. Intanto gli Schiavoni, sola sicurezza contro gli assalti e forestieri ed interni, erano stati fatti imbarcare, e già se ne stavano sulle navi, aspettando il vento prospero per alla volta di Zara; le lagune disarmate da Condulmer. Così Venezia, che aveva conquistato Costantinopoli, cacciato d'Italia un re di Francia, ed un imperatore d'Alemagna, ridotta ora inerme, ed abbandonata, collocava la sua fede, e la sua speranza in un nemico, che sotto spezie di amicizia la tradiva.
Era il giorno dodici di maggio destinato da chi regge queste umane cose alla distruzione della Veneziana repubblica. Era adunato il maggior consiglio, gli arsenalotti, ma pochi li custodivano; le navi difenditrici ritirate dall'estuario si accostavano vuote al Lido; si vedeva un avviluppamento degli ultimi Schiavoni, che s'imbarcavano; il popolo atterrito, nè ben sapendo che significassero quei sinistri presagi, si raccoglieva in folla intorno al palazzo: i congiurati di dentro discorrevano per ridurre il maggior consiglio a spegnere l'antico governo; i congiurati di fuori spargevano mali semi. Aiutava le fraudi loro la risoluzione del primo maggio favorevole al modificare le antiche forme. La setta democratica trionfava.
Orava il doge pallido, e tremante sui pericoli presenti: parlava delle congiure, dei desiderj di Buonaparte, dell'inutile resistenza e delle promesse date, se si riformasse: proponeva infine il governo rappresentativo. Mentre si stava deliberando, ecco udirsi improvvisamente alcune scariche d'archibusi fatte per festa, e per forma di saluto nell'atto del partire degli Schiavoni, che nel sottoposto canale s'imbarcavano; rispondevano, ugualmente per festa, e per forma di saluto coi tiri loro i Bocchesi alloggiati a san Zaccaria. Un subito spavento prendeva gli adunati padri; credettero, che fossero i congiurati intenti ad ammazzare il doge, e tutto il ceto patrizio, siccome n'era corsa la fama per le congiure; si aggiravano per la sala privi d'animo e di consiglio. Gridavano confusamente, e con gran pressa, parte parte, che in lingua Veneziana significava, squittinisi, squittinisi. Posto il partito, si vinceva con cinquecento dodici voti favorevoli, venti contrari, cinque non sinceri. A fine di preservare incolumi, diceva il decreto, la religione, le vite, e le sostanze degli amatissimi sudditi della città di Venezia, e di allontanare l'imminente pericolo di novità violente, ed altresì sulla fede, che fossero i giusti riguardi avuti verso il ceto patrizio, e verso tutti i partecipi dello stato, e con questo che la sicurtà della zecca e del banco fosse guarentita, conforme ai partiti già presi il primo, e quarto giorno di maggio; accettava il maggior consiglio il governo rappresentativo, purchè a questo fossero conformi i desiderj del generalissimo di Francia; ed importando, che in nissun momento senza tutela la patria comune restasse, si faceva carico ai magistrati di provvedervi. A questo modo i patrizi Veneti dell'antichissima loro autorità si dispogliarono, non con dignità in una tanta disgrazia, ma minacciati da due sudditi d'oscuro nome, ed aggirati da due colleghi infedeli; non per armi perirono, ma per insidie; non per imprudenza animosa, ma per imprudenza debole; non per assalto di un nemico aperto, ma per fraude di un amico disleale. Non mancò il popolo al governo, ma il governo al popolo, e morì una pianta con le radici buone, perchè era la testa guasta, nè ebbero i patrizi il conforto dello aver perduto lo stato per virtù soperchiata, perchè coraggio non mostrarono, e la cautela fu vizio. Epperò, se i buoni ebbero compassione a Venezia pel destino, la biasimarono per la debolezza; i tristi la schernirono. Ma certamente esempio terribile fu, e di funestissimi presagi pieno, quel tradire gli stati per prepararne la rapina. Il lagrimevole caso di Venezia turbò tutto il gius pubblico d'Europa, e fu peggiore di quel di Polonia, perchè in questo fu più violenza che fraude, in quello più fraude che violenza. I popoli presteranno difficilmente fede ai principi, quando ei dicono di essere i restitutori dei dritti, e degli stati legittimi, se prima non restituiscono Venezia. Forse alcuno dirà, che conviene all'Austria l'avere Venezia, ed al re dei Paesi Bassi l'avere il Brabante Austriaco: a questo sto cheto. Quanto all'Italia, perì con Venezia il principale fondamento della sua indipendenza, ed il più forte propugnacolo contro la potenza Alemanna. Era Venezia contro l'Alemagna quello, che era il re di Sardegna contro la Francia. Quella perì per fraude, questo per forza: si perdè l'indipendenza, non s'acquistò la libertà, l'Italia fu serva.
Poichè i patrizi ebbero preso il partito di rinunziare all'autorità propria, e di rimettere lo stato nelle mani di Buonaparte, tale un timore gli assalse in quelle stanze piene tuttavia delle immagini dei loro forti antenati, e di quanto fu da essi fatto di grande, e di glorioso sì in pace che in guerra, che non sapendo più nè dove restassero, nè dove gissero, si abbandonarono, come perduti, ad ogni affetto più disperato. Si ritraevano alcuni alle stanze private del doge, che tutto smarrito aveva dato ordine, che di tutti i ducali segni si dispogliassero: altri usciti all'aperto per ritirarsi alle case loro, lagrimando, e gridando, non è più Venezia, non è più san Marco, facevano uno spettacolo miserabile in mezzo alle turbe affollate, che ancora non ben sapevano, quale e quanta sciagura sovrastasse alla patria loro. I novatori, che pensavano, essere avvenuto quello che aspettavano, e tra questi un vecchio generale Salimbeni, soldato della repubblica, trepidando dall'allegrezza gridavano: viva la libertà. Ma il popolo, che prima era stato incerto, nè poteva recarsi nell'animo tanta abbiezione dalla parte dei patrizi, saputo il fatto, si accendeva di una furia incredibile ed incominciava minaccioso a fare una gran tumultuazione, chiamando unitamente il nome di san Marco. Cresceva la folla, a cui si erano fatti compagni pochi Dalmati non ancora imbarcati. Accorrevano le donne, i vecchi, ed i fanciulli, e con le voci davano gli ultimi segni del loro amore verso l'antica, e veneranda patria. Sventolavansi dalle finestre le bandiere di san Marco; tre si rizzavano sulle antenne piantate in cospetto alla chiesa di san Marco. Cominciavano le turbe rabbiose a correre gridando, e schiamazzando, e dove passavano, mettevansi a grado a grado fuori delle finestre le dilette bandiere. Ma non può il popolo sollevato star lungo tempo sui generali, anzi tosto dà nei particolari o d'amore, o d'odio. Avvertito, che in una delle contrade per alla piazza abitava un pizzicagnolo, che aveva fatto certe dimostrazioni a favor di un uscito dai piombi, correva alle sue case, ed in men che non si dice, sperdeva, o rompeva ogni mobile: poi trovatagli una nappa di tre colori addosso, gliela conficcava in fronte; già uno Schiavone stava in atto di mozzargli il capo, quando il mal arrivato, per iscampo della vita, prometteva di palesare i rei delle congiure. Nè così tosto usciva dalla sua bocca il nome di qualcuno, che una mano di popolo partiva per mettere a sacco la casa del nominato. Saccheggiavansi per tale modo Zorzi, Gallino, Spada, Zatta libraio. Fu avuto rispetto ai palazzi dei ministri, anche a quello di Francia. Villetard, non sapendo fino a qual termine potesse trascorrere quel furor popolare, si era nascosto dal ministro di Spagna. Là scriveva a quel governo, ch'egli medesimo aveva distrutto, che frenasse quell'impeto; là scriveva, la sollevazione essere opera degli agenti d'Inghilterra e di Russia, massimamente di Entraigues, quantunque nè l'Inghilterra, nè la Russia, nè Entraigues non vi avessero a fare cosa del mondo: la cagione era la distruzione del governo Veneziano procurata da Villetard medesimo; e bastavano bene le ingiurie fatte ai Veneziani, senza che vi fosse bisogno degli stimoli di Russia e d'Inghilterra. Villetard e Donato, ai quali più di ogni altro importava il calmar quel furore, facevano opera, che si adunassero alcune compagnie di soldati Italiani, e presidiavanne il ponte di Rialto. Vi conduceva Bernardino Reynier due cannoni, coi quali tratto, ed ucciso tre o quattro popolani, poneva fine a quell'incomposto accidente. Usavano Villetard, Donato e Battaglia la occasione, e preparato e mandato il navilio a Mestre la notte dal sedici al diciassette maggio, levavano, sotto il comandamento di Baraguey d'Hilliers, quattromila soldati Francesi. La mattina molto per tempo si scoprivano schierati sulla piazza di san Marco: soldati ed armi forestiere non mai viste in Venezia da quindici secoli. Creossi il municipio, si promisero cose, che non si attennero, lusingossi con le parole, gravitossi coi fatti, e tanto si continuò l'inganno, che la ricca e potente Venezia fu data, spogliata ed inerme, in preda all'imperator d'Alemagna. Da questo imparino i popoli, che la giustizia non è più fra gli uomini, che gli stati non si possono preservare che con le armi, e che il credere alle lusingherie ed alle promesse dei forestieri è un volere ingannarsi da se, per essere non solo preda, ma ancora scherno e segno di calunnie da parte dei forestieri medesimi.